Diritti umani. Helin e Shady, due morti che pesano sugli Stati

Due nomi, due storie, due ingiustizie: Shady Habash e Helin Bolek. Il primo cittadino egiziano, la seconda cittadina turca. Bolek un’affermata cantante di un gruppo folk, Habash un giovane regista. Entrambi arrestati senza colpa e senza prove: Shady accusato di aver definito “dattero” il dittatore egiziano al–Sisi, Helin accusata di essere una terrorista ma colpevole solo di essersi impegnata per la libertà di stampa.

 

 

 

 

 

 

Due giovani – lei ventotto, lui ventiquattro anni – che hanno perso la vita sotto regimi dittatoriali che per convenienza appartengono ancora alla “comunità internazionale”. Due giovani amanti della libertà che hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla dittatura e all’ingiustizia. Helin è morta in ospedale dopo 228 giorni di sciopero della fame. Shady è stato vittima di un calvario che lui stesso ha raccontato: «Non è la prigione, ma la solitudine che ti uccide.

Resistere in prigione significa cercare di non perdere la testa e non lasciarsi morire lentamente perché sei stato gettato in una cella due anni fa senza motivo e non sai se e quando finirà». Parole che ricordano le “Lettere di Olga” di Vaclav Havel, anche lui sostenitore della non violenza e arrestato più volte per il suo impegno politico e per essersi ribellato al regime di Gustav Husak. La vicenda di Shady è simile a quella di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna da tempo detenuto in Egitto senza aver commesso alcun reato, e a quella di Abrahim Ezz Eldin e Ahmed Abdel Fattah, attivisti egiziani torturati e incarcerati perché impegnati nella ricerca della verità sulla tragica morte di Giulio Regeni. Siamo in piena emergenza coronavirus, ma non possiamo distogliere lo sguardo di fronte alle continue violazioni dei diritti umani e costituzionali che purtroppo avvengono anche in Paesi con cui abbiamo rapporti diplomatici e di scambi commerciali.

Il Parlamento europeo e l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, Josep Borrell, hanno più volte stigmatizzato la ferocia giudiziaria di Egitto e Turchia, ma non basta. È ora che l’Europa sospenda gli aiuti finanziari e congeli le relazioni diplomatiche con questi Paesi. È giunto il momento di prendere decisioni che siano coerenti con la nostra coscienza, e i nostri valori. L’Italia e l’Unione Europea hanno tra i loro princìpi fondanti la tutela dello Stato di Diritto. È tempo di dimostrare che ciò è vero non solo a parole ma anche nei fatti.

Giuliano Pisapia,
Avvocato ed europarlamentare

Avvenire mercoledì 6 maggio 2020

Le lacrime e il potere

La Turchia, che a inizio millennio sembrava essere destinata ad entrare inesorabilmente nell’eurozona, si scopre oggi vittima di un progetto politico autoritario, capace di cancellare nel giro di pochi anni l’anima laica cha Atatürk aveva desiderato per il suo paese.

Gli occhi scuri sono illuminati da una luce di speranza, sul nasino leggermente appuntito, (alla francese si direbbe) cadono di sbieco le ombre dei lunghi capelli nero pece, raffazzonati in un basco amaranto, che cade appena sopra le tempie. Una delicata camicetta rosa spunta colpevolmente fra i bottoni lucidi e le insegne militari orgogliosamente ostentate, ultimo baluardo di una femminilità altrimenti del tutto sopita. I polsi, sottili e minuti, sembrano interamente scomparire, inghiottiti dalle lunghe maniche di una divisa palesemente troppo grande per la tenera età, conferendo un tocco di ironia alla scena.
È questo il profilo di Amin, bambina turca di 6 anni, vittima dell’ultimo magistrale colpo di teatro di Tayyip Erdoğan, sempre più saldamente al comando di una Turchia che ha ritrovato nell’islamizzazione forzata e nella lotta contro i “terroristi” curdi la panacea per i propri mali. La scena si è svolta proprio in occasione di un comizio nel Sud del paese, volto a raccogliere consensi per la traballante invasione militare del Kurdistan siriano, attualmente in corso. Il “sultano”, come ama farsi chiamare fra il suo popolo, ha intravisto fra il pubblico la piccola, avvolta nella divisa delle forze speciali turche, i cosiddetti berretti marroni, e non ha potuto fare a meno di cogliere la palla al balzo. Da politico consumato ha fatto dapprima sfilare la bambina davanti al palco, per poi abbracciarla, baciarla e prometterle il radioso futuro che ogni capo di stato dovrebbe augurare ai bambini del proprio paese: una bella morte per aver difeso i sacri confini della patria: “Ha una bandiera turca nel taschino: se morirà come martire, a Dio piacendo, la copriremo con una bandiera”.
A poco servono le lacrime che scendono copiosamente dalle guance di Amin dopo il lauto vaticinio, a poco serve la sua andatura incerta, tutt’altro che eroica, mentre si avvicina a un palco che sa di patibolo e, infine, a poco serve l’evidente falsità con cui il suo primo ministro le bacia rumorosamente la fronte, avvicinando prudentemente il microfono a beneficio dell’uditorio. La folla oceanica che popola il comizio è troppo imbevuta di retorica nazionalista per accorgersi di tutto questo, di quanto questa vuota propaganda strida non soltanto con le lacrime di Amin, ma anche con tutte le vite spezzate dei bambini di Ghouta, oggi bombardate dalla maggiore alleata della “Sublime Porta”, la Russia di Putin.
Le “bambine-soldato” di Erdogan rappresentano oggi un esemplare monito per le democrazie occidentali. Ci avvertono, a distanza di un secolo dalla fine del primo conflitto mondiale, dei pericoli derivanti dalla nuova ondata di nazionalismo che rischia oggi di travolgere il vecchio continente.

Andrea B.