GIUSTIZIA E SISTEMA PENALE

Gli studi seguiti, il lavoro che svolgo e, perché no, questa collaborazione giornalistica, mi hanno portato a riflettere con più metodo su un tema molto delicato, che sta alla base di ogni comunità di persone: la pena come conseguenza di un comportamento considerato riprovevole dall’ordinamento. Sarà una riflessione complessa che richiederà qualche puntata e un po’ di spazio, per questo verrà pubblicata su IlGiovaniBarnabiti come estratto della pubblicazione totale sul blog.

In questo articolo parleremo di un tema molto delicato, che sta alla base di ogni comunità di persone: la pena come conseguenza di un comportamento considerato riprovevole dall’ordinamento.
Il modus con cui l’ordinamento punisce i rei mostra la condizione dell’individuo all’interno della società e di come questa risponda alle esigenze del vivere comune, comprensivo di tutte le caratteristiche umane, tra cui commettere delle azioni che ledano diritti fondamentali altrui, tutelati dal sistema penale.
I nostri giovani lettori potrebbero pensare che il carcere, la prigione, siano da sempre lo strumento che la società adopera per contenere chi commette dei reati, tuttavia così non è, o meglio, così non è sempre stato.
Oggi intendo fare una prima analisi di come l’umanità punisca le condotte pericolose dei suoi singoli, partendo da una breve premessa storica, per concentrarci successivamente sulla direzione futuribile.
Le prime testimonianze di prigioni o carceri si hanno nella Bibbia, nell’antichità, particolarmente nella cultura greco romana, in cui si utilizzavano delle gabbie per “contenere” gli uomini, in attesa di un verdetto che potesse portare in seguito alla pena vera e propria, di natura corporale o capitale.
Erano dunque il dolore o la morte a punire l’uomo, non la reclusione, che era solo uno strumento cautelare per garantire poi l’esecuzione.
Nelle epoche successive, durante il medioevo, si iniziò a teorizzare una visione cristiana della pena, in cui la reclusione del reo in prigione era considerazione di un’espiazione, in cui le azioni delittuose coincidevano con dei peccati, in modo tale il tempo passato in stato di privazione della libertà personale era del tutto propedeutico anche ad una salvezza dell’anima.
Fu dunque la dottrina cristiana a iniziare a ridurre le pene corporali o capitali, sostituendole per fatti di minore gravità con una detenzione, che compiva anche l’ovvio effetto di tenere distaccati i soggetti pericolosi dalla comunità, delimitando a casi gravi i tipici spargimenti di sangue conseguenti ai processi della storia.
Durante l’illuminismo, con la nascita di grandi intellettuali, anche giuristi e penalisti, si rivoluzionò il sistema giuridico e di conseguenza quello punitivo.
Il carcere diventò la vera e propria pena, poiché in seguito a dibattiti filosofici, politici e sociali, si giunse alla conclusione che non fosse più accettabile punire corporalmente o con la morte gli imputati considerati colpevoli.
Questo principio, all’inizio soltanto teorico, si strutturò nel tempo e riuscì a trovare la propria dimensione anche a livello ordinamentale e non più soltanto a livello filosofico, in età moderna e contemporanea, in cui la reclusione in carcere diventò la pena.
In età moderna si cercò anche di stabilire con limiti più precisi il funzionamento degli apparati carcerari e a salvaguardare i diritti dei detenuti, considerando una funzione nuova per la detenzione, che superava la vecchia concezione cristiana di espiazione, adducendo un nuovo principio laico e statale di risocializzazione del reo, soggetto che aveva commesso un reato, e che andava punito per poter essere successivamente reinserito nella società, con la ragionevole certezza che non commettesse più altri reati e che, anzi, diventasse un individuo utile.
Tale onorevole aspettativa, che tutt’oggi sussiste, è ciò che ci porta a riflettere su questo tema, se davvero la detenzione in carcere sia strumentale alla risocializzazione.
Nella società di oggi è dunque naturale chiederci quanto sia ancora necessaria la pena detentiva, alla luce di tante problematiche che il sistema penitenziario presenta, soprattutto in Italia, quali sovraffollamento, scarsa igiene generale e poca attenzione ai diritti essenziali dell’uomo detenuto.
Inoltre c’è un secondo aspetto da dover considerare, cioè se effettivamente privare della libertà una persona e metterla in contatto continuato con altri criminali, porti ad un esito positivo nella vita del detenuto e non ad una esclusione ancor più maggiore di questi, che molto spesso in seguito all’esecuzione di condanne diventa ancor più esperto di criminalità e una volta tornato in libertà spesso ricade nella commissione di altri reati, anche a fronte di un pregiudizio sociale e di un’ esclusione che questi subisce dalla comunità esterna, finendo in un circolo vizioso, che la realtà ci racconta essere presente in una maggioranza dei casi, di cui tantissimi casi di recidiva ci testimoniano la verità di quanto detto.
Nonostante ci siano anche episodi di successo rieducativo delle carceri italiani, con esempi di istituti in cui varie attività artigianali ed artistiche coinvolgono i detenuti, aiutandoli a risocializzarsi, la realtà precedentemente descritta è molto più spesso ciò che si verifica nella realtà.
La situazione paradossale è talmente evidente che lo stesso stato ha introdotto e attuato con generosità diverse misure alternative alla detenzione in carcere, quali gli arresti domiciliari, la libertà vigilata o i lavori socialmente utili, iniziando a snocciolare un problema molto complesso e che ad oggi non presenta ancora una vera e propria soluzione praticabile.
La cultura e l’intelligenza contemporanea è chiamata a valutare quale debba essere il nuovo piano di azione riguardo al sistema penale e penitenziario, perché le criticità appena accennate sono molte e complesse.
Sicuramente un primo importante impulso deve essere di ridurre a casi limite la pena detentiva, riguardo solamente a fattispecie che necessitino di tale estrema ratio, ad esempio per soggetti pericolosi socialmente o per reati violenti e gravi.
Le misure alternative alla detenzione devono essere il nuovo mezzo di risocializzazione, in particolare i lavori di pubblica utilità credo possano essere lo strumento giusto e migliore per garantire risocializzazione senza tralasciare la dignità umana, andando dunque verso una previsione più strutturata e meglio organizzata di tale istituto.
Un altro metodo punitivo e altrettanto deterrente è quello riguardante le sanzioni pecuniarie, per cui scontare la pena significa pagare somme, più o meno ingenti, di denaro in favore dello stato e a favore delle persone offese a titolo di risarcimento danni.
Anche questa situazione eleva la pena a dei principi più umani e più in linea con la filosofia e la sociologia contemporanea, poiché non degradante di diritti umani fondamentali.
Un’ulteriore possibilità potrebbe essere un controllo più serrato sui cittadini colpevoli attraverso i potentissimi mezzi tecnologici odierni, che verrebbero privati “soltanto” di una libertà di avere privacy, punizione pesante ma sicuramente meno invasiva e degradante rispetto ad una reclusione.
Oggi è importante iniziare a pensare e a parlare di questo tema, affinché si generi in tutta la società un input di riflessione riguardo a questo aspetto della vita comune.
Di particolare importanza e dunque meritevole di analisi e di miglioramento è per noi cristiani il tema dei diritti dell’uomo, di come questi diritti rimangano anche per gli uomini “erranti”, poiché agli occhi di Dio tutti lo siamo ma nessuno viene lasciato indietro.
Paolo Peviani – Pavia

Un avvocato a Kabul

Federico Romoli è un giurista e avvocato che lavora per l’Unione Europea, area cooperazione internazionale e in particolare nella delicata situazione dell’Afghanistan. Un’esperienza non ordinaria che ha condiviso con noi GiovaniBarnabiti.it perché possa spiegarci una realtà diversa e permetterci di imparare e crescere, grazie alla condivisione di un’esperienza non ordinaria, come può essere quella di vivere e lavorare in un paese del Medioriente.
Federico nasce e cresce a Firenze, classe 1980, maturità classica, laurea in giurisprudenza, dottore di ricerca in diritto e procedura penale, realizzando diverse pubblicazioni, oltreché l’abilitazione alla professione forense.
Trascorsi diversi anni nelle aule di giustizia italiane Federico inizia la sua avventura nella cooperazione internazionale italiana, divenendo subito operativo in Afghanistan, terra e cultura conosciute molto bene, sia per uno stage intrapreso post lauream, in un ufficio di giustizia dell’ambasciata Italiana, ma soprattutto, per via dei tanti e profondi insegnamenti trasmessigli dal padre, che tramite i suoi viaggi e le sue esperienze, aveva avuto modo di conoscere e approfondire molto bene la realtà afghana, incuriosendo e invogliando il figlio a seguire le proprie orme.
Gli ideali e i valori ricevuti in famiglia, la cultura, l’educazione al rispetto e la curiosità sollecitano una capacità di mettersi sempre in discussione e di impegnarsi per gli altri.
E qui centrano i Barnabiti da presenti nella vita di Federico, sia per la frequentazione della Chiesina e del suo oratorio a Firenze, sia per la storia e la tradizione della sua famiglia, dal nonno e dal padre, strettamente legata e connessa all’ordine fondato dallo Zaccaria.
Peraltro a Kabul Federico incontrerà nella cappella cattolica dell’ambasciata italiana proprio il barnabiti p. Giuseppe Moretti storico amico di famiglia e poi p. Gianni Scalese.

La fede è una costante di Federico, che colora di un senso nuovo e superiore, di un bene comune i suoi valori oltre a dare un sentimento di protezione, necessario per vivere e lavorare lontano da casa, in un paese segnato dalla guerra.
Inoltre, Federico ci sottolinea come sia importante conoscere, studiare, leggere, approfondire e viaggiare per poter essere degli uomini migliori e applicarci a nostra volta per migliorare, nel nostro piccolo, il mondo in cui viviamo.
Nel raccontarci l’Afghanistan, traspare un paese meraviglioso, scolpito da una storia millenaria, ricchissimo di cultura e di bellezza, purtroppo vittima di una situazione geopolitica complicata, poiché spesso conteso nella varie epoche, tra le potenze e gli imperi della storia.
Da un punto di vista costituzionale, l’Afghanistan è una repubblica islamica, in cui è presente una completa struttura democratica, dimostrata dalla classica tripartizione dei poteri, sul modello occidentale.
Il principale motore giuridico del paese è l’organo esecutivo, il governo, che promulga atti normativi, con possibilità di manovra anche dell’organo legislativo, il parlamento.
Il sistema della giustizia ha efficienza ed è conforme alla modernità giuridica.
La peculiarità dell’ordinamento sta nel rapporto che lo stato e i suoi apparati devono avere con la fede musulmana e la legge religiosa, la Sharia, poiché il sentimento religioso è ampiamente diffuso con una popolazione profondamente fedele all’Islam, portando a una necessaria considerazione della legge civile e dello stato al confessionalismo della società, creando un rapporto che può diventare molto complicato per la non unitarietà e la diversità intrinseca del sistema religioso islamico, variegato e suddiviso in tante interpretazioni.
L’altra questione che va necessariamente analizzata e che Federico ci spiega è quella dei diritti umani fondamentali all’interno del contesto afghano, questi ultimi sono dei principi di diritto naturale, portati avanti prevalentemente dalla cultura occidentale, totalmente intuibili e condivisibili indipendentemente dalla religione di appartenenza.
Si capisce subito che il lavoro di Federico non è semplice, non è stato solo un copia-incolla delle nostre leggi occidentali nel contesto afghano.
Inserirli, tuttavia, assieme a un sistema fondato sulla legalità, in una cultura diversa, non è semplice, ma è possibile trovando i giusti punti di contatto, senza prevaricazioni o imposizioni, né tantomeno indietreggiando.
La strada, dunque, è l’uguaglianza, il rispetto e il venirsi incontro, trovando i punti di contatto, pur arrivando da due punti di partenza diversi.
L’avvocato Romoli ci aiuta a capire anche che il recepimento di una struttura giuridica, basata sulla legalità e sulla massima tutela dei diritti fondamentali, non deve essere solo istituzionale, ma anche e soprattutto un’ esigenza sociale e del popolo.
In seguito è importante illustrare il ruolo e la forza del diritto in una situazione di guerra, il quale deve esplicarsi tramite l’effettività e la funzionalità, che la regola deve imporre, non ultimo dando un modello e cercando di limitare un conflitto potenzialmente illimitabile.
Per questo il suo è stato anche quello di migliorare il sistema di legalità, la cui forza vive in quella delle istituzioni, che devono saper produrre un diritto chiaro, semplice ed equo, supportandolo anche con l’apparato sanzionatorio e agendo sul piano sociale, soprattutto con un’educazione dei giovani.

A cura di Paolo Peviani, Pavia

Diritti umani. Helin e Shady, due morti che pesano sugli Stati

Due nomi, due storie, due ingiustizie: Shady Habash e Helin Bolek. Il primo cittadino egiziano, la seconda cittadina turca. Bolek un’affermata cantante di un gruppo folk, Habash un giovane regista. Entrambi arrestati senza colpa e senza prove: Shady accusato di aver definito “dattero” il dittatore egiziano al–Sisi, Helin accusata di essere una terrorista ma colpevole solo di essersi impegnata per la libertà di stampa.

 

 

 

 

 

 

Due giovani – lei ventotto, lui ventiquattro anni – che hanno perso la vita sotto regimi dittatoriali che per convenienza appartengono ancora alla “comunità internazionale”. Due giovani amanti della libertà che hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla dittatura e all’ingiustizia. Helin è morta in ospedale dopo 228 giorni di sciopero della fame. Shady è stato vittima di un calvario che lui stesso ha raccontato: «Non è la prigione, ma la solitudine che ti uccide.

Resistere in prigione significa cercare di non perdere la testa e non lasciarsi morire lentamente perché sei stato gettato in una cella due anni fa senza motivo e non sai se e quando finirà». Parole che ricordano le “Lettere di Olga” di Vaclav Havel, anche lui sostenitore della non violenza e arrestato più volte per il suo impegno politico e per essersi ribellato al regime di Gustav Husak. La vicenda di Shady è simile a quella di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna da tempo detenuto in Egitto senza aver commesso alcun reato, e a quella di Abrahim Ezz Eldin e Ahmed Abdel Fattah, attivisti egiziani torturati e incarcerati perché impegnati nella ricerca della verità sulla tragica morte di Giulio Regeni. Siamo in piena emergenza coronavirus, ma non possiamo distogliere lo sguardo di fronte alle continue violazioni dei diritti umani e costituzionali che purtroppo avvengono anche in Paesi con cui abbiamo rapporti diplomatici e di scambi commerciali.

Il Parlamento europeo e l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, Josep Borrell, hanno più volte stigmatizzato la ferocia giudiziaria di Egitto e Turchia, ma non basta. È ora che l’Europa sospenda gli aiuti finanziari e congeli le relazioni diplomatiche con questi Paesi. È giunto il momento di prendere decisioni che siano coerenti con la nostra coscienza, e i nostri valori. L’Italia e l’Unione Europea hanno tra i loro princìpi fondanti la tutela dello Stato di Diritto. È tempo di dimostrare che ciò è vero non solo a parole ma anche nei fatti.

Giuliano Pisapia,
Avvocato ed europarlamentare

Avvenire mercoledì 6 maggio 2020

10 dicembre 1948 : i diritti umani

10 dicembre 1948, Parigi, per la tenacia di una donna, Eleanor Roosvelt, viene firmata la Dichiarazione Universale dei diritti umani; non dei diritti degli uomini, ma dei “diritti umani” come ha chiesto si scrivesse, un’altra donna, l’indiana Hansa Mehta.

Il documento ha l’ambizione di far riconoscere la dignità di tutti i membri della famiglia umana, quale fondamento della libertà, della giustizia e della pace: i fondamenti dello Statuto ONU. I primi 21 articoli riguardano le prerogative civili e politiche. Altri sei i cosiddetti diritti di seconda generazione che riguardano le garanzie in ambito economico, culturale e sociale. I tre punti finali dettano i criteri di applicazione.

La dichiarazione è stata firmata da quasi tutte le nazioni del tempo, compresa la chiesa cattolica.

La Carta non è stata realizzata, forse non lo sarà mai in modo definitivo, però essa è un chiaro punto di riferimento per tutte le persone di “buona volontà” che hanno a cuore l’uomo e la donna di sempre, l’umanità.

In un certo senso si può affermare che questa carta ha sostituito quella che si chiamava una volta “legge naturale” cui tutti facevano riferimento al di là delle diverse appartenenze nazionali. Non ci soffermiamo ora su questioni, per altro importanti e ineludibili, morali, ma non possiamo prescindere dal fatto che ogni uomo, ogni donna, non possono fare a meno di un punto di riferimento se vogliono vivere in modo sano.

Certamente la Dichiarazione nasce al termine, dopo che il mondo intero ha sperimentato la distruzione delle grandi guerre, ma questo non significa che oggi abbia meno valore perché in Europa, in Europa non ci sono state più guerre. La Carta, infatti, ha anche il valore di mantenere viva la memoria, una memoria che illumini l’oggi.

L’Europa, il mondo continua a necessitare una illuminazione! «La Dichiarazione resta un documento di importanza straordinaria poiché pone, in modo netto, limiti al potere dei governanti sui governati. Prima, nella giurisdizione internazionale, i diritti umani non esistevano – spiega ad Avvenire Antonio Marchesi, presidente della sezione italiana di Amnesty International –. Il documento, tuttavia, resta una meta da raggiungere». Infatti, gli elementi di preoccupazione sono ancora molti. In particolare, «la “disumanizzazione” dell’altro, attraverso la negazione delle prerogative riconosciute nella Dichiarazione ad alcune categorie di persone, le più vulnerabili. Come se i diritti umani fossero un “merito” da assegnare in modo arbitrario», afferma Marchesi.

A questo proposito papa Francesco, nel messaggio alla Conferenza sui diritti umani organizzato dall’Università Gregoriana di Roma scrive:

«In effetti, osservando con attenzione le nostre società contemporanee, si riscontrano numerose contraddizioni che inducono a chiederci se davvero l’eguale dignità di tutti gli esseri umani, solennemente proclamata 70 anni or sono, sia riconosciuta, rispettata, protetta e promossa in ogni circostanza. Persistono oggi nel mondo numerose forme di ingiustizia, nutrite da visioni antropologiche riduttive e da un modello economico fondato sul profitto, che non esita a sfruttare, a scartare e perfino ad uccidere l’uomo. Mentre una parte dell’umanità vive nell’opulenza, un’altra parte vede la propria dignità disconosciuta, disprezzata o calpestata e i suoi diritti fondamentali ignorati o violati».

Parole forti, che si aggiungono a quelle di altri uomini e donne di buona volontà, non certo di molti governanti, che stanno ragionando oggi su questo anniversario. Sono parole che interpellano ognuno di noi anche nel nostro piccolo giardino di casa. Stiamo infatti rischiando di riconoscere questi diritti a parole, purché restino chiusi nei propri giardini. I diritti valgono ma ognuno nel proprio giardino, se casomai qualche essere umano fosse catapultato fuori dal proprio giardino allora sono problemi suoi.

«Ciascuno, continua papa Francesco, è dunque chiamato a contribuire con coraggio e determinazione, nella specificità del proprio ruolo, al rispetto dei diritti fondamentali di ogni persona, specialmente di quelle “invisibili”: di tanti che hanno fame e sete, che sono nudi, malati, stranieri o detenuti (cfrMt25,35-36), che vivono ai margini della società o ne sono scartati».

Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo

Preambolo

Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo;

Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godano della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo;

Considerato che è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione;

Considerato che è indispensabile promuovere lo sviluppo di rapporti amichevoli tra le Nazioni;

Considerato che i popoli delle Nazioni Unite hanno riaffermato nello Statuto la loro fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti dell’uomo e della donna, ed hanno deciso di promuovere il progresso sociale e un miglior tenore di vita in una maggiore libertà;

Considerato che gli Stati membri si sono impegnati a perseguire, in cooperazione con le Nazioni Unite, il rispetto e l’osservanza universale dei diritti umani e delle libertà fondamentali;

Considerato che una concezione comune di questi diritti e di questa libertà è della massima importanza per la piena realizzazione di questi impegni;

L’ASSEMBLEA GENERALE

proclama

la presente dichiarazione universale dei diritti umani come ideale comune da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, al fine che ogni individuo ed ogni organo della società, avendo costantemente presente questa Dichiarazione, si sforzi di promuovere, con l’insegnamento e l’educazione, il rispetto di questi diritti e di queste libertà e di garantirne, mediante misure progressive di carattere nazionale e internazionale, l’universale ed effettivo riconoscimento e rispetto tanto fra i popoli degli stessi Stati membri, quanto fra quelli dei territori sottoposti alla loro giurisdizione.

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.