Lobbisti dell’ambiente

Il fenomeno del riscaldamento globale, come suggerisce il nome stesso, non può riguardare esclusivamente le singole nazioni e neppure singoli continenti. Proprio perché globale necessita di una visione comune, una visione a partire dalla quale scegliere le azioni da compiere affinché gli uomini possano vivere bene sulla Terra.
Per far fronte a questa necessità sono state inventate le COP, le Conferenze annuali delle Parti sul clima, alle quali oggi partecipano 197 paesi (su 205) più l’Unione Europea. Questi furono infatti i paesi firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), il risultato del Summit della Terra del 1992 a Rio De Janeiro.
A partire dal 1995 le COP vengono organizzate ogni anno e oggi, che siamo vicini alla ventinovesima conferenza che si terrà a novembre a Baku, dobbiamo chiederci quali siano stati i risultati ottenuti e quale sia la situazione attuale.
Nel 1995 la Germania, con l’allora ministro dell’ambiente Angela Merkel, ospita la prima COP nella quale i firmatari accettano di incontrarsi ogni anno.
Da questa data ad oggi due sono state le COP più importanti. La COP3, durante la quale venne stilato il protocollo di Kyoto che promette di ridurre del 5,2% le emissioni globali rispetto ai livelli del 1990. Gli Stati Uniti, il paese che allora era il più inquinante al mondo, firmò l’accordo ma non lo ratificò.
La seconda è stata la COP21 di Parigi, in cui è stato trovato l’accordo per contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C e l’obbiettivo emissioni zero per il 2050. Come? Attraverso piani nazionali volontari.
Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, si ritirano dall’accordo nel 2019, per poi rientrare due anni dopo sotto la presidenza di Joe Biden.
La Cina e la Russia dovranno invece raggiungere l’obbiettivo entro il 2060, l’India (che ha da poco superato la Cina ed è diventato lo stato più popoloso del mondo) nel 2070.
E l’ultima COP? Com’è andata?
Il fatto che si sarebbe tenuta a Dubai, capitale di uno stato che fonda la propria economia sulla produzione e il commercio dei combustibili fossili nonché sesto esportatore al mondo di petrolio, non aveva fatto ben sperare sin dall’inizio.
Così come non aveva fatto ben sperare che fosse stato designato presidente della conferenza Sultan Al Jaber, ministro dell’industria e dell’avanzamento tecnologico nonché magnate del petrolio in quanto capo della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC). Queste premesse non hanno tradito le aspettative.
Durante la COP28, Al Jaber ha affermato in un’intervista al The Guardian che “nessuna scienza dimostra che abbandonare i combustibili fossili manterrà l’aumento delle temperature entro 1,5°C”, ignorando decenni di studi dell’impatto antropico sulla temperatura terrestre.
Fatto ancor più grave sarebbe che, secondo un’inchiesta della BBC, Al Jaber avrebbe approfittato del suo ruolo per negoziare accordi in materia di combustibili fossili durante le riunioni preparatorie e ciò sarebbe emerso dall’analisi dei documenti raccolti dai giornalisti del Centre for climate reporting (Ccr).
Altro dato preoccupante della COP di Dubai è stato il numero di lobbisti accreditati delle aziende di combustibili fossili, un’enormità: 2456, quasi cinque volte quelli della COP precedente.
Il risultato? Dopo lunghe trattative, è stata ottenuta la promessa di “allontanamento” dai combustibili fossili entro il 2050, con una formulazione vaga e poco chiara.

Per fortuna, alcuni passi positivi sono stati fatti. La diplomazia climatica esiste ed è anche molto importante che ci siano degli spazi dove essa possa agire. Questo permette inoltre visibilità a chi altrimenti non avrebbe modo di far sentire la propria voce.
Ne è un esempio l’assegnazione della COP23 (2017) alle isole Figi, in rappresentanza dell’alleanza AOSIS (Alliance Of Small Island States) composta da 42 stati che rischiano di ritrovarsi sommersi nei prossimi anni a causa dell’innalzamento dei mari.
Ciò che invece non fa ben sperare è la lentezza di questa macchina diplomatica, poiché a un compito già non facile si aggiungono interessi che ogni stato vuole proteggere.
Luigi C. – Roma

Anche un leone ferito può riaccendere il bello

Qualche domenica fa nella nostra parrocchia della Divina Provvidenza in Firenze, per chiudere un ciclo di conferenze sulla sfida educativa abbiamo ospitato la professoressa e preside dell’Istituto Tecnico e Alberghiero di Caivano, Eugenia Carfora. Nonostante l’orario desueto, quasi mezzogiorno, la sala era gremita ed evidentemente l’interesse per il tema e per l’ospite era molto alto. Carfora, infatti, è diventata celebre, con il nome di Preside Coraggio, già da diversi anni, grazie alla sua lotta e al suo impegno profuso nel rendere le scuole di Caivano un luogo non solo di aggregazione ma di speranza e riscatto per i ragazzi e le ragazze del Comune del Napoletano.
La Preside ci ha parlato della sua esperienza, del suo modo di percepire l’educazione sollecitandoci a essere vivaci, nel nostro piccolo: infatti, in quanto cristiani la nostra missione passa anche dal valorizzare gli altri e investire per il prossimo.

Chi è la professoressa Carfora?

«Sono da sempre abituata a realizzare i miei tuffi insieme ai ragazzi, nella mia vita non mi sono mai allontanata dal contesto giovanile e dalla scuola. Mi sono sempre impegnata nel sociale: quando ebbi l’occasione di andare a lavorare e Castelvolturno mi sono fatta carico di quei bambini che “venivano al mondo comunque”, figli di quelle donne, molte delle quali sfruttate, che quando avevano figli avevano bisogno della scuola e la ricercavano, mi dicevano che avevano bisogno di aiuto per i loro figli, che per loro era importante che andassero a scuola.

Mi pare che li abbia realizzato una consapevolezza importante.

È stato allora che ho realizzato che non per tutti la scuola è vicina, non per tutti la scuola è scontata. In quel momento ho capito che volevo fare questo nella mia vita: iniziai a occuparmi dei problemi della dispersione scolastica, perché mi resi conto che nessuno ne parlava. Mi accorsi che spesso ci si perdeva dietro la burocrazia, e che fra quello che mi dicevano ai convegni e ai corsi, e quello che poi accadeva nella realtà, c’era un abisso.

Poi venne il concorso del 2007!

Quando ho vinto il concorso da dirigente scolastica, nel 2007, emerse un elenco di scuole in cui c’era troppa dispersione scolastica. Venni, quindi, assegnata alla Raffaele Viviani, nel Parco Verde di Caivano, che era considerata la peggiore scuola d’Italia.
Nel parco Verde vivono poche persone, poco più di 3800. In questo pezzetto di terra il contesto è complesso: ci sono molte case che avrebbero dovuto essere temporanee, ma cui, poi, nessuno ha pensato più. Il problema, a mio parere, non è tanto della gente che ci abita, ma della dirigenza che non viene esercitata e dell’amministrazione che sfrutta la povera gente.
Ci sono due scuole, di cui una delle due è la Viviani. Quando arrivai per la prima volta a vedere la sede, mi trovai davanti a quella che non poteva essere davvero una scuola: un edificio abbandonato, chiuso catenacci davanti ai cancelli, materassi accatastati all’ingresso e una signora con una scopa che puliva il viale. Andai allora in succursale, ma una volta arrivata, non mi presentai come futura preside. Chiesi se ci fosse qualcun con cui poter parlare, mi dissero che erano tutti in ferie. Ovunque c’era disordine e confusione. Chiesi informazioni e mi spiegarono la situazione: nella sede centrale al Parco Verde nessuno voleva andare, c’erano molti studenti iscritti, ma la maggior parte non andava a scuola, i professori facevano tardi e i pochi ragazzi che si presentavano a lezione erano spesso lasciati soli in aula.
La mia sfida educativa, in quel primo periodo, è stata principalmente fare le pulizie, ripulire tutta la scuola e gli ambienti. Finita la parte di pulizia e riordino, sistemati gli spazi, mi aspettavo che i ragazzi sarebbero venuti a scuola, ma così non accadde, e capii che, in realtà, la mia nuova sfida educativa era far venire i ragazzi a scuola con gioia. Una mattina decisi di scendere in strada e andare per le vie a cercare i miei studenti. Camminando vedevo le persone su balconi delle case. Quando mi vedevano a loro volta, molti mi chiamavano, mi invitavano nelle loro case, mi offrivano il caffè: in questi gesti, in quei silenzi, vidi una disperata richiesta di aiuto. I ragazzi continuavano a non venire a scuola e mi chiedevo perché. Capii che questi giovani spesso sono partoriti con atti, non so se di amore, perché nella solitudine ci si incontra e si vivono le pulsioni.
Scoprii qualcosa nel Parco Verde: tutto lì era già predestinato. C’era bisogno di cambiare molte cose, così decisi di introdurre il tempo prolungato per tenere più tempo i ragazzi scuola, la stavo trasformando in un istituto di eccellenza. Volevo anche introdurre la possibilità di crescere i bambini fin dall’infanzia, ampliare i gradi di istruzione per evitare la dispersione scolastica. Il mio progetto, però, è stato bloccato dai colletti bianchi che detenevano il potere nel territorio, che mi hanno costretto ad andare via.
Alla fine, fui spostata in una scuola che, secondo i piani, doveva sparire dalla mappa di Caivano. Si diceva che mancassero le aule, ma io ne trovai 30 vuote, utilizzabili, mentre tutti dicevano che era necessario costruire altre scuole. Ricordo che, in quei mesi, ci fu un ragazzo che venne a dirmi che ero come un leone ferito: soffrivo, ma non ero morta. Anche grazie a queste parole decisi di accettare il posto e buttarmi in questa impresa. Non so se ho svolto bene il mio lavoro di preside, ma sicuramente ho fatto una scelta: per metà sono una preside, per l’altra metà sono ciò che mi passa per la testa. Iniziai a sistemare tutto anche nella nuova scuola, mi sono messa a lavorare con altre persone per creare la bellezza interna, fatta di sacrifici e pulizia. Sfida educativa vuol dire anche prendersi le responsabilità, agire attivamente, senza scorciatoie.

Cosa vuol dire, quindi, sfida educativa?

Credo che si possa fare n paragone fra la Scuola e la Chiesa: la Chiesa cerca di curare le anime, ma non ha la responsabilità di certificare i risultati delle persone, cosa che invece deve fare la Scuola. La Chiesa ha l’obbligo morale di dare una carezza a chi sbaglia e a chi si perde. La Scuola ha mezzi diversi, ma ha scopi, secondo me, comuni: dare alla famiglia umana dei valori, non solo predicandoli, ma praticandoli attivamente. La Scuola si divide in semi e germogli: entrambi cadono nel terreno. Se il terreno è inquinato, va pulito con le nostre mani. Gli educatori devono riuscire ad essere di fianco ai ragazzi e alle ragazze, devono essere modelli, non devono portare nella direzione che vogliono loro ma devono riuscire ad instaurare un colloquio, un ascolto: da questo il concetto di rigenerazione. Per contare bisogna esserci: è importante come ci comportiamo in tutti i giorni, dobbiamo scegliere fin dall’origine cosa fare nella nostra vita, altrimenti si corre il rischio di perdere tutto. Non importa se abbiamo l’approvazione degli altri, perché può venire meno da un momento all’altro. L’importante nella vita è condividere una missione e una visione. Io al Parco Verde ho immaginato di portare la bellezza e ho cercato di rendere visibile all’altro il bello, impegnandoci per superare giudizi e pregiudizi, per evitare di creare un ghetto. Dobbiamo riuscire a far nascere nei giovani la volontà di ricreare il bello e il benessere anche nelle periferie.
È importante che i ragazzi imparino che niente arriva per caso, che è necessario impegnarsi e coltivare i propri talenti, ricordando che niente è dato per scontato. Gli educatori, però, hanno come sfida educativa quella di aiutare i ragazzi a far emergere i propri talenti, investire nei ragazzi là dove gli altri non investono, aiutandoli a scoprire le proprie passioni e ambizioni. I miei studenti sono esemplari in questo, perché senza avere niente, sono riusciti a creare la bellezza: ognuno di noi sta lavorando per ricucire la coesione sociale e la responsabilità in questi luoghi, ma è un percorso lungo, che passa attraverso la responsabilità di tutti, come singoli e come collettività.
Sfida educativa è utilizzare ogni attimo di vita che abbiamo, ricordando che ciò che conta non è l’apparenza ma la sostanza.

Quali ricchezze si sente di trovare nei luoghi in cui lavora quotidianamente? Sono ricchezze che in altri contesti non si riesce a cogliere?

Ci sono tanti sguardi, tante parole. Un semplice saluto, un buongiorno, per me quella è ricchezza. Spesso in città la gente non si saluta più, mentre io nel mio lavoro trovo gente che mi saluta, gente che mi chiede aiuto. Tutto questo mi da la forza di credere ancora nell’umanità e nello stare insieme.

Secondo lei, quanto il benessere economico e sociale incide sulla ricettività degli studenti e su come i ragazzi si approcciano alla scuola?

Io credo che la cosa veramente importante sia stimolare a creare e far emergere il bello e la creatività nei ragazzi, affinché diventino orme e tracce su cui progettare il proprio percorso in futuro. Per questo credo che non sempre il benessere economico sia la vera ricchezza, il vero benessere è tutelare i valori.

L’educazione non riguarda solo i ragazzi e la scuola, ma anche gli adulti. Anche questi dovrebbero essere in qualche modo rieducati all’ascolto e a piccole attenzioni nel modo in cui si rapportano con i giovani?

Gli adulti hanno smesso di essere modelli, e questo è un pericolo, perché se i giovani vedono che i genitori non parlano più, che gli adulti fanno finta di niente e si lamentano e basta, non è più un ruolo di guida positiva. Gli adulti dovrebbero imparare a mettersi accanto e a rimodulare il loro modo di approcciarsi, per evitare di creare un muro fra loro e i giovani. Forse noi adulti dovremmo diventare un po’ invisibili e renderci capaci di ascoltare i giovani, mettendo a disposizione la nostra esperienza.

Cosa la sostiene in queste sue scelte così coraggiose e faticosa?

Quando ti rendi conto che c’è da fare, non ti chiedi se ce la farai. In questi luoghi, la forza emerge senza che tu te ne accorga. Mi immagino la vita come una consegna di testimone, dove creo qualcosa di bello per ciò che verrà in futuro.

Secondo lei quale è il problema principale della scuola?

Ci siamo innamorati di ciò che abbiamo costruito in passato, ma siamo rimasti fermi lì. Dobbiamo trovare il coraggio di far diventare la professione di docente la più bella del mondo, ma io vedo sempre meno persone appassionate. Vorrei una scuola che faccia innamorare i ragazzi della cultura, che li incanti in aula e che li faccia innamorare della materia. Bisogna stimolare la cultura e lasciare spazio ai ragazzi di emergere con le loro idee. Credo che dovrebbero essere introdotte tre discipline fondamentali nella scuola: la filosofia, il diritto e l’economia sana.

C’è stato un momento dove ha capito che ciò che stava facendo si stava davvero concretizzando?

C’è un episodio che vorrei raccontare. C’era una ragazza che non riusciva proprio a stare a scuola, aveva molte difficoltà a studiare. Era già stata non ammessa due anni consecutivi alla classe successiva, però mi ero accorta che ogni cosa che toccava, la faceva brillare, puliva tutto alla perfezione, riordinava gli ambienti e sistemava le cose. Una volta le chiesi cosa le piacesse davvero fare, lei mi rispose che le piaceva fare e pulizie e tenere la casa pulita. Facemmo un accordo: lei mi promise che avrebbe seguito tutte le prime ore di lezione, e io in cambio le promisi che avrebbe potuto ripulire e sistemare tutto il mio ufficio come meglio credeva. In questo modo, riuscii a farle seguire le lezioni a cui non era mai andata.

Giulia C. – Firenze

Gioia e speranza della Quaresima 2024

Diciamo che la lettera di papa Francesco per la Quaresima 2024 affronta temi profondi e universali che vanno al di là delle divisioni religiose. Innanzitutto, il richiamo alla libertà come dono divino e la necessità di uscire dalle schiavitù interiori e esteriori risuona in modo potente. Anche se non si condivide la fede cattolica, il concetto di liberazione e di ricerca di una vita piena e autentica è qualcosa a cui molti possono aspirare.
Inoltre, il messaggio mette in luce la responsabilità individuale e collettiva nel riconoscere e rispondere alle sofferenze degli altri. L’invito a non essere indifferenti di fronte alle ingiustizie e alle oppressioni richiama alla nostra comune umanità e alla necessità di solidarietà e compassione. Questo è particolarmente rilevante in un’epoca segnata da conflitti, disuguaglianze e crisi umanitarie su scala globale (ahimè).
La lettera sottolinea anche l’importanza di agire concretamente per il bene degli altri e per la cura del creato. Questo richiamo all’impegno sociale e ambientale ci spinge a considerare le nostre azioni quotidiane e le loro implicazioni sul pianeta e sulla vita degli altri esseri umani. È un appello a una maggiore consapevolezza e responsabilità nell’utilizzo delle risorse e nella gestione dei rapporti interpersonali.
Anche se il mondo può sembrare segnato da divisioni e conflitti, il richiamo alla conversione personale e collettiva verso un modo più autentico e inclusivo di vivere offre una prospettiva luminosa per il futuro. In definitiva, la lettera invita tutti, indipendentemente dalle proprie credenze, a riflettere sulle proprie azioni e a impegnarsi per un mondo migliore fondato sull’amore e sulla giustizia.
Per realizzare questa novità è necessario però liberarci dalle nostre schiavitù, dai nostri idoli. A questo proposito mi pare interessante e utile sottolineare il parallelismo che il papa pone tra il percorso, la vita di Gesù e il percorso dell’Esodo, della liberazione degli ebrei dal Faraone d’Egitto. Gesù è colui che ci insegna a vivere nel deserto, a ri-conoscere noi stessi, a liberarci dal “faraone” che ci opprime.
Il deserto dei 40 giorni di quaresima è il luogo dove operare un maquillage del nostro volto, ma non solo una estetica di facciata, bensì del pensare, dell’amare, del decidere. Nel deserto il credente ri-trova il suo volto nel volto di Gesù, non un volto fotocopia, ma un volto, una storia che ritrova nella storia di Gesù la matrice sulla quale costruire la propria vicenda di uomo e di credente libero.
Non la malinconia. «Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.»
Papa Francesco ci racconta quella ventata di speranza che in questo periodo serve a tutti per sperare e per risollevarsi, una ventata che spesso ci dimentichiamo di avere per poter vivere una vita che possa rendere felici e speranzosi gli altri oltre che noi stessi.
Infine, «Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività.» La creatività è uno dei doni più belli che l’umanità possa avere. È bello capire che la Quaresima può essere il periodo in cui l’umanità smarrita può sempre trovare la strada per fare cose nuove.
Vincenzo, Gianluigi, Andrea

Cocciuti nel seguire il vangelo

Milano, 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo; in questo giorno così importante per i Barnabiti, siamo a Milano comunità di san Barnaba per incontrare tre persone che il prossimo 18 febbraio diventeranno barnabiti per sempre. Sylvan, Luca, Isaac.
Sylvan (NKONGOLO Wa Mutombo di Kinshasa RDCongo), 33 anni.
La gioia è la parola che di più usa per parlarci di sé. La gioia invocata per lui dai suoi genitori prima di entrare in seminario a 2000km di distanza da loro!
La gioia di sentirsi per questo mondo, che spesso oggi sembra lontano dai valor cristiani, utile e significativo nonostante le proprie imperfezioni.
La gioia di conoscere sant’Antonio Maria Zaccaria che si fida molto di me, che mi incita a crescere continuamente nel fare il bene, nel superare la tiepidezza.
Per questo chiedo ai giovani di non avere paura di ma di rischiare la vita non solo con le parole, ma con azioni concrete. Mentre agli anziani chiedo di avere fiducia in noi e sostenerci.
Un po’ diversa la storia di Luca (Spreafico di Eupilio), età 37, laureato in scienze agrarie.
Infanzia e giovinezza in oratorio dove ha incontrato i Barnabiti, il loro impegno per i giovani e la fraternità e il costante buon umore di p. Albino Dutto.
Per questo anche in futuro vorrebbe trovare il medesimo clima sereno e fraterno, peraltro già vissuto durante l’anno di noviziato in Chile.
E se hai barnabiti anziani chiede di essere meno cocciuti ed egocentrici! ai giovani dice di prendere sul serio la vita di fede con la sua bellezza e provocazioni.
Infine, Don Isaac (Segovia, Choré/Paraguay), 40 anni, laureato in diritto canonico.
E una vocazione adulta, per questo ha avuto modo di girare diverse comunità barnabitiche del Brasile dal Sud al Nord, scoprendo i differenti modi di vivere la fede. «Prima della vocazione ho lavorato nel Congresso nazionale del Paraguay, quindi con i bambini di strada a Sao Paulo. In tutti questi giri, ma anche oggi, il ricordo che mi sostiene è la famiglia. Di questa nuova famiglia barnabitica invece voglio percepire continuamente il desiderio di una riforma continua: non siamo mai santi abbastanza. Per questo chiedo ai padri più anziani chiedo di stare insieme ai più giovani per illuminarli, per crescere con la loro storia viva da condividere. Infine, un desiderio: mi piacerebbe lavorare come barnabita nell’Università.»
Poche righe per tracciare il profilo di grandi storie di oggi per il futuro, radicato in una famiglia religiosa che proprio oggi (era il 18 febbraio 1533 a Bologna) festeggia il proprio compleanno. Quale regalo più bello che la professione solenne, cioè la scelta di seguire per sempre la strada del vangelo secondo la via tracciata da S. Antonio M. Zaccaria ?

Belém 2025 – COP30

Belém não é apenas o destino desta minha viagem, Belém, porta de entrada para a Amazônia, é a cidade escolhida para sediar a COP30 (conferência das partes organizada pela ONU sobre problemas climáticos) em novembro de 2025.
O que tenho a ver com a COP30?
O que os Barnabitas têm a ver com isso?
Não sou um cidadão deste mundo?
Os Barnabitas não são chamados a servir este mundo, a reconhecer os seus gemidos e dores, a trazer esperança e justiça?
A questão climática não é apenas ideologia ou moda atual: para um crente significa cuidar da criação na qual Deus nos colocou. A ecologia diz respeito ao clima e ao ambiente, mas antes de tudo ao próprio homem, à forma como o homem e a mulher se reconhecem para além ou antes de reconhecerem o ambiente.
Os Barnabitas estão presentes em Belém há 110 anos. Quem vive mais as alterações climáticas e as consequências para a natureza e para os homens e mulheres do que eles? Quem mais do que eles, pode nos ajudar a construir caminhos de verdade e justiça?
Faz sentido que um homem simples e desconhecido vá perturbá-los vindo da Itália?
Somos cidadãos deste mundo, responsáveis pelos danos causados e pelas soluções a oferecer e construir.
Devemos isso, em primeiro lugar, aos jovens e às crianças com quem trabalhamos, se não quisermos ser hipócritas. Devemos isso à Verdade. Devemos isso a Deus!
Talvez os nossos jovens consigam intervir diretamente na COP30, mas este não é o objetivo final.
Belém não é apenas o destino da minha viagem, Belém é a oportunidade para exortar a nós, Barnabitas, a uma pastoral renovada para uma ecologia integral.
Giannicola M. prete
29 janeiro 2024

In viaggio verso Belém do Parà

Belem non è solo la meta di questo mio viaggio, Belem, la porta dell’Amazzonia, è la città scelta per ospitare nel novembre 2025 la COP30 (conferenza delle parti organizzata dall’ONU riguardo i problemi del clima).
Che c’entro io con la COP30?
Che c’entrano i Barnabiti?
Non sono forse io un cittadino di questo mondo?
Non sono forse i Barnabiti chiamati a servire questo mondo, a riconoscerne i gemiti e i dolori, a portare speranza e giustizia?
La questione climatica non è solo ideologia o moda del momento: per un credente è prendersi cura del creato in cui Dio ci ha posti. L’ecologia riguarda il clima e l’ambiente ma prima di tutto l’uomo in sé, il modo in cui l’uomo e la donna si ri-conoscono oltre o prima di ri-conoscere l’ambiente.
A Belem i Barnabiti sono presenti da 110 anni, chi più di loro sperimenta i cambiamenti climatici e le conseguenze sulla natura e sugli uomini e le donne?
Chi più di loro può aiutarci a costruire dei percorsi di verità e giustizia?
A senso che un semplice e sconosciuto uomo vada a disturbarli dall’Italia?
Siamo cittadini di questo mondo, responsabili dei danni operati e delle soluzioni da offrire e costruire.
Lo dobbiamo prima di tutto ai giovani e bambini con cui lavoriamo, se non vogliamo essere ipocriti.
Lo dobbiamo alla Verità. Lo dobbiamo a Dio!
Forse i nostri giovani potranno intervenire direttamente alla COP30, ma non è questa la meta finale.
Belem non è solo la meta del mio viaggio, Belem è l’occasione per sollecitare noi Barnabiti a una rinnovata pastorale per una ecologia integrale.

Giannicola M. prete
29 gennaio 2024

SANTOCIELO

«Se qualcuno ci ascolta o no è secondario, ma mi sento meno solo quando prego.»
Dal 14 dicembre è nelle sale il nuovo film di Ficarra e Picone, Santocielo, diretto da Francesco Amato; già regista di 18 regali.
Personalmente, il loro cinema non mi ha quasi mai convinto a differenza di quando li vedo in televisione. Nonostante il trailer non mi abbia fatto suscitare nulla, ero curioso di vederlo perché in primis il duo comico ritornava a parlare di religione dopo Il primo Natale e di cose legate all’ambiente cattolico, ma anche perché la nuova pellicola verteva su un argomento tanto interessante quanto delicato: un uomo che resta incinto per uno sbaglio commesso dall’Angelo mandato dal Padre Eterno con lo scopo di far nascere un nuovo Messia. Come si può capire, la premessa è fantasiosa e surreale. Ero quindi curioso di vedere se la coppia riusciva nell’intento di far riflettere gli spettatori e la critica circa un tema difficile da trattare e molto facile da far sfuggire di mano se non si riesce ad amalgamare bene con la trama, la durata e il racconto che vuole essere pure comico.
Il primo tempo può risultare anche carino da guardare, nonostante non si fosse prestato subito a rispettare le mie attese. La trama è molto banale e anche certi passaggi nel film non sono da meno. Ci sono diversi difetti: troviamo Giovanni Storti nei panni di Dio, uno dei ruoli più funzionali del film, ma lo si vede soltanto pochi minuti in circa due ore di pellicola. Inoltre, la durata è troppo lunga perché le commedie simili a questa dovrebbero durare sui 90-100 minuti. È un film che tratta l’inversione dei sessi in modo molto leggero, confuso nei suoi intenti e poco incisivo con l’umorismo. Tutto sembra spento, anche le gag non sembrano divertenti e spesso forzate.
Nel secondo tempo invece troviamo problemi legati alla Bibbia che possono essere orientati verso una mancanza di coraggio nell’affrontare certe tematiche. Santocielo sembra voler parlare della Chiesa che, come nella realtà, non accetta l’unione tra due persone dello stesso stesso, figuriamoci doversi trovar di fronte ad un uomo che deve partorire suo figlio. Da questo pretesto sarebbero potute nascere cose interessanti e stimolanti che avrebbero portato il pubblico a ridere, ma anche e soprattutto a pensare e riflettere su ciò appena visto. Mi è sembrato che il film non volesse aprire alcune porte, bensì tenersi nella “safe zone”.
Si va verso un finale accomodante, per niente incisivo dove forzatamente regnano i buoni sentimenti, ma dove anche non si ha il coraggio di criticare nessuno. Tutto quello che potrebbe essere devastante viene trattato come una piccola notazione irrilevante, macchiettistico e caricaturale. Come, ad esempio, la storia d’amore parallela tra l’Angelo e la suora. Essa è esterna al tema del film, ma condotta con una banalità che lo spunto non avrebbe. Pensiamo infatti a come una suora si sentirebbe e cosa proverebbe qualora si dovesse mai innamorare di una persona. Probabilmente le susciterebbero pensieri lontani dal percorso che ha scelto per la sua vita, e quindi di star perdendo la propria fede.
In Santocielo però ci sono proprio in ballo questioni cristiani come l’aborto o la tendenza degli umani a invocare l’aiuto divino per questioni triviali o altre situazioni scherzose che solitamente il cinema cristiano non fa. Quindi anche qui, non si capisce molto bene il taglio che hanno voluto dare all’opera. Avrei preferito e mi sarebbe piaciuto vedere uno spettacolo che, tra una risata e l’altra, denunciasse anche l’aspetto più bigotto della Chiesa (che non significa essere anticlericali) circa le unioni omosessuali, in quanto, lo ripeto, avrebbe fatto riflettere su una piaga che coinvolge la Chiesa da anni.
Marco C. – Milano

Per le strade

La strada, non una strada qualsiasi, anzi le strade è la caratteristica dei Magi che vanno a Betlemme. Oggi, ma non è proprio così, si chiude il tempo del Natale, con questa immagine tra il fantastico e il romantico. Ma non è questa la strada che ci vuole tracciare il Dio fatto bambino a Betlemme e uomo, dopo 33 anni, a Gerusalemme.
La strada che un credente è chiamato a percorrere è quella dell’innamorato, è quella del costruttore di Pace – lo dicevano a Natale e al 1 gennaio, è quella del cercatore della verità – lo diciamo oggi.
I Magi non sono degli abitudinari, sono degli Innamorati della vita e forse diventeranno innamorati di questo Dio fatto bambino. Ma Dio non si formalizza, Lui è tanto innamorato di ognuno di noi che si “accontenta” che noi ci innamoriamo della Vita, della Pace, dell’Umanità. D’altra parte nel racconto dei Magi non si dice il nome di Dio: Gesù, ma semplicemente “videro il bambino con Maria sua madre”. Il volto di questo bambino è il volto dell’Umanità.
Un cristiano innamorato è un cristiano che si sa inginocchiare davanti al volto di questa umanità offrendo i propri doni: ognuno quelli che ha! Anche i propri peccati – parola desueta!
Siamo innamorati o abitudinari?
L’innamorato è colui che è sempre in ricerca sulle strade della Vita; è colui che conosce il rischio di poter sbagliare strada; è colui che non si assoggetta al potere ma sa distinguerlo tra vero e falso; è colui che adorare, contemplare perché la verità non è un veloce messaggio: richiede tempo e profondità. L’innamorato è colui che non cerca il nulla, l’ignoto, ma un volto; è colui che supera l’individualismo ma si affida ad altri e dona fiducia ad altri. I Magi non erano 1, forse 3, forse di più. Uomini e donne che hanno imparato il rischio della fiducia reciproca.
Concludo con le tre citazioni che mi hanno accompagnato in queste feste di Natale:

«Ci vuole coraggio per camminare, per andare oltre. È questione di amore. Ci vuole coraggio per amare… La fatica, oggi, è quella di trasmettere passione a chi l’ha già persa da un pezzo. A sessant’anni dal Concilio, ancora si dibatte sulla divisione tra “progressisti” e “conservatori”, ma questa non è la differenza: la vera differenza centrale è tra “innamorati” e “abituati”. Questa è la differenza. Solo chi ama può camminare.» papa Francesco.
«Com’è possibile che in ogni ambito si studino teorie e pratiche innovative, mentre la violenza rimane l’unico, arcaico mezzo per risolvere i conflitti fra gruppi, popoli, nazioni?
Com’è possibile che manchino sempre le risorse per la salute, l’istruzione, la lotta alla povertà o al cambiamento climatico, mentre i soldi per le armi si trovano sempre, persino nei paesi più disastrati? Cercare la pace interiore non significa pacificare la nostra coscienza. La pace può e deve convivere con l’inquietudine, col dubbio, con le domande che danno senso e sapore all’esistenza.» Don Luigi Ciotti
«Poi gli offriamo i nostri doni: l’oro, cioè la libertà (la cosa più preziosa che hai), la decisione di giovarti col segno. L’incenso, cioè la preghiera – la Messa, le lodi, i canti… – e la mirra. E questo è il dono più difficile; perché è il sacrifico, l’offerta, il dono di sé.» Angelo Scola, vesc.

La baraonda informativa

La baraonda dell’informazione

Le opportunità di avere molta informazione e la baraonda che ne deriva è un tema sentito dai diversi giovani. I giovani che ho incontrato in questi giorni di preparazione al Natale ne sono ben consapevoli. Sanno che oggi sapere tante cose, conoscere quello che succede in tanti paesi lontani dall’Italia è una opportunità per sentirsi di più cittadini del mondo e ciò è bello. Però il numero enorme di notizie è anche faticoso da sopportare, perché sono troppe per le nostre capacità elaborative, perché non sempre sono approfondite. Il fatto poi che molte, quasi tutte le notizie, siano lanciate on line, siano visibili agli occhi e non udibili dalle orecchie non migliora la situazione.
Allora il monito di san Paolo non adattatevi alla mentalità di questo mondo, il Signore non guarda l’apparenza ma il cuore è molto adatto per affrontare questa situazione. Proprio di fronte all’informazione non possiamo fermarci alla superficie, dobbiamo andare in profondità, non possiamo fidarci della grida di questo o di quello ma cercare il vero anche se ciò costa fatica. C’è una democrazia dell’ignoranza che impera e che siamo chiamati, come credenti a fermare. E su questo i social, che pure sono utili per molti ambiti dell’informazione, ci avvelenano: ci impediscono di pensare senza essere pensati, di pensare in libertà. Ci impediscono di coltivare la pazienza della ricerca anche per noi “comuni mortali”. La pazienza, l’attesa, la ricerca, la soglia di attenzione sono il problema principale dei nostri giovani. Ma ciò è anche colpa nostra: che non riusciamo più a gestire la pazienza, il tempo necessario per operare ciò che la vita ci chiede; che non siamo più capaci di farci vedere “disconnessi” dai nostri figli.
Non adattatevi alla mentalità di questo tempo. Fate digiuno, almeno intermittente, del vostro smartphone, del vostro pc. Abbiate il coraggio di restare “off” quando cenate o quando siete insieme: arriverà il silenzio? Dopo il silenzio arriverà la parola.
Guardate al cuore non all’apparenza. Riprendere in mano un libro, uno spartito. Non andate a manifestare con gli slogan degli altri, scrivete i vostri: pazienza se non fanno like, se non vanno in trend topic. Non è vero che hanno tutti ragione, che non c’è niente da insegnare a nessuno. C’è moltissimo da insegnare, ad avere la buona sorte di trovare maestri. C’è moltissimo che resta da capire.
Nel vostro quartiere c’è ancora una edicola? approfittatene, comprate un quotidiano; lo leggerete il giorno dopo? Non importa. Fate riscoprire ai giovani le dita sporche dell’inchiostro della stampa, il fruscio della carta. Aiutate a capire che una edicola è una opportunità per un quartiere, è una opportunità di relazione. Insegnate loro, e forse un poco anche a voi, che il cristiano non vive fuori della Storia, ma nella Storia di tutti gli uomini e in quella Storia le mani se le vuole sporcare.
Perché sporcarsi le mani? Perché così ha fatto Jahweh almeno due volte: quando ha plasmato l’uomo e la donna, quando ha mandato il suo Figlio in mezzo a noi. Anzi continua a sporcarsi le mani attraverso l’azione continua dello Spirito santo tra di noi.
Giorgio Montini, padre di Giovanni Battista nonché Paolo VI, era direttore del Giornale di Brescia che il regime fascista fece chiudere assaltando e distruggendo la tipografia perché faceva pensare!
Lorenzo Milani, del giornale fece la scuola principale dei suoi allievi.
David Sassoli, del suo giornalismo fece un servizio alla politica dell’Europa. «Il periodo del Natale – scriveva nel suo ultimo augurio – è il periodo della nascita della speranza e la speranza siamo noi quando non chiudiamo gli occhi davanti a chi ha bisogno, quando non alziamo muri ai nostri confini, quando combattiamo contro tutte le ingiustizie. Auguri a noi, auguri alla nostra speranza.»
Le opportunità informative oggi sono fortunatamente tante, ma la qualità delle notizie dipende da noi “consumatori”, non dimentichiamolo.

105 solo in 11 mesi

105
Questo è il numero delle donne uccise solo quest’anno 2023, e non è ancora finito!
Donne a cui la vita è stata strappata da uomini che dicevano di amarle, da padri che giuravano di proteggerle e da sconosciuti che credevano di avere il diritto di fare ciò che volevano con il loro corpo.
“Non tutti siamo così, non tutti siamo mostri” questa è la frase che nell’ultimo periodo sta circolando; una frase semplice uscita dalla bocca di uomini che vogliono prendere le distanze da tutta la violenza che ci circonda.
Tutti siamo coinvolti perché non si parla di persone che impazziscono e commettono atrocità; si parla di persone normali con una vita normale che però non capiscono un NO, non capiscono il RIFIUTO, una ROTTURA.
C’è chi colpevolizza le vittime perché “non ci si presenta mai all’ultimo appuntamento” oppure perché: “poverino lui era geloso perché l’amava tanto”, “lei avrebbe dovuto aiutarlo”, “era ubriaca e l’ha provocato”, “era una bambina provocante”.
C’è bisogno di educare le persone al rispetto reciproco facendo capire che amore e possesso sono due cose diverse, che se si ama qualcuno non deve mai esserci violenza, che se una persona dice NO bisogna rispettare la sua scelta e non superare mai il limite. Per educare bisogna iniziare dal principio, da quando si è bambini insegnando il rispetto, ma anche che la violenza non è mai la soluzione, con delle lezioni diverse a seconda dell’età e ovviamente dando l’esempio per primi.
Non sarà mai un mondo senza violenza, ma la speranza di poter vivere la mia vita senza paura è il mio sogno nel cassetto.

Martina C. – 3les Bologna