La terra dell’abbastanza

“Siete contenti della traduzione del titolo del film in inglese, Boys Cry?”, chiede una ragazza seduta tra le prime file della sala. “Sì, perché l’abbiamo scelta noi. Siamo partiti dalla canzone dei The Cure, ci abbiamo ragionato su e il nostro film scardina i machismi e i cliché del mondo della criminalità organizzata… quindi il titolo inglese sembrava molto adatto, perché anche i ragazzi piangono in realtà.”, risponde uno dei registi.

Questa è stata la ciliegina sulla torta del Q&A in chiusura della prima danese del lungometraggio dei fratelli D’Innocenzo, Fabio e Damiano.

Un’opera prima che questi pregiudizi non li scardina ma, anzi, li rafforza, e che si crogiola nell’illusione di aver aggiunto qualcosa al panorama del cinema contemporaneo del Bel Paese perché vincente di un Nastro D’Argento come Miglior regista esordiente.

Tuttavia di quanto il Nastro si sia ormai tramutato in una celebrazione di talenti senza arte né parte ho già scritto– spiccano, tra i tanti, la Miglior regia a Gabriele Muccino e Miglior film commedia a Metti la nonna in freezer. E non mi ripeterò.

Con l’umiltà di precisare che queste critiche partono da un’ex studente di cinema che di cinema respira, ci paga l’affitto e pure le vacanze, mi permetto di parafrasare la recensione di Giancarlo Zappoli, un critico cinematografico italiano che stimo e seguo da quasi un decennio, e di dissentire profondamente con quanto ha scritto.

La terra dell’abbastanzanon rappresenta un’indagine morale su cosa significhi crescere in Italia nel 2018, ma solo un’opera prima che non dimostra nessuna ricerca di originalità,  nessun tensione morale, nessuna epifania scritturale, nessuna evoluzione.

La terra dell’abbastanzaè l’ennesimo film sulle periferie e sui cosiddetti “coatti” della Roma Nord, che condivide le stesse tematiche dell’80% dei film italiani di oggi: la criminalità organizzata (l’amica con cui sono andato a vedere il film dice che a Roma la “mafia” non esiste), e che non aggiunge niente al panorama cinematografico dal 1866 a oggi.

La terra dell’abbastanzaè l’esempio lampante di come l’incoscienza di chi non sa cosa sia il cinema e né come si faccia ma ha comunque la presunzione di approcciarvisi, possa provocare più danni che benefici. Questa è l’ingenuità di chi non si sbilancia, di chi non fa un passo in più del dovuto, di chi non osa, di chi nonsi sforza nemmeno dimostrare qualcosadi diverso, di chi non scardina machismi e non ribalta nessun cliché– anche se al pubblico racconta tutto il contrario.

I fratelli D’Innocenzo non sono le due nuove stelle del cinema italiano, ma due registi ingenui che hanno sfornato un’opera prima sì solida dal punto di vista della distribuzione, ma che è destinata inesorabilmente a infrangersi contro un orizzonte a pochi passi dal punto di partenza, dietro le caseche trasudano grigiore e desolazione della periferia nord della capitale, in cui Manolo e Mirko passano le loro giornate.

Non ne sto facendo loro una colpa, perché non sono altro che il simbolo di un velleitarismo atavico che sta inghiottendo l’Italia cinematografica da decenni ormai e che sta trascinando – quasi – tutti giù con sé, in quel grigiore e in quella sciattezza che non lascia più spazio al talento e all’originalità, ma solo agli incassi e alla stampa. Ma un po’ li redarguisco, perché hanno perso un’occasione immensa.

Fabio Greg Cambielli

The Place

The Place – Cosa sei disposto a fare per ottenere ciò che vuoi?

Lui è seduto sempre allo stesso posto. Non importa a quale ora del giorno e della notte, lo troverete sempre lì, all’angolo di un ristorante, allo stesso tavolo, con un quaderno in mano. Qualche volta ci scrive delle cose, qualche altra le legge.
Non sappiamo niente di lui. Chi lo viene a cercare sa soltanto che è capace di esaudire desideri. Tutti i desideri: ricchezza, bellezza eterna, fede, sesso, salute, speranza. Alcune richieste sono semplici, altre più singolari ma tutte hanno un prezzo e il prezzo da pagare non è mai senza conseguenze. Angelo? Demone? Affabulatore? Psicologo? Filantropo? Qualcuno pensa che sia un mostro ma lui i mostri li nutre, dandogli soltanto quello che vogliono e chiedendo in cambio una buona azione.
Vogliamo tutti qualcosa. È il desiderio a farci umani, a fare di noi quello che siamo. È una sorta di verità generale, di parametro intangibile, senza tempo, universale. L’assenza di desiderio non esiste. Perché altrimenti verremmo al mondo?

L’assenza di talento, però, esiste eccome, e si trasla in due parole: Paolo Genovese.

Al suo nuovo lungometraggio – che a mio parere dovrebbe rappresentare l’ultima fatica mal partorita di una carriera filmica che di filmico quasi niente ha –, il regista romano sperimenta per la seconda volta una scrittura che fa del teatro uno spettacolo vivo, convertendo il salotto di Perfetti sconosciuti (2016) in un diner à la Chris Kubasik, facendo vivere agli attori il set come vivrebbero la scena, organizzando la performance secondo lo spazio, costruendo il proprio personaggio davanti alla macchina da presa.
Appassionato franco di interni (rigorosamente borghesi), Paolo Genovese sceglie nuovamente l’unità di luogo e d’azione aristotelica, facendone come in Perfetti sconosciuti la sua cifra estetica. Una cifra che però poco valore ha, dal momento che né la scrittura né la recitazione riescono a eguagliarne la portata geniale, risultando in una copia grottesca dell’originale The Booth at the End (Chris Kubasik, 2010).
Il ritmo è sostenuto eppure quieto, niente accade se non il dialogo. E qui spezzo la mia unica lancia in favore di un montaggio che trova pochi precedenti nella storia cinematografica contemporanea del Bel Paese. La mancanza di azione, di sviluppo e di atti esteriori non si fa sentire proprio per una bravura di post-produzione, sapientemente diretta da Consuelo Catucci, che poche volte ho visto in questi ultimi anni.
In ogni caso la rovina nasce, si sviluppa e fagocita ogni nuance artistica a causa di attori poco credibili, ai quali Genovese concede una libertà di movimento più teatrale che cinematografica. Si passa dal presunto misterioso e per niente interessante Valerio Mastandrea, all’improbabile Sabrina Ferilli, proseguendo poi con i Rocco Papaleo e Silvio Muccino di turno sempre ombre di sé stessi (Vinicio Marchioni non prendiamolo nemmeno in considerazione), trovando tuttavia un po’ di respiro nella performance di Alba Rohrwacher, eccezione italo-germanica che conferma la regola: l’Italia cinematografica hic et nunc non sa recitare e non vuole nemmeno provare a farlo.

Sedotto come tutti dallo script originale, il regista gli soccombe senza riuscire a concepire un film che stia a sé rispetto al suo illustre referente.

Non mancano i tentativi di dislocare col diner anche lo sfondo sociale, introducendo lo scarto, sottile ma efficace, che richiama l’emergenza del femminicidio in Italia, attraverso la storia del poliziotto di Marco Giallini che incrocia quella drammatica di Vittoria Puccini. Ma non basta. The Place non “eccede” mai il suo punto di partenza, non aggiorna la sua tesi estetica ma la serve passivamente. Diversamente dal desiderio dei suoi personaggi, tutti compresi a interrogarsi sulle modalità pratiche per riuscire nell’impresa che testerà la loro umanità, l’idea e le ipotesi di Paolo Genovese non diventano un piano, bensì sfociano in un prodotto cinematografico stagnante, poco interessante e assolutamente perfettibile.

Fabio Greg C.

AVATAR è la realtà

Benvenuti a Pandora, mondo nuovo dove le montagne fluttuano, effetto Magritte e Miyazaki, anno 2154, più che un «paradiso terrestre», una terra promessa per un pianeta che si è autodivorato. Avatar è una seconda Genesi piuttosto che la contrapposizione fra l’isola dell’armonia, del «buon selvaggio», e la civiltà atrofizzata delle macchine. Non c’è paradosso in un film che esibisce la massima potenza tecnologica e contemporaneamente prende le parti di un universo «primitivo»: la luna della costellazione Alfa Centauri è un luogo post-umano, sapiente sintesi di corpo e mente, rete neurale che interconnette la vita. Il panteismo new age, sconvolgente per i devoti, è solo un’apparenza, i filamenti luminescenti dell’«albero sacro» del popolo Na’ equivalgono a un sistema nervoso collettivo, la conoscenza che corre su cavi elettronici.
Avatar corrisponde alla sua ambizione transepocale, è la forma stessa della fusione tra analogico e digitale, si costituisce come superamento dell’uno e dell’altro, è un pianeta-film ibrido per corpi ibridi. Né umani né alieni.

La forza di gravità del kolossal di James Cameron ha già attratto milioni di abitanti virtuali, spettatori sull’orlo del suicidio pur di dematerializzarsi e assumere il dna degli abitanti di Pandora. Il successo del film dice la follia politico-esistenziale degli orfani di questa Terra, e il radicale e spasmodico desiderio di cambiare mondo, se il nostro non è più riformabile. Ansia di metamorfosi.
Un successo che suona l’allarme per i columnist intergalattici, i «moderatori» dell’immaginario, scesi numerosi sulle colonne dei giornali per imbrigliare le pulsioni violente del pubblico di massa, e pronti a denunciare l’estremismo infantile di Avatar. Per ristabilire l’ordine (ir)reale costituito e riconfermare il loro status di sentinelle della cultura, ricorrono a concetti come “stereotipo”, “favola”, “manicheo”, che detto per il cinema, con disprezzo, fa ridere. Decodificata da almeno un secolo di visioni, la narrazione simbolica ha i suoi linguaggi ed eroi, i suoi rimandi alla memoria collettiva. Le armi spuntate dei centristi non avranno la meglio, ma se è giusto «spaventarsi» davanti ad Avatar, è meglio recuperare la capacità di «vedere». Anche con i molesti occhialetti 3D.

Gli «stereotipi» dichiarati del film compongono un’opera che cambia la percezione sensoriale, e fa di ogni spettatore un perfetto avatar, un «doppio», oltre il processo di identificazione, proprio come accade a Jake Sully (l’australiano Sam Worthington), mix di cellule umane/aliene, trasformato da marine paraplegico in na’vi, creatura gigantesca e azzurra, per entrare in contatto con gli aliens e convincerli a sgomberare dall’albero-casa, sotto cui si nasconde il prezioso unobtanio. Essere l’altro e rimanere se stessi.
Apocalypse Now, Un uomo chiamato cavallo, Balla coi lupi, New World… l’epoca stellare fa appello alla mitologia americana ma l’incontro di Neytiri alias Pocahontas, l’amazzone extraterrestre dagli occhi gialli felini, con John Smith alias Jake Sully, il colonizzatore, cambia segno. Non è l’innocenza a incontrare il saccheggiatore, il bianco avido del minerale marziano per la terra a secco di energia, non la nostalgia della natura incontaminata, ma un’istanza fondante di una nuova civiltà. La velocità dell’impalpabile, alberi e rocce bioluminescenti, superfici inanimate scosse da fremiti e luci cangianti, un territorio mobile, i semi del salice piangente, anima di Pandora, che volteggiano nell’aria, trasparenti meduse informatiche… Ogni cosa è un ingranaggio di un congegno complesso, preistoria futuribile con i giganteschi animali modificati da organismi conosciuti, pantere «grandi come motrici di tir», Thanator; cavalli con la criniera d’osso e le antenne vibranti da falena, Direhorse; il cane nero dalle striature vermiglie modellato sugli incubi di Francis Bacon, Viperwolf, tutti a sei zampe. Si vedrà come le frecce e gli archi dei nativi, a cavallo del manta-pipistrello Banshee, saranno potenziati dalla scesa in campo del pianeta stesso, cervello unico in movimento, «bomba intelligente» e superiore all’archeologia robotica dei colonizzatori che trascina gli uomini in una precedente guerra asimmetrica.
Molto disneyano l’inchino docile del mega-rinoceronte distrutto davanti alla svettante Neytiri, mentre anche il «drago» Leonopteryx, un uccellaio predatore dai colori sgargianti, ispirato all’aquila simbolo degli Usa, mai montato se non da semidei, si presta a far da cavalcatura al marine traditore della sua specie.

Comprensibilmente, la destra Usa se n’è lamentata e ha bollato il film come un-american. Sì, perché Jake Sully, infiltrato tra gli alieni alti tre metri, capelli rasta, abiti piumosi imperlati, un po’ Apache un po’ Maori, sceglierà il suo avatar per lottare contro il colonnello Miles Quaritch, feroce e pazzo come il Robert Duvall di Coppola, quello che al suono della Cavalcata delle Valchirie (il modulo di Quaritch si chiama Valchiria) sganciava napalm sulle foreste vietnamite.
La tridimensionalità del film crea una spazialità da vertigine, ma non è il cielo, è l’acqua che avvolge lo sguardo, Pandora è Atlantide, un pianeta liquido, abissale come il cinema di James Cameron, sempre attratto dalle profondità oceaniche di Titanic. E se nel kolossal di tutti i tempi (mai battuto al box office, forse da Avatar stesso), diretto dodici anni fa dal regista, si affondava con tutto il bagaglio del vecchio mondo, qui si rinasce nelle sembianze disumane di Jake Sully. La performance capture (sensori applicati al volto e al corpo) permette agli attori di recitare come a teatro e mantenere gesti ed emozioni nella figura trasfigurata dell’avatar.
Jake incontra Neytiri, materia e antimateria, perversione di carne e pixel, e il bacio contronatura segnerà alla fine l’azione del trasmutare, che dà, usciti dalla sala, la stessa sensazione espressa del marine quando, tornato umano, si sveglia nella sua capsula di collegamento.

Avatar è la realtà, e questo è il sogno.

Fabio Greg C.

Call me by your name

Estate 1983: tra le province di Brescia e Bergamo, Elio Perlman, un diciassettenne italoamericano di origine ebraica, trascorre le giornate con i genitori nell’ereditata villa del XVII secolo leggendo Stendhal, suonando Bach e nuotando nel fiume sotto il soffocante sole di Agosto. Gli ispiratori lontani sembrano Jean Renoir e Éric Rohmer e più che La regola del gioco, La scampagnata e Pauline alla spiaggia sono l’archetipo dell’ultimo lungometraggio del regista, con la natura che diventa metafora di una modernità fatta di attimi fuggenti.
L’atmosfera bucolica cambia quando li raggiunge Oliver, un dottorando ventiquattrenne che lavora con il padre di Elio, docente universitario; e dal primo sguardo, da quel primo: “Dopo.”, Elio ne rimane turbato, non osa corteggiarlo, pur rimanendone attratto. Ma dal momento in cui Oliver si fermerà per solo sei settimane le ore sono contate, dovendo volente o nolente abbandonare al futuro ciò che verrà costruito dai due durante la loro vicinanza. E nonostante sia un tema relegato ai minuti finali del film, quello della perdita è il fil rouge di Chiamami col tuo nome, più lampante e tangibile che in ogni altra pellicola di Guadagnino anche perché, diciamocelo fuori dai denti, mai film di Guadagnino fu degno di recensione… Che si parli di morte, di cordoglio, o di abbandono – spesso sottostimato rispetto ai primi due, ma catalizzatore di un malessere interiore pari a quello provocato dalla morte stessa –, il dolore lacera i tessuti e apre piaghe a volte impossibili da risanare: prosciuga la ricchezza del sangue, il congegno degli organi, la corona dei sogni, chiude le ali alle chimere della fantasia…
C’è un “però”, tuttavia, e quel però non potrebbe essere chiarito meglio che da D’Annunzio ne Il piacere – seguitemi un attimo, non è uno show-off, non sto citando a caso, prometto:
«La convalescenza è una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male; e non mai l’anima umana [è] più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della morte. Comprende l’uomo, nel guarire, che il pensiero, il desiderio, la volontà, la coscienza della vita non sono la vita. Qualche cosa è in lui più vigile del pensiero, […] ed è la sostanza, la natura dell’essere suo. Comprende egli che la sua vita reale è […] il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive; […] è l’impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte le rinnovellazioni.»
È questo il miracolo della convalescenza: la maturazione attraverso il dolore, la purificazione grazie alla perdita. La perdita di un parente, di un amico; la perdita di Elio e Oliver. E, come Andrea Sperelli esattamente un secolo prima, il vero problema sta nel fatto che Elio questo amore lo ha perso esattamente prima di aver realizzato quanto fosse autentico, provocando dunque un dolore così profondo che solo la fine di «amori naturali» possono causare.
«Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio…» rappresenta anche una vera e propria dichiarazione di volontà di fusione con l’altro: l’“altro” che diventa “io”, l’“altro” di Merleau-Ponty nel quale ci si riconosce a tal punto da diventare una cosa sola. E in una cosa sola si trasformano i due lentamente, seguendo i pacati ritmi dell’afosa campagna lombarda, scanditi da giri in bicicletta, musica e pagine di libri. Tanti libri.
Il loro avvicinarsi prende forma in maniera naturale e spontanea, come il lungo scorrere dell’acqua che dopo numerose deviazioni e ostacoli all’improvviso si fa cascata e si manifesta in tutta la sua forza e bellezza. Questo è l’amore tra Elio e Oliver, una forza della natura che nulla può davanti alla paura se non sbocciare delicatamente, irrimediabilmente. Un amore non contro natura, ma formato dalla natura stessa.
Le loro menti si innamorano prima dei loro corpi e questo fa si che un semplice tocco di mano, una carezza sfiorata, una frase soffocata, e infine un abbraccio possano diventare la massima espressione del desiderio e della passione.
E dove il sesso e l’orientamento sessuale passano in secondo piano davanti a un sentimento che sfida e vince ogni tipo di pregiudizio e paura. E che sceglie di parlare e di non morire.
Se siano meritate le quattro nomination agli Oscar o meno rimando a pareri più esperti del mio. Ma di certo c’è che Chiamami col tuo nome ha lasciato un segno, se non indelebile, nel panorama LGBTQ cinematografico contemporaneo, dettando un nuovo modo di raccontare una storia, scevro da ogni pregiudizio o stereotipata rappresentazione di una naturalità alla quale ognuno di noi si approccia dai tempi dell’adolescenza.
«Raramente sappiamo ciò che possiamo diventare per gli altri attraverso il nostro essere. Dobbiamo rassegnarci a questo. […] Tra due persone accade che talvolta, assai raramente, nasca un mondo. Questo mondo è poi la loro patria, era comunque l’unica patria che [Elio ed Oliver] era[no] disposti a riconoscere. Un minuscolo microcosmo, in cui ci si può sempre salvare dal mondo che crolla.»

Fabrio Greg Cambielli

Un sapore di ruggine e ossa

Può il ferro, divenuto ruggine con l’influsso degli agenti atmosferici, ritornare com’era prima? Sebbene ciò sia chimicamente impossibile, umanamente lo è.
Nel Nord della Francia, Alì si ritrova improvvisamente sulle spalle Sam, il figlio di cinque anni che conosce appena. Senza un tetto né un soldo, i due trovano accoglienza a Sud, ad Antibes, in casa della sorella di Alì. Tutto sembra andare subito al meglio. Il giovane padre trova un lavoro come buttafuori in una discoteca e un giorno conosce Stephanie, istruttrice di animali acquatici e preda irraggiungibile, dalla vita apparentemente piena e felice. Una tragedia, però, rovescia presto la loro condizione.
Craig Davidson, Audiard e Thomas Bidegain traggono un racconto cinematografico a tinte forti, temperate però da una scrittura delle scene tutta in levare.
La trama e la regia sono estremamente coerenti nel seguire uno stesso rischiosissimo movimento, che spinge il film verso il melodramma e non solo verso la singola tragica virata del destino ma verso la concatenazione di disgrazie, salvo poi rientrare appena in tempo, addolcire l’impatto della storia con “la ruggine” di un personaggio maschile straordinario, per giunta trovando un appiglio narrativo che tutto giustifica e tutto rilancia. Un equilibrismo che può anche infastidire ma che rende il film teso, malgrado alcune mosse prevedibili…
“Un sapore di ruggine e ossa” è un film misuratamente cupo, che tratta l’esperienza dolorosa di Stephanie con il giusto tono drammatico, senza perdersi nei classici cliché melodrammatici eccessivamente attenti al pathos. La Cotillard e Schoenaerts recitano con naturalezza e fluidità, lasciando trasparire la drammaticità delle vite dei loro personaggi senza pianti o gemiti di disperazione…
Come nella migliore filmografia di Audiard, corpo e spirito si fanno tutt’uno, si ammaccano e si rimarginano insieme, senza bisogno di troppe parole: al contrario, la comunicazione, specie quella femminile, passa attraverso un linguaggio muto ma intimamente comprensivo.
La macchina da presa del regista non è certo invisibile e le tesi dietro il suo modo di filmare sono sempre molto evidenti. Questo film non fa eccezione e anzi spinge più che mai sui contrasti manichei tra bellezza e squallore, forza e debolezza, spirituali e letterali, fin quasi alla maniera. Raggiunge tuttavia un risultato non scontato laddove, pur essendo in realtà un lavoro molto scritto, dove tutto, fin dal primo istante, è pensato per tornare a domandar vendetta, la direzione degli attori e la qualità dei dialoghi ci distraggono magistralmente, facendo sì che non ce ne accorgiamo quasi mai. La capacità del miglior cinema di Audiard di scartarsi da un percorso troppo rigido o incline alla retorica, questa volta non si manifesta né a livello di soggetto né di regia ma si ritrova più sottilmente nelle pieghe della messa in scena, nei gesti e nelle espressioni degli attori.

Fabio Greg Cambielli, Coopenaghen

 

La pazza gioia

Posso azzardare?
Lo dico con un’umiltà che mi parte dalla cervicale e arriva fin sotto i piedi – ma con la consapevolezza che il nostro è anche un Paese (semi)libero dove la libertà d’espressione dev’essere tutelata (e poi l’Italia s’è guadagnata ben 25 posti nella classifica sulla libertà di stampa quest’anno), con La pazza gioia, Valeria Bruni Tedeschi si merita il titolo di “Meryl Streep italiana”.
Attrice a 360°, accompagnata da una sceneggiatura curata – non senza qualche buco qua e là – del notevole Virzì, la Tedeschi ancora una volta si riconferma una delle attrici più talentuose, versatili e fondamentali del panorama italiano contemporaneo.

L’ultimo lungometraggio di Paolo Virzì ci trasporta nella sempre soleggiata Toscana dove una casa di cura per persone mentalmente instabili ospita Beatrice (Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti, o anche la Sig.ra Virzì, nelle vesti di una diffidente punk tatuata aggredita dalla depressione e da tendenze suicide).
Sin da subito Beatrice ammette Donatella, appena arrivata, e diventa il più fidato destinatario delle sue storie, e le due portano reciprocamente un arcobaleno di energia nella vita di entrambe: clinicamente, si direbbe, trasmettono influenze salutari l’una sull’altra. Un giorno, durante una gita in campagna, quando il loro furgoncino è in ritardo, Beatrice e Donatella scappano e prendono una autobus verso il centro città, e da qui parte la storia.
Anche se non completamente realistico, il percorso catartico delle due inizierà e si svilupperà in maniera molto al Thelma e Louise di Ridley Scott (1991) – con la sola differenza che non ci sarà posto per il conteggio corporeo e per il manifesto femminista radicale scottiano.

Entrambe le attrici registrano un’impressionante performance, e anche se lo script non è sempre forte di trovate d’oro, la Tedeschi domina incontrastata nella sua dimensione di persona non libera, privata di tutto e di tutti, “fanciullo incontentato” (per citare Corazzini), un ritratto accurato di un essere umano disfunzionale, trascinato in nevrosi nell’illusione attraverso il proprio doping e da quelle forze esterne inimiche che non possono non sollevare riflessioni sociologiche che riportano a una conclusione circolare senza disturbare lo status quo.

Da vedere assolutamente!
Finalmente un “Sì” deciso (ma non completamente meritato) a un grande regista italiano di oggi.

“[…] ritorni su’ tuoi pianti
ostinati di povero
fanciullo incontentato,
e nessuno ti ascolta.”
– Sergio Corazzini, Per organo di barberia

Fabio Gregg Cambielli

The Neon Demon

Beautiy isn’t everything. It’s the only thing.

Non è una coincidenza che abbia diviso Cannes.
Non è nemmeno un caso che la maggior parte dei fan storici si sia schierata contro.
Non li biasimo. È possibile che si siano sentiti traditi, perché abituati a tutt’altro
Refn. E un po’, lo ammetto, mi sono sentito tradito anche io.
The Neon Demon, l’ultimo lungometraggio franco-danese-americano di Nicolas
Winding Refn, presentato in concorso a Cannes, convince fino a un certo punto.
L’ho visto con un amico il giovedì di prima in un cinema della Capitale e sono uscito
dalla sala due ore dopo non senza qualche riflessione.
Jesse è un’aspirante modella senza genitori e – apparentemente – senza passato, che dalla Georgia si trasferisce in un motel nei sobborghi di Los Angeles per seguire il suo sogno. Farà alcune amicizie, giuste o sbagliate che siano, che la guideranno in quel mondo fino alla fine.
Si parte quindi da un’idea in sé parecchio debole, che ha del “già visto” e “già raccontato”. E le recensioni così poco entusiaste ne danno adito.
Refn è colui che si era costruito una fama come narratore di storie dure e violente con protagonisti uomini la cui esistenza veniva portata a confrontarsi con un mondo in cui la redenzione totale era impossibile; basti pensare a Pusher (1996) o Bronson (2008). The Neon Demon non vorrebbe prendere le distanze da questi titoli, ma in realtà la lontananza è abnorme, misurabile in chilometri.

L’intro convince da subito, e i primi dieci minuti sono oro per ogni studente di cinema e non. Dall’undicesimo minuto, però, inizia un costante calo che cresce e rovina tutto. Fino alla fine.
La fotografia rimane buona, dove praticamente la totalità delle riprese si palesa con una cura e un’attenzione al dettaglio sopra la media. Ciò che però maggiormente infastidisce non è tanto la ricerca di un estetismo e di simbolismi spesso fini a sé stessi, quanto piuttosto la misoginia che sottende l’intero evolversi della vicenda che (va sottolineato) Refn ha girato in ordine cronologico, concedendosi quindi la possibilità di apportare variazioni giornaliere alla sceneggiatura.
Stupisce l’innervata negatività di sguardo che disamina il sesso femminile come profondamente cinico, dove l’amore e l’amicizia sono concetti che non hanno ragione di sussistere. Una negatività che non ha complessità, e quindi superficiale.
Refn, Mary Laws e Polly Stenham – che quella sceneggiatura l’hanno composta con lui giorno per giorno – scrivono un film sulla bellezza, un “horror senza horror”, alla ricerca di quel quid che non troveranno.

Andate a vedere The Neon Demon se e solo se:

  1. Siete dei fan sfegatati di Refn
  2. Non c’è nient’altro da andare a vedere al cinema

Se non incontrate questi due parametri, allora risparmiate i soldi del biglietto e aspettatelo in chiaro. E per sentirvelo “dire” da me…

GreggFC

Victoria. Di cinema si scrive e si impara.

Un paio di settimane fa, per un esame universitario, mi sono trovato a dover girare un cortometraggio. Tralascio i dettagli sulla storia e sulle location in quanto non credo siano utili ai fini di questa recensione. Quello su cui però vorrei dare un hint è lo stile della regia: io e il mio compagno di classe abbiamo deciso di creare un prodotto in one-shot. Cos’è?
Nel gergo cinematografico, un one-shot movie è un film girato esclusivamente con una sola macchina da presa senza tagli di montaggio dall’inizio alla fine. Questo per dire che tutta la storia si svolge continuamente, senza interruzioni, e che per qualsiasi piccolo errore si deve ricominciare da capo.
Il nostro corto durava quattro minuti. Sapete quanto ci abbiamo messo per girarlo? Nove ore.
Ora, a fronte di questa piccola introduzione – tenendo anche conto che Nicklas e io non siamo professionisti e che l’abbiamo fatto in pieno giorno in una zona nemmeno troppo centrale di Copenhagen – provate a immaginare cosa possa aver significato per Schipper, Grøvlen e compagnia bella, dirigere un one-shot crime drama di 2 ore e 18 minuti all’alba in un quartiere di Berlino incentrato su una ragazza spagnola di nome Victoria che si trova semi-involontariamente coinvolta in un progetto portato avanti da quattro ragazzi del posto. (Non vi anticiperò altro).
Fatto?

Sono di parte, in quanto sfide fotografiche del genere mi fanno venire la pelle d’oca solo a sentirne parlare, lo ammetto.
Se dovessi essere anche un po’ critico direi che la storia non mi ha entusiasmato più di tanto, che ci sono un po’ di buchi narrativi qua e là, che a tratti non regge e alcuni personaggi sono poco credibili – certo, se Pirandello o Brecht fossero ancora vivi loro sì che saprebbero cosa fare!
Posso anche buttare giù un «Che finale improbabile».
Ma se penso alla fotografia… mi viene da rabbrividire.
Se penso alla musica, composta da nientemeno che Nils Frahm, musica che qui svolge una funzione archetipale di deus ex machina, quasi ritorno afono dall’emozione (Nils Frahm, un dio tedesco dell’elettronica che quando il sottoscritto ha visto/sentito live non è più riuscito a proferire parola dallo stupore per il paio d’ore successive).
Se penso alla recitazione (e qui salvo quasi solo Frederick Lau) mi ritornano i brividi.

Victoria è un film fatto e finito, con un potenziale immenso e l’unica sfortuna di aver avuto tre scrittori – lo stesso Schipper, Neergaard-Holm e Schulz, al loro primo copione – colpevoli di scarsa concentrazione nel riempire quelle lacune sceneggiatoriali che hanno degradato un prodotto potenzialmente ottimo a “must-see”. Purtroppo.
In ogni caso, lacune o non lacune, io consiglio di reperirlo e di vederlo.
Non sarà un’esperienza così intensa come quella che avreste potuto avere al cinema, perché Victoria è un film che va visto su grande schermo con Nils Frahm in Dolby Surround e Lau in 1080p. Su questo non si discute.
Tuttavia, Pirandello e Brecht non ci sono più.

Fabio Greg Cambielli

Chacun cherche son chat

Mettiamo che volete andare in vacanza per un paio di settimane ma non sapete dove lasciare il vostro gatto. O meglio, a chi.
Mettiamo che vivete in una grande città, in questo caso Parigi, e vi rassicura l’idea di poter affidare il vostro compagno d’appartamento nelle mani di qualcuno che sa cosa fa: una vecchina dell’undicesimo arrondissement che tutti conoscono come “quella che cura i gatti”. Sembra perfetto, no?
Il problema è che quando tornerete dalla vostra gita al mare e andrete a riprendertelo, il gatto non ci sarà più. Sarà scappato.

L’intro di Chacun cherche son chat (Ognuno cerca il suo gatto, 1996, Cédric Klapisch) non promette nulla di buono. Solo tanti miagolii, disperazione e noia per un gatto che alla fine, si sà già, salterà fuori.
Ma Klapisch, al tuo terzo lungometraggio, questa volta si mette all’opera su soggetto e sceneggiatura (come del resto aveva sempre fatto) in modo molto intelligente, e sforna novanta minuti di pellicola che farebbero voglia di visitare Parigi a chiunque. Parigi e l’undicesimo arrondissement.
C’è una voglia di tornare a Rohmer che Klapisch sottintende qui, con un cinema fatto di meraviglia e tranquillità e leggerezza, dove i personaggi sono l’elemento principale, il fulcro di tutte le storie che si dipanano come matasse.

Chacun cherche son chat non vuole denunciare nulla, non vuole abolire nessun privilegio né sfoggiare un cast stellare: si presenta come un film semplice e intelligente, con l’unico scopo di raccontare le vite e le storie di abitanti del quartiere con un tono divertente e quasi adolescenziale – senza alcuna accezione negativa del termine.
Perché le trame dei coinquilini di arrondissement si intrecciano con quella di Chloé, la protagonista, senza però mai sconvolgerla completamente, senza toccarla fino in fondo.

In un mondo dove ognuno cerca il suo gatto, ognuno cerca il suo “sé”, ognuno cerca il suo perché, il singolo viene messo in contraddizione con il gruppo alla ricerca di una felicità (che poi si trova?) un po’ meno stereotipata e citofonata di quelle contemporanee d’oltreoceano.
Da guardare sul divano con il proprio gatto, ovviamente, e una buona birra artigianale.
Godetevelo!

Fabio Greg Cambielli

Il rosso e il blu

Cerchiamo regole, forme, canoni, ma non cogliamo mai il reale funzionamento del mondo. La vera forma di tutto ciò che è fuori di noi, come di tutto ciò che è dentro di noi, è per gli uomini un eterno mistero. L’incapacità di risolvere questo mistero ci terrorizza, ci costringe ad oscillare tra la ricerca di un’armonia impossibile e l’abbandono al caos. Ma, quando ci accorgiamo del divario che c’è tra noi e il mondo, tra noi e noi, tra noi e Dio, allora scopriamo che possiamo ancora provare stupore, che possiamo gettare uno sguardo intorno a noi, come se fossimo davvero capaci di vedere per la prima volta.

Cito dalla fine per introdurre uno dei migliori “film scolastici” italiani degli ultimi anni. Si chiama Il rosso e il blu (rimando traverso a Stendhal?), ed è l’ultima pellicola del marchigiano Giuseppe Piccioni, classe 1953. Abbandonate le note melodie francesi della precedente opera, Giulia non esce la sera, toccante dramma d’amore su una Golino incarcerata e un Mastandrea innamorato sollecitato dalle note dei Baustelle, nel 2012 sperimenta un genere completamente diverso per approcciare un tema difficile. Molto più reale e concreto, Il rosso e il blu si traspone in un coro mai totalmente armonico, dove ogni voce ha il suo timbro e la sua stonatura, una modulazione variegata e ricca di sonorità. Prendendo le distanze da qualunque intento sociologico o di denuncia, la pellicola è una commedia sul mondo della scuola, un racconto corale che intreccia i percorsi di tre insegnanti, con le loro idiosincrasie e contraddizioni. Il salto di qualità si palesa nel passaggio da chi non ha nulla da dire e mostrare se non adolescenti irrefrenabili in crisi ormonale (“Notte prima degli esami”, “Che ne sarà di noi”), approdando a un livello intermedio, con toni da commedia agrodolce dell’opera di Luchetti ma senza il coraggio di portarla a termine. Il film di Piccioni si fonda su due antagonismi: insegnamento-correzione, come il rosso e il blu della penna con cui l’insegnante cancella i limiti giovanili, e adulti-giovani, due pianeti distanti che spesso collidono, distruggendosi a vicenda. Nel proporre questa visione antinomica del vissuto scolastico la pellicola appare equilibrata, senza scadere in storpiature alla Moccia né in trasognate epopee generazionali, e puntellata da una colonna sonora adeguata e non invasiva, firmata Ratchev & Carratello. La bravura di Herlitzka, poi, merita ogni singolo minuto.
Fabio Greg Cambielli