Il “Lord” di Bob Marley e non solo

Cari amici ci piace riprendere questo articolo “musicale” scritto per il Sole 24 Ore, dal cardinal Gianfranco Ravasi, il 13 marzo 2016.

La maggior parte dei lettori ricorda la tragica fine di John Lennon, assassinato da un fanatico a New York a soli 40 anni l’8 dicembre 1980. Per quasi trent’anni la compagna Yoko Ono ha tenuto nascosto un brano che questo famoso membro dei Beatles aveva registrato poche settimane prima, il 10 novembre di quell’anno. È una sorta di sorprendente testamento spirituale che sconfina in un’invocazione orante: «Aiutami, Signore, aiutami, Signore, sì, ti prego, aiutami, Signore, aiutami ad aiutare me stesso!». Questa implorazione drammatica – Help me to help myself – era preceduta da una confessione: «So nel mio cuore che noi non ci siamo mai lasciati … Dicono che Dio aiuta chi aiuta se stesso e allora faccio questa domanda nella speranza che tu sarai buono con me, perché nel mio intimo profondo io non mi sono mai sentito soddisfatto».

Perché propongo questa testimonianza? Lo faccio perché due lettori si sono dichiarati positivamente sorpresi per una mia recensione nella quale tempo fa evocavo la Preghiera in gennaio del primo long playing di De André (1967) e la Smisurata preghiera, una delle sue ultime canzoni (1996), ispirata alla Desmedida plegaria dello scrittore colombiano Álvaro Mutis. Raccolgo un’ulteriore loro sollecitazione, convinto come loro che alcuni cantautori costituiscono per le giovani generazioni gli unici poeti che essi ascoltano: i due lettori, infatti, mi chiedono di svelare qualche altra mia sintonia musicale in questo orizzonte così differente da quello che si immagina più consono a un cardinale.

Fermo restando che il mio orecchio è ben più disposto e attrezzato ad ascoltare altra musica, sono stato sempre attratto anche da un orizzonte così diverso, memore del programma che san Paolo propone nel suo primo scritto, indirizzato ai cristiani di Tessalonica: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è kalós [buono/bello]» (I,5,21). È una sorta di variante del celebre motto dell’Heautontimoroumenos di Terenzio, motto ripreso da Cicerone e Seneca ma anche da s. Agostino e s. Ambrogio: Homo sum: nihil humani a me alienum puto. Ho, così, pensato subito a Lennon, ma mi sono anche accorto che avrei potuto raccogliere una lunga lista di cantautori in cui mi sono imbattuto e che si sono accostati al tema religioso in forma provocatoria (ad esempio Lou Reed), e persino quando sembravano alieni da simili interessi, a differenza, ad esempio, di un Battiato o di un Ron.

Inoltre bisogna riconoscere che talora affiora negli autori anche più “laici” una spiritualità implicita, affidata all’intensità di certe interrogazioni radicali umane: penso a Guccini o a Gino Paoli coi quali ho avuto occasione di interloquire durante un “Cortile dei Gentili”, cioè un incontro tra credenti e non credenti all’università di Bologna. La stessa osservazione vale, ad esempio, per un Lucio Dalla che, però, nel 2007 aveva intitolato una sua canzone con un esplicito I.N.R.I., acronimo dello Iesus Nazarenus Rex Iadaeorum del cartiglio di condanna affisso sulla croce di Cristo, e che riconosceva: «Di cercarti io non smetterò, abbiamo tutti voglia di parlarti».

Ma Dio ha tempo di badare a noi dall’alto della sua trascendenza, come ironicamente lo provocava Ligabue nella canzone Hai un momento Dio del 1995? Egli, infatti, era desideroso di sapere dal Creatore «se il viaggio [della vita] è unico e se c’è il sole di là». È la stessa attesa che appariva – sempre in tono ironico – in Wake up dead man (1997) della band irlandese U2: «Gesù aiutami, non solo in questo mondo… So che tu stai vegliando su di noi. Forse, però, le tue mani non sono libere. Tuo Padre ha fatto il mondo in sette giorni, ma ora si occupa del cielo. Puoi mettere una buona parola per me?». Anche la grande Mina in Accendi questa luce (2010) scongiurava Dio così: «Non puoi lasciarci qui da soli, non siamo liberi dal male se tu non ci sei».

Già nel 1990 con Uomini soli i Pooh ricordavano al «Dio delle città e dell’immensità» che noi «quaggiù non siamo in cielo e se un uomo perde il filo è soltanto un uomo solo». Un tema che verrà ripreso da un cantante popolarissimo come Jovanotti, una figura a mio avviso molto interessante per conoscere il linguaggio e il mondo dei giovani di oggi, nonostante anagraficamente sia ormai cinquantenne. In Questa è la mia casa (1997) pregava così: «O Signore dell’universo ascolta questo figlio disperso che ha perso il filo e non sa dov’è e che non sa neanche più parlare con te». E ancora questa idea dello smarrimento dell’uomo contemporaneo, privo di una stella polare e di una meta verso cui orientare i suoi passi, emerge nella cantante pop canadese Céline Dion, divenuta famosa per la colonna sonora del film Titanic con My heart will go on. A lei dobbiamo una Prayer (1999) in cui invoca Dio così: «Prego che tu sia i nostri occhi e ci protegga lungo il cammino … Quando perdiamo la strada, guidaci alla meta con la tua grazia … La fede che hai acceso in noi sento che ci salverà».

C’è, dunque, la consapevolezza di un deficit di senso nell’esistenza, di un procedere che è più simile a uno sbandamento, di un viaggio fuori pista, come confessava Claudio Baglioni in Per incanto e per amore (2003): «Fa’ che il viaggio di un uomo non sia la bugia di una meta, ma la verità della strada che è lunga e segreta». E l’approdo malinconico non può essere solo quello che Guccini rappresentava in modo folgorante in un disco del 1976, Via Paolo Fabbri 43: «Ognuno vive dentro ai suoi egoismi, vestiti di sofismi, e ognuno costruisce il suo sistema di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali scordando che poi infine tutti avremo due metri di terreno» (Canzone di notte n. 2).

La mia è, dunque, solo una libera e frammentaria evocazione di voci tra le mille che risuonano nell’orizzonte musicale affollatissimo dei nostri giorni. Voci che sono certamente superate negli stadi o nelle discoteche dalle esplosioni del rap o del rock più duro amato dalle giovanissime generazioni. Per loro il Bob Dylan di Blowin’ in the Wind è forse remoto quanto Buxtehude… Quelle voci custodivano talora al loro interno un anelito quasi mistico. Per concludere, scelgo solo due esempi di personaggi “mitici”. Innanzitutto Elvis Presley, che in Chi sono io? (Who Am i?) descriveva l’Incarnazione e la Redenzione in termini cristologici corretti: «Dio ha abbandonato la sua gloria ed è venuto a me, ha vissuto con gli essere insignificanti come me. Per me e in vece mia ha preso su di sé vergogna e umiliazioni. Essere oggetto di simili attenzioni! Chi sono io? Per me il Re è morto versando il suo sangue. Chi sono io? Egli ha pregato per me».

E un altrettanto mitico Bob Marley, morto nel 1981 a 36 anni, emblema del reggae giamaicano, nel 1970 esprimeva il suo Thank you Lord così: «Grazie, Signore, per quello che hai fatto per me; grazie, Signore, per quello che fai ora; grazie, Signore, per ogni piccola cosa … Io amo pregare». Un vero e proprio minisalmo moderno di ringraziamento a Dio.

Hai un momento Dio?

(Le canzoni di Dio)

Quanti artisti, italiani e stranieri, hanno scritto almeno una canzone rivolgendosi direttamente o indirettamente a Dio? Quanti sono coloro che a Dio si sono affidati, hanno chiesto il perché di certe situazioni o addirittura hanno scaricato parte della loro rabbia e incomprensione? Probabilmente tanti da non riuscire neppure a contarli. Però qualche testo vogliamo spulciarlo!

Muoviamo dalla “christian song” che a livello di ascolti e vendite in questo mese, febbraio 2016, ha superato tutte le altre e confrontiamola non più con uno o due brani, ma con tanti, forse i più significativi che nel tempo, a livello nazionale ed internazionale, sono stati rivolti a Dio, così da analizzare in che modo una figura artistica e musicale, più o meno vicina alla fede, si può sentire legata a Dio e qual è la visione di Lui che ha ciascuno.

La canzone cristiana del momento, con ben più di due milioni di visualizzazioni in tutto il mondo su Youtube, è stata scritta da Chris Tomlin, cantante statunitense, nato a Grand Saline, Texas, nel 1972, in attività dal 1995. Dopo aver iniziato gli studi di fisioterapia, una volta ricevuta la “chiamata di Dio”, si è dedicato a tempo pieno alla sua vera passione: la musica, rivolgendo questa a Colui che aveva appena svoltato la vita del giovane Chris. Amante della chitarra e del pianoforte, strumenti che spesso lo accompagnano nei suoi concerti, propone al mercato musicale il suo ultimo singolo, dal nome “Good, good Father”. Questo brano è il più recente tra tutti quelli che finora abbiamo analizzato, poiché inciso solamente l’anno scorso e distribuito come singolo a partire dalla fine del 2015. Il titolo, così come l’intera canzone, è dedicato a Dio, rivolgendosi a Lui come Padre “buono e buono ancora”. In “Good, good Father”, Chris Tomlin descrive il rapporto che lo lega al suo Signore: un rapporto di amore, che gli permette di non sentirsi mai solo, perché Dio lo accompagna e gli è vicino ogni giorno, non smettendo mai di amarlo. Un giro di due accordi nell’introduzione e nella strofa, un crescendo di emozioni che il coro rende più intime, quasi a dire quanto sia bello e gratificante il rapporto di amore che lega Dio e l’artista, invitando l’ascoltatore a sentirsi parte di questo, e a vivere lui stesso personalmente, tale sensazione. Così Chris descrive la sua amicizia con Dio. Ma, dopo la seconda strofa, è soprattutto il successivo ritornello, all’interno del cosiddetto “bridge”, il quale porta alla fine della canzone, che si riesce ad apprezzare la canzone per la sua sincerità, grazie a questa totale trasmissione di emozioni, di euforia e gratitudine allo stesso tempo.

Siamo di fronte a un pezzo vicino alla musica commerciale di oggi, per orecchiabilità e semplicità di ascolto, ecco perché in questi tre mesi è il più ascoltato e venduto. Ascoltatelo: chissà che non susciti emozioni anche in voi.

E il resto delle canzoni cos’anno scritto? Atei, miscredenti, cristiani, dubbiosi, e non praticanti, praticamente tutti si sono rivolti a Dio.

In Italia, nel 1967 i Nomadi cantano Dio è morto scritta da Francesco Guccini. Considerata blasfema dalla Rai, e dunque censurata, viene ascoltata e riproposta al mercato musicale, da Radio Vaticana, convinta che l’importanza dei temi trattati dalla canzone, dovessero arrivare a tutti. Inizialmente, questa canzone venne presentata con il punto interrogativo: ciascuno risponderà personalmente, dopo aver considerato quanto Guccini scrisse sulle disgrazie di Auschwitz.

Fabrizio De André, dedica molte delle sue canzoni a Dio, la più conosciuta è forse “Il pescatore”, del 1968, che allude al gesto di dare da mangiare e da bere a chi è affamato e assetato. Quindici anni dopo anche il giovane Vasco Rossi si rivolge a Dio. Nell’anno di successi, come “Bollicine”, “Una canzone per te” e “Vita Spericolata”, viene presentata “Portatemi Dio”. Da sempre dichiarato ateo, ma comunque non contrario alla Chiesa, ma ai falsi predicatori della parola di Dio, tanto da essere stato molto amico di Don Andrea Gallo, con questo brano mostra il suo sgomento per quanto accade attorno e dentro di lui e Lo invita a rispondere a domande che affliggono la promettente rockstar. Nel 1996, dopo un processo di rinascita, in cui lo stesso Vasco Rossi fa intendere di aver riscoperto un nuovo senso della vita, canta, in “Un gran bel film”: “Quindi tu prega il tuo Dio, che io prego il mio”, evidenziando diverse esperienze del divino rivolgendosi anche a coloro che amano il denaro e altri beni materiali.

A metà degli anni ’80, anche Luca Carboni permette a tutti i suoi fans e non solo, di conoscere il suo rapporto con la fede e con Dio. Nel suo terzo album, “Luca Carboni”, la seconda traccia è rivolta al Figlio di Dio. Si tratta di “Caro Gesù”. Più interessante e sicuramente più conosciuta, è però la traccia numero uno. Qui la figura di Dio, viene appena accennata, ma è interessante perché legata ad un argomento molto delicato e sentito in quegli anni: l’abuso di eroina presso i giovani. “Silvia lo sai” parla di Luca, amico di Carboni che già dall’infanzia mostrava evidenti segnali di debolezza relazionale. Queste difficoltà lo porteranno poi nel mondo della droga e a cantare di Dio come “cattivo e noioso, preso andando a dottrina, (che) come un arbitro severo fischiava tutti i perché”. È curioso notare una lettura polemica sulle istituzioni religiose e scolastiche dell’epoca e un’esperienza di Dio incapace di aiutarlo.

Anche Renato Zero ha parlato di Dio nelle sue canzoni e lo ha fatto soprattutto nel 1980, in “Potrebbe essere Dio” e l’anno dopo in “Più su”. La seconda, capolavoro di testo e significato, analizza, con quell’intimità e delicatezza che contraddistinguono il “cantattore”, l’ascesa al cielo a cui possono prendere parte tutti, rivolgendosi direttamente a lui quando canta “fino a sfiorare Dio, e gli domando io: ‘Signore, perché mi trovo qui, se non conosco amore?’”. Questa volta sembra dunque che la figura di Dio, sia quella di un Dio buono e misericordioso, in grado di accettare chiunque nel suo Regno, e di consolare gli afflitti e di rassicurare coloro che soffrono e hanno paura.

È di Luciano Ligabue probabilmente, la canzone rivolta a Dio, più interessante della musica italiana. Stiamo parlando di “Hai un momento, Dio?” (1995). Anche il rocker emiliano si trova in un momento di solitudine che lo affligge tanto da invitare Dio a bere qualcosa assieme a lui e rispondere ai suoi perché. Il tono scherzoso del testo sembra evidenziare una forte delusione da parte del Liga, ma allo stesso tempo un desiderio di appacificarsi con Dio e con la sua vita.

Il forse poco conosciuto Alessandro Bono (avrebbe dovuto cantare “Terra Promessa”) scrisse e cantò “Gesù Cristo”, Gesù Cristo ritorna, qui c’è ancora bisogno di te: una preghiera a una persona particolare in un momento particolare della vita. Come a dire, o meglio cantare, che anche la musica moderna nella sua ricerca di cantare il vero e il bello non può evitare questo buon, buon Padre il quale non disdegna di usare anche questo linguaggio per parlare con ognuno di noi.

Strada facendo

La musica nel buon viaggio della vita

A ben pensarci c’è sempre una musica che accompagna il cammino della nostra vita. Verso l’università o il posto di lavoro, nel ritorno a casa, di fronte al paesaggio che scorre dal finestrino del treno ovvero nei momenti difficili. La musica ci tiene la mano per tutte le nostre strade, quelle che intraprendiamo ogni giorno e quelle che affrontiamo solo una volta, per percorrere un viaggio, alla ricerca di noi stessi, di altri oppure di qualcosa che non c’è.
Per tutto ciò vogliamo scrutare la musica del cammino, come metafora di vita.
È il cammino, o meglio quella “road” a cui, tanto tempo fa, si legò un ragazzo di Liverpool e che d’allora, probabilmente non ha ancora dimenticato. È quel percorso di vita che hanno scelto in tanti, ciascuno a suo modo: dedicando completamente la loro esistenza a Dio o semplicemente scrivendo a Lui, note d’amore in notti senza fine, come cantava Baglioni nella sua “Notte di note, note di notte”. Ed è infine quella strada che insegna a coltivare la speranza in qualunque momento: perché appunto, “Strada facendo”, non si smette mai di imparare.
Su questa musica in cammino leggiamo ben tre canzoni: italiana, inglese e statunitense.
Dagli Stati Uniti, in quel ricco fiume che è la Christian music, prendiamo “I will follow” di Jon Guerra. Nato in California nel 1985, sposato, esponente del genere pop-rock cristiano a dimostrazione del fatto che tutti possono avvicinarsi attraverso diverse strade, a Dio, anche attraverso la musica. Jon inizia a comporre, scrivendo e arrangiando personalmente le sue canzoni, a partire dal 2011. Nel 2014 ecco che arriva uno dei singoli, se non il singolo, di maggiore successo nella sua, finora, breve carriera. “I will follow” è tanto apprezzata da entrare nelle principali classifiche dedicate alla musica cristiana di quell’anno, e si distingue per la chitarra che dolcemente accompagna la strofa, divenendo più decisa e prorompente nel ritornello. Nel testo, Jon semplicemente indica l’intenzione di seguire il cammino di Dio ovunque e in qualunque momento, nel bene e nelle tempeste della vita, compresa quella della morte. È forse la voce però, di particolare gradimento, che ha reso questa canzone e lo stesso artista, apprezzati all’interno del panorama musicale cristiano. Posso affermare che il cammino cristiano da seguire, ciascuno secondo la propria vocazione, è a noi più chiaro, ora che anche Jon Guerra ci ha insegnato come fare.
Da un cantautore all’altro, per la prima volta presentiamo una canzone italiana. E parlando di strade, non si può non citare colui che negli anni si è definito “Un cantastorie dei giorni nostri”, “Viaggiatore sulla coda del tempo” e “L’uomo della storia accanto”. Colui che partendo da dolci ballate e da struggenti canzoni d’addio è maturato con la sua musica, riflettendo come pochi hanno saputo fare, sulla vita, tanto da ricordarci che “La vita è adesso (ma il sogno è sempre)” e da augurare definitivamente a tutti noi, “Un buon viaggio della vita”. Claudio Baglioni non ha bisogno di presentazioni, ma la sua “Strada facendo” probabilmente sì. Conosciuta forse da tutti, è più di un’allegra canzone che viene cantata ormai da più di trent’anni. Di questo se n’è sicuramente accorto Papa Francesco quando ascoltando la canzone chiese esplicitamente venisse proposta alla giornata di festa agli anziani il 28 settembre 2014.
“Strada facendo” è un messaggio di speranza affinché chi l’ascolta possa sempre ricordare che, proprio strada facendo, non si è mai del tutto da soli, e che c’è sempre un po’ d’amore per noi. E la speranza non va mai perduta, neppure quando sembra di avere “un’anima smaniosa a chiedere di un posto che non c’è”, quando accanto si ha “un’ombra lunga di malinconia” e ci si ritrova “col viso sopra il petto a leggere i dolori ed i propri guai”. Anche nel momento in cui sembra di dire a se stessi che sono “Io troppo piccolo fra tutta questa che c’è al mondo, io che ho sognato sopra un treno che non è partito mai!”. Ma soprattutto c’è speranza anche quando lo stesso Baglioni si accorge che “una canzone, neanche questa potrà mai cambiar la vita” e si domanda, così come forse ci siamo domandati più volte tutti “ma che cos’è che mi fa andare avanti e dire che non è finita? Cos’è che mi spezza il cuore tra canzoni e amore e che mi fa cantare e amare sempre più, perché domani sia migliore, perché domani tu strada facendo vedrai che non sei più da solo?”. Neppure il saggio Claudio Baglioni è mai riuscito a spiegare quale forza permetta a lui di non perdere la speranza e di trasmetterla ad altri. Però un riascolto della canzono anche dopo 34 anni avrà qualche cosa da dire anche a noi.
Andando ancora più indietro nel tempo ecco la terza canzone, l’ennesima che non verrà mai dimenticata. Probabilmente non sarà il pezzo di maggior successo di questo gruppo musicale, nominato addirittura dalla NME Award come peggior singolo di quell’anno, ma la sua storia suggerisce che venga ricordato oggi, poiché si parla di strade, cammini e vita.
Inevitabilmente, almeno, la vita di qualcuno è stata cambiata dal quartetto di Liverpool, The Beatles, che non significa “Gli scarafaggi”, ma invece, se pur con una modifica all’interno della parola stessa, “I coleotteri”. La rivista Rolling Stone ha definito i quattro ragazzi di Liverpool, John Lennon, Paul McCartney, Ringo Starr e George Harrison come coloro che tra il 1960 e il 1970 hanno inciso maggiormente nella storia della musica, tanto da definire questo fenomeno chiamato “Beatles”, come il gruppo musicale più grande di tutti i tempi.
Ma perché tra tutti i loro grandi successi, compresi “Yesterday”, “Love me do”, “Let it be”, “Hey Jude”, “Yellow Submarine” vogliamo scrivere di quello che è stato votato come loro peggiore singolo: “The long and winding road”? Ascoltare questa canzone, significa vivere uno dei momenti più profondi e tristi della carriera del gruppo inglese, visto che fu proprio “la lunga e ventosa strada”, a sancire lo scioglimento del gruppo. Tale scelta fu presa non a causa dei risultati inattesi del pezzo, ma poiché la ballata intensa, delicata e dolente, scritta da Paul McCartney, e che lo stesso McCartney aveva in mente, fu in parte modificata dal produttore Phil Spector, a insaputa del suo interprete. L’aria troppo pesante, che ormai si respirava da tempo, probabilmente visti anche i difficili rapporti che il gruppo aveva con la compagna di John Lennon, Yoko Ono, portò definitivamente alla rottura e così le strade, davvero lunghe e ventose, si separarono.
“The long and winding road” è interessante per questo motivo, ma anche perché una delle opere più personali e significative dell’autore, dal momento che Paul McCartney stesso disse che questa era la strada che lui percorreva di ritorno a casa, ossia la B842, la quale serpeggia per venticinque chilometri la costa orientale della penisola di Kintyre per giungere alla sua fattoria. È lungo questa, che si trovava la casa della giovane donna che non contraccambiava l’amore provato per lei. In tale strada Paul si è spesso trovato da solo, di fronte a una porta che non si è più aperta. Ecco perché, se si parla di strade, o di “roads”, è necessario ricordare questa canzone.
Così come hanno fatto Jon Guerra, Claudio Baglioni e Paul McCartney, tutti quanti siamo chiamati a percorrere, assieme a loro e alla loro musica, le strade della nostra vita. È spesso un cammino difficile, lungo e ventoso, ma è solamente in questo modo che ci si può accorgere quanto sia unico questo viaggio. Non resta che augurare a tutti un buon viaggio della vita!

RobyElDima

Un cuore affamato d’amore

Dalle note di Bruce Springsteen e Larry Norman

larry norman

Probabilmente nessuno è in grado di contare quante canzoni nella storia, italiana e internazionale, hanno come oggetto quel sentimento che i greci incarnavano nel dio Eros. Gran parte della musica parla di questo sentimento, nelle sue mille versioni e storie: dalle agonie e sofferenze per un amore non corrisposto, dalle ansie, preoccupazioni e paure per un primo amore o per un amore non ancora rivelato, fino alle dediche sdolcinate e gioiose per quello che sembra l’amore eterno, l’”amore della propria vita”.

Stiamo parlando in un argomento tanto gettonato, che non solo oggi viene ripetutamente cantato e quindi trasmesso in radio, ma che ha addirittura spinto autori di migliaia di anni fa a scrivere a riguardo, e perché no, a cantare già allora sull’amore. Il famosissimo e tanto studiato Omerotratta esplicitamente l’eros, come sentimento di passione irrefrenabile, che lega Paride a Elena di Troia. Siamo nel IX secolo a.C., molto tempo fa. Per non parlare del tormentatissimo Catullo, il quale scrisse per la maggior parte, carmina su Lesbia, nelle diverse fasi che visse il loro amore. Questa volta siamo nel mondo dei romani, nel primo secolo a.C. Dunque se pur più vicino, ancora lontano a noi.

Duemila anni dopo, l’amore è presente in tutti i generi e stili musicali, rock e “christian music”, compresi. Con l’obiettivo di evidenziare anche questa volta, punti di forza e di debolezza dei due rispettivi generi, quello della musica laica, e quello più sconosciuto, per molti, della musica cristiana, analizzeremo due canzoni sull’amore. Sulla prima canzone si cercherà di focalizzare il contenuto e il significato del testo, sulla seconda la validità a livello sonoro e musicale che l’artista cristiano è riuscito a inserire nella sua canzone.

Dopo aver presentato un’opera d’arte dell’eterno Bob Dylan, questa volta parliamo di un altro che ha lasciato il segno. “The Boss”, il grande Bruce Springsteen, ha cantato l’amore a modo suo, nella stessa forma che ha convinto milioni di americani a definirlo come vero cantante rappresentativo dei 51 Stati Uniti d’America. Bruce, che è “nato per correre” come dice nella sua “Born to run” (assieme a Wendy), e che è stato catalogato per decenni come “working class-hero”, ossia eroe della classe operaia e lavoratrice, ha cercato di definire questo sentimento tanto trascendentale per tutti, in modo diverso e originale in tante sue canzoni.

“The river”, album di successo del 1980, contiene “Hungry heart”, pezzo molto acustico e orecchiabile, probabilmente grazie al semplice giro di Do che si ripete costantemente. Apparentemente questa canzone sembra meno impegnata di altre, visto il senso di leggerezza che si percepisce tra una strofa e l’altra, eppure evidenzia concetti piuttosto importanti. La canzone può essere divisa in tre momenti, scanditi dal ritornello in cui si dice che “Tutti hanno un cuore affamato”, “Everybody’s got a hungry heart”. Nonostante ciò, l’amore è una scommessa, qui si dice come una giocata a carte piuttosto rischiosa, tant’è che lui stesso nella prima strofa dice di aver abbandonato moglie e figli alla ricerca di un altro amore. Nella seconda invece vi è un altro amore, il classico amore che sembra perfetto, ma che con il tempo, una volta spento quel fuoco iniziale, è finito inesorabilmente. È da Baltimore, città dello stato di Maryland, a Kingstown, città del Rhode Island, che bisogna spostarsi per trovare l’amore? Neanche “The Boss” lo sa, dal momento che dopo aver viaggiato tra una parte e l’altra degli USA si ritrova solo a pensare, ed è quanto ci dice nella terza strofa, che dopotutto, “nessuno vuole stare da solo, tutti vogliono avere una casa e un posto dove riposare”, ricordando forse la moglie e i figli lasciati a Baltimore. È un trentun’enne colui che parla –il signore Springsteen è del 49-, un uomo che nel bel mezzo della propria vita si è accorto che tutti sono affamati d’amore, ma nonostante ciò stare da soli fa male. È un pezzo dunque molto malinconico, che probabilmente vuole insegnare che chi sbaglia paga, un po’ come se la vita ti restituisse in cambio ciò che fai. Il tutto però dal punto di vista di Bruce Springsteen, colui che riesce a trattare argomenti difficili, di forma sincera e spesso sfacciata, ma con un senso di gioia e leggerezza che lo contraddistinguono. Un classico, sempre presente nelle sue raccolte e nei suoi concerti.

Anche la seconda canzone che analizziamo, ha come tema centrale l’amore. Questa volta, non trattandosi più di una canzone laica, è evidente il soggetto al quale è dedicato questo sentimento così profondo: Dio. Anche in questo caso, ci concentreremo sull’aspetto puramente musicale, più che sul contenuto e sul messaggio trasmesso. E pure questa volta presentiamo una christian song, che è piacevole e bella da ascoltare, a dimostrazione del fatto che questo “mondo” musicale è in grado non solo di spaziare da un genere all’altro, ma anche di offrire melodie valide sotto tutti gli aspetti.

Larry Norman, un perfetto sconosciuto per tanti, è stato probabilmente l’iniziatore del rock cristiano. È giusto dunque ricordare una canzone di questo grande artista, il quale ci ha lasciato nel 2008, a sessantun’anni, tanto importante per questa musica. Colui che ricordiamo come il primo ad aver allontanato il mito secondo cui il rock fosse anti-cristiano, cantò a partire dagli anni ’70, impegnandosi a tal punto da incidere più di un centinaio di album. Stiamo parlando di un artista ricordato particolarmente per la sua facilità di scrittura, capacità che lo lega ulteriormente al Boss del New Jersey, l’intramontabile Bruce Springsteen. Nonostante avesse dedicato l’intera carriera alla christian music, Larry Norman non fu un pastore. Anzi spesso non ebbe rapporti del tutto idilliaci nei confronti della Chiesa, visto il suo stile di vita talvolta contrario ai principi insegnati dal Vangelo e da Gesù. Basti ricordare che si sposò ben due volte. La sua musica comunque è ancora impressa nella storia.

“Home at last” è uno degli album degli anni ’80 maggiormente ricordato: del 1989, pubblicato originalmente come LP, contiene tra gli altri, “He really loves you”. Questo brano incita tutti coloro che si sentono lontani dalla fede cristiana, a credere in Dio, di allontanarsi dalle tenebre e dalle oscurità così da poter ricevere tutto l’amore che Egli ha in serbo per ciascuno.

“Egli davvero ti ama” è molto interessante, e per questo è stato scelto come brano da analizzare, vista la sua musicalità particolare che lo avvicinano a un genere, il “country”, ascoltato perlopiù negli USA, e poco nel nostro continente, nato nei paesi del sud, negli anni delle piantagioni e degli schiavi di colore. In linea con “One step forward, two steps back”, mito della musica Country, scritta dalla “Desert Rose Band”, vi invitiamo ad ascoltarla a bordo di una Mustang o di un’altra lunga macchina americana, completamente scappottata, mentre percorrete le strade deserte e che sembrano perdersi nell’orizzonte, dell’Arizona, magari nel bel mezzo del Grand Canyon, o del Texas. E ovviamente questa deve essere la traccia successiva a “Hungry heart” di Bruce Springsteen. Solamente così, infatti, respirando la leggera brezza dell’estate, ci si può considerare un vero americano e si può capire il vero significato dell’amore, sia da un punto di vista laico e che da un punto di vista cristiano.

Buon ascolto!

Roby Eldima

Chimes of freedom; freedom is here

Tutti noi abbiamo quotidianamente a che fare con parole che ci piacerebbe non sentire o notizie che fanno passare parte della voglia di vivere. Ecco perché siamo sempre più spesso spinti il più delle volte a munirci di un paio di cuffie in treno o a girare la rotellina del volume in macchina, per allontanarci un po’ dal mondo, ascoltare musica in questi momenti sembra proprio il rimedio migliore.

Ma è buona la musica che ascoltiamo? Trasmette valori positivi o non è altro che parole messe assieme giusto per coprire spazi di una melodia? Figuriamoci poi se è in inglese; quasi mai capiamo al volo e non sempre abbiamo tempo per cercare il testo su Google. Ciò significa normalmente ascoltiamo la musicalità di un brano e, se si tratta di un pezzo orecchiabile, magari quello ci rimane in testa per tutta la giornata: altrimenti passiamo alla successiva traccia. Ma questo, probabilmente, è il bello della musica: non c’è sempre bisogno di capire quello che significa per dire se ci piace o no, perché quando unisce persone di diversi paesi che parlano diverse lingue e regala emozioni a tutti compie già buona parte della sua missione. Così facendo però, il significato, almeno mezza canzone, il testo, resta sconosciuto ai più.

Questo articolo, assieme ad altri che seguiranno, nasce con l’obiettivo di illustrare proprio i testi delle canzoni. Probabilmente non le canzoni del momento, ma quelle che sono passate in qualche modo alla storia. Per cui quello che faremo sarà affiancare ad un brano che appartiene a un genere non del tutto popolare in Italia. La Christian music, ovvero un genere che esiste da tempo e che non va confuso con i canti della domenica a messa. La Christian music, infatti, propone canzoni arrangiate in studi di primo livello di tutto il mondo, accompagnati da strumenti di ogni tipo e che spaziano dal pop al rock alle ballate fino all’hip-pop. Ovviamente, hanno come temi portanti il Vangelo o i valori del Vangelo e, con sorpresa per noi in Italia, genera pure un mercato discografico di una certa rilevanza.

In questo e nei prossimi articoli il confronto avviene tra una canzone laica e una Christian che hanno lo stesso tema di fondo. Oggi partiamo con un argomento a tutti molto caro, la libertà, “freedom” in inglese.

Come primo artista “laico” di questo progetto abbiamo scelto Bob Dylan, così andiamo sul sicuro e la sua canzone “Chimes of freedom” ( Campane di libertà): si tratta della quarta delle undici tracce del suo album “Another side of Bob Dylan”. È il lontano 1964, due anni dopo il suo debutto ufficiale. Si tratta quindi di un disco che possiamo ricollegare alla sua esperienza giovanile, il quarto in tre anni, ma che mostra già un artista maturo, rispetto ai suoi 23 anni di vita. Sono gli inizi di una carriera che è incoronata da MTV come la quinta più rilevante della storia della musica, dietro solo a fenomeni musicali come The Beatles, Michael Jackson, The Rolling Stones e Led Zeppeling.

Dopo questa premessa, è evidente che la prima canzone scelta non ha aspetti apparentemente carenti. “Chimes of freedom” non è sicuramente uno dei più noti successi del “Menestrello” (alias Robert Allen Zimmerman, alias Bob Dylan), ma è stata definita a più riprese come una canzone contro la guerra. “Campane di libertà” è stata ricantata più volte come cover, anche dal Boss, Bruce Springsteen, un altro che non ha mai scritto canzoni facili o disimpegnate. “Chimes of freedom” porta chiaramente un messaggio di speranza, in tempi cupi e di conflitto: siamo all’epoca della guerra in Vietnam, ma possiamo dire che si tratta di una canzone contraria alla guerra in generale, che vede Bob parlare in prima persona come se quella guerra lui stesso l’avesse combattuta davvero. In 7 minuti, lui non è da solo: soffre le pene della guerra assieme ad altri, tant’è che la maggior parte dei verbi sono retti dal pronome noi. Alla fine infatti “[noi] vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà”. Non sarà tra le canzoni più famose ma di certo ha qualcosa da insegnare anche a noi, che crediamo di essere lontani dalla guerra. È un messaggio di speranza per “i malati le cui ferite non possono essere lenite”, ma anche per “ogni uomo imprigionato nell’intero universo”. La guerra non è solo dietro la collina, come avrebbe cantato quattordici anni dopo De Gregori in “Generale”, ma è con noi ogni giorno e nella nostra esperienza quotidiana. Non è facile ma per Bob, tutti possono vedere queste “Chimes of freedom”.

Analizzata la canzone “laica”, introduciamo ora la christian song, “Freedom is here” di Reuben Morgan. L’artista è un cosiddetto “worship pastor”, ossia un pastore che con la propria musica contribuisce alla diffusione del Vangelo attraverso incontri di lode a Dio cui partecipano migliaia di persone. È un pastore della chiesa anglicana, ma come un artista “normale” lavora spostandosi per il mondo, tra uno studio di registrazione e l’altro, e tra una tournee e l’altra, tanto da fare di lui uno tra i più acclamati “pastori musicali”. Sarebbe azzardato paragonarlo a Bob Dylan, ma Reuben non ci si allontana tanto se lo si inserisce nel contesto della Christian Music. La sua prima produzione personale risale al 1996; da allora ha partecipato, individualmente o insieme ad altri, in ben 27 dischi.

“La libertà è qui” è del 2009, fa parte dell’album ”Across the earth – Tear down the walls”, registrato in Australia e realizzato insieme ad altri interpreti della Christian Music, che assieme formano la Hillsong United. Il successo del disco fu tale da raggiungere la prima posizione nelle vendite in iTunes Australia e in iTunes Inghilterra. Ciò significa che la canzone, tra le principali tracce del disco, è riuscita a farsi ricordare, nonostante i possibili pregiudizi che potrebbero svilupparsi attorno a tale stile musicale. Oltre al testo, che riguarda la libertà che viene offerta da Dio al cristiano, è interessante ascoltare questa canzone. Per chi non sapesse una parola di inglese infatti, questa potrebbe sembrare tranquillamente una delle canzoni che ripetutamente suonano in radio. E chi lo avrebbe mai detto? Un pastore può fare anche questo. Non siete convinti? Provare per credere. Su Youtube ci sono video che si avvicinano alle ottantamila visualizzazioni che mostrano concerti con migliaia di spettatori presi dalla disperazione quando vedono il loro pastore entrare in scena e cantare questa emozionante e appassionata canzone.

Buon ascolto a tutti!

ElDima