Anche un leone ferito può riaccendere il bello

Qualche domenica fa nella nostra parrocchia della Divina Provvidenza in Firenze, per chiudere un ciclo di conferenze sulla sfida educativa abbiamo ospitato la professoressa e preside dell’Istituto Tecnico e Alberghiero di Caivano, Eugenia Carfora. Nonostante l’orario desueto, quasi mezzogiorno, la sala era gremita ed evidentemente l’interesse per il tema e per l’ospite era molto alto. Carfora, infatti, è diventata celebre, con il nome di Preside Coraggio, già da diversi anni, grazie alla sua lotta e al suo impegno profuso nel rendere le scuole di Caivano un luogo non solo di aggregazione ma di speranza e riscatto per i ragazzi e le ragazze del Comune del Napoletano.
La Preside ci ha parlato della sua esperienza, del suo modo di percepire l’educazione sollecitandoci a essere vivaci, nel nostro piccolo: infatti, in quanto cristiani la nostra missione passa anche dal valorizzare gli altri e investire per il prossimo.

Chi è la professoressa Carfora?

«Sono da sempre abituata a realizzare i miei tuffi insieme ai ragazzi, nella mia vita non mi sono mai allontanata dal contesto giovanile e dalla scuola. Mi sono sempre impegnata nel sociale: quando ebbi l’occasione di andare a lavorare e Castelvolturno mi sono fatta carico di quei bambini che “venivano al mondo comunque”, figli di quelle donne, molte delle quali sfruttate, che quando avevano figli avevano bisogno della scuola e la ricercavano, mi dicevano che avevano bisogno di aiuto per i loro figli, che per loro era importante che andassero a scuola.

Mi pare che li abbia realizzato una consapevolezza importante.

È stato allora che ho realizzato che non per tutti la scuola è vicina, non per tutti la scuola è scontata. In quel momento ho capito che volevo fare questo nella mia vita: iniziai a occuparmi dei problemi della dispersione scolastica, perché mi resi conto che nessuno ne parlava. Mi accorsi che spesso ci si perdeva dietro la burocrazia, e che fra quello che mi dicevano ai convegni e ai corsi, e quello che poi accadeva nella realtà, c’era un abisso.

Poi venne il concorso del 2007!

Quando ho vinto il concorso da dirigente scolastica, nel 2007, emerse un elenco di scuole in cui c’era troppa dispersione scolastica. Venni, quindi, assegnata alla Raffaele Viviani, nel Parco Verde di Caivano, che era considerata la peggiore scuola d’Italia.
Nel parco Verde vivono poche persone, poco più di 3800. In questo pezzetto di terra il contesto è complesso: ci sono molte case che avrebbero dovuto essere temporanee, ma cui, poi, nessuno ha pensato più. Il problema, a mio parere, non è tanto della gente che ci abita, ma della dirigenza che non viene esercitata e dell’amministrazione che sfrutta la povera gente.
Ci sono due scuole, di cui una delle due è la Viviani. Quando arrivai per la prima volta a vedere la sede, mi trovai davanti a quella che non poteva essere davvero una scuola: un edificio abbandonato, chiuso catenacci davanti ai cancelli, materassi accatastati all’ingresso e una signora con una scopa che puliva il viale. Andai allora in succursale, ma una volta arrivata, non mi presentai come futura preside. Chiesi se ci fosse qualcun con cui poter parlare, mi dissero che erano tutti in ferie. Ovunque c’era disordine e confusione. Chiesi informazioni e mi spiegarono la situazione: nella sede centrale al Parco Verde nessuno voleva andare, c’erano molti studenti iscritti, ma la maggior parte non andava a scuola, i professori facevano tardi e i pochi ragazzi che si presentavano a lezione erano spesso lasciati soli in aula.
La mia sfida educativa, in quel primo periodo, è stata principalmente fare le pulizie, ripulire tutta la scuola e gli ambienti. Finita la parte di pulizia e riordino, sistemati gli spazi, mi aspettavo che i ragazzi sarebbero venuti a scuola, ma così non accadde, e capii che, in realtà, la mia nuova sfida educativa era far venire i ragazzi a scuola con gioia. Una mattina decisi di scendere in strada e andare per le vie a cercare i miei studenti. Camminando vedevo le persone su balconi delle case. Quando mi vedevano a loro volta, molti mi chiamavano, mi invitavano nelle loro case, mi offrivano il caffè: in questi gesti, in quei silenzi, vidi una disperata richiesta di aiuto. I ragazzi continuavano a non venire a scuola e mi chiedevo perché. Capii che questi giovani spesso sono partoriti con atti, non so se di amore, perché nella solitudine ci si incontra e si vivono le pulsioni.
Scoprii qualcosa nel Parco Verde: tutto lì era già predestinato. C’era bisogno di cambiare molte cose, così decisi di introdurre il tempo prolungato per tenere più tempo i ragazzi scuola, la stavo trasformando in un istituto di eccellenza. Volevo anche introdurre la possibilità di crescere i bambini fin dall’infanzia, ampliare i gradi di istruzione per evitare la dispersione scolastica. Il mio progetto, però, è stato bloccato dai colletti bianchi che detenevano il potere nel territorio, che mi hanno costretto ad andare via.
Alla fine, fui spostata in una scuola che, secondo i piani, doveva sparire dalla mappa di Caivano. Si diceva che mancassero le aule, ma io ne trovai 30 vuote, utilizzabili, mentre tutti dicevano che era necessario costruire altre scuole. Ricordo che, in quei mesi, ci fu un ragazzo che venne a dirmi che ero come un leone ferito: soffrivo, ma non ero morta. Anche grazie a queste parole decisi di accettare il posto e buttarmi in questa impresa. Non so se ho svolto bene il mio lavoro di preside, ma sicuramente ho fatto una scelta: per metà sono una preside, per l’altra metà sono ciò che mi passa per la testa. Iniziai a sistemare tutto anche nella nuova scuola, mi sono messa a lavorare con altre persone per creare la bellezza interna, fatta di sacrifici e pulizia. Sfida educativa vuol dire anche prendersi le responsabilità, agire attivamente, senza scorciatoie.

Cosa vuol dire, quindi, sfida educativa?

Credo che si possa fare n paragone fra la Scuola e la Chiesa: la Chiesa cerca di curare le anime, ma non ha la responsabilità di certificare i risultati delle persone, cosa che invece deve fare la Scuola. La Chiesa ha l’obbligo morale di dare una carezza a chi sbaglia e a chi si perde. La Scuola ha mezzi diversi, ma ha scopi, secondo me, comuni: dare alla famiglia umana dei valori, non solo predicandoli, ma praticandoli attivamente. La Scuola si divide in semi e germogli: entrambi cadono nel terreno. Se il terreno è inquinato, va pulito con le nostre mani. Gli educatori devono riuscire ad essere di fianco ai ragazzi e alle ragazze, devono essere modelli, non devono portare nella direzione che vogliono loro ma devono riuscire ad instaurare un colloquio, un ascolto: da questo il concetto di rigenerazione. Per contare bisogna esserci: è importante come ci comportiamo in tutti i giorni, dobbiamo scegliere fin dall’origine cosa fare nella nostra vita, altrimenti si corre il rischio di perdere tutto. Non importa se abbiamo l’approvazione degli altri, perché può venire meno da un momento all’altro. L’importante nella vita è condividere una missione e una visione. Io al Parco Verde ho immaginato di portare la bellezza e ho cercato di rendere visibile all’altro il bello, impegnandoci per superare giudizi e pregiudizi, per evitare di creare un ghetto. Dobbiamo riuscire a far nascere nei giovani la volontà di ricreare il bello e il benessere anche nelle periferie.
È importante che i ragazzi imparino che niente arriva per caso, che è necessario impegnarsi e coltivare i propri talenti, ricordando che niente è dato per scontato. Gli educatori, però, hanno come sfida educativa quella di aiutare i ragazzi a far emergere i propri talenti, investire nei ragazzi là dove gli altri non investono, aiutandoli a scoprire le proprie passioni e ambizioni. I miei studenti sono esemplari in questo, perché senza avere niente, sono riusciti a creare la bellezza: ognuno di noi sta lavorando per ricucire la coesione sociale e la responsabilità in questi luoghi, ma è un percorso lungo, che passa attraverso la responsabilità di tutti, come singoli e come collettività.
Sfida educativa è utilizzare ogni attimo di vita che abbiamo, ricordando che ciò che conta non è l’apparenza ma la sostanza.

Quali ricchezze si sente di trovare nei luoghi in cui lavora quotidianamente? Sono ricchezze che in altri contesti non si riesce a cogliere?

Ci sono tanti sguardi, tante parole. Un semplice saluto, un buongiorno, per me quella è ricchezza. Spesso in città la gente non si saluta più, mentre io nel mio lavoro trovo gente che mi saluta, gente che mi chiede aiuto. Tutto questo mi da la forza di credere ancora nell’umanità e nello stare insieme.

Secondo lei, quanto il benessere economico e sociale incide sulla ricettività degli studenti e su come i ragazzi si approcciano alla scuola?

Io credo che la cosa veramente importante sia stimolare a creare e far emergere il bello e la creatività nei ragazzi, affinché diventino orme e tracce su cui progettare il proprio percorso in futuro. Per questo credo che non sempre il benessere economico sia la vera ricchezza, il vero benessere è tutelare i valori.

L’educazione non riguarda solo i ragazzi e la scuola, ma anche gli adulti. Anche questi dovrebbero essere in qualche modo rieducati all’ascolto e a piccole attenzioni nel modo in cui si rapportano con i giovani?

Gli adulti hanno smesso di essere modelli, e questo è un pericolo, perché se i giovani vedono che i genitori non parlano più, che gli adulti fanno finta di niente e si lamentano e basta, non è più un ruolo di guida positiva. Gli adulti dovrebbero imparare a mettersi accanto e a rimodulare il loro modo di approcciarsi, per evitare di creare un muro fra loro e i giovani. Forse noi adulti dovremmo diventare un po’ invisibili e renderci capaci di ascoltare i giovani, mettendo a disposizione la nostra esperienza.

Cosa la sostiene in queste sue scelte così coraggiose e faticosa?

Quando ti rendi conto che c’è da fare, non ti chiedi se ce la farai. In questi luoghi, la forza emerge senza che tu te ne accorga. Mi immagino la vita come una consegna di testimone, dove creo qualcosa di bello per ciò che verrà in futuro.

Secondo lei quale è il problema principale della scuola?

Ci siamo innamorati di ciò che abbiamo costruito in passato, ma siamo rimasti fermi lì. Dobbiamo trovare il coraggio di far diventare la professione di docente la più bella del mondo, ma io vedo sempre meno persone appassionate. Vorrei una scuola che faccia innamorare i ragazzi della cultura, che li incanti in aula e che li faccia innamorare della materia. Bisogna stimolare la cultura e lasciare spazio ai ragazzi di emergere con le loro idee. Credo che dovrebbero essere introdotte tre discipline fondamentali nella scuola: la filosofia, il diritto e l’economia sana.

C’è stato un momento dove ha capito che ciò che stava facendo si stava davvero concretizzando?

C’è un episodio che vorrei raccontare. C’era una ragazza che non riusciva proprio a stare a scuola, aveva molte difficoltà a studiare. Era già stata non ammessa due anni consecutivi alla classe successiva, però mi ero accorta che ogni cosa che toccava, la faceva brillare, puliva tutto alla perfezione, riordinava gli ambienti e sistemava le cose. Una volta le chiesi cosa le piacesse davvero fare, lei mi rispose che le piaceva fare e pulizie e tenere la casa pulita. Facemmo un accordo: lei mi promise che avrebbe seguito tutte le prime ore di lezione, e io in cambio le promisi che avrebbe potuto ripulire e sistemare tutto il mio ufficio come meglio credeva. In questo modo, riuscii a farle seguire le lezioni a cui non era mai andata.

Giulia C. – Firenze

Il rosso e il blu

Cerchiamo regole, forme, canoni, ma non cogliamo mai il reale funzionamento del mondo. La vera forma di tutto ciò che è fuori di noi, come di tutto ciò che è dentro di noi, è per gli uomini un eterno mistero. L’incapacità di risolvere questo mistero ci terrorizza, ci costringe ad oscillare tra la ricerca di un’armonia impossibile e l’abbandono al caos. Ma, quando ci accorgiamo del divario che c’è tra noi e il mondo, tra noi e noi, tra noi e Dio, allora scopriamo che possiamo ancora provare stupore, che possiamo gettare uno sguardo intorno a noi, come se fossimo davvero capaci di vedere per la prima volta.

Cito dalla fine per introdurre uno dei migliori “film scolastici” italiani degli ultimi anni. Si chiama Il rosso e il blu (rimando traverso a Stendhal?), ed è l’ultima pellicola del marchigiano Giuseppe Piccioni, classe 1953. Abbandonate le note melodie francesi della precedente opera, Giulia non esce la sera, toccante dramma d’amore su una Golino incarcerata e un Mastandrea innamorato sollecitato dalle note dei Baustelle, nel 2012 sperimenta un genere completamente diverso per approcciare un tema difficile. Molto più reale e concreto, Il rosso e il blu si traspone in un coro mai totalmente armonico, dove ogni voce ha il suo timbro e la sua stonatura, una modulazione variegata e ricca di sonorità. Prendendo le distanze da qualunque intento sociologico o di denuncia, la pellicola è una commedia sul mondo della scuola, un racconto corale che intreccia i percorsi di tre insegnanti, con le loro idiosincrasie e contraddizioni. Il salto di qualità si palesa nel passaggio da chi non ha nulla da dire e mostrare se non adolescenti irrefrenabili in crisi ormonale (“Notte prima degli esami”, “Che ne sarà di noi”), approdando a un livello intermedio, con toni da commedia agrodolce dell’opera di Luchetti ma senza il coraggio di portarla a termine. Il film di Piccioni si fonda su due antagonismi: insegnamento-correzione, come il rosso e il blu della penna con cui l’insegnante cancella i limiti giovanili, e adulti-giovani, due pianeti distanti che spesso collidono, distruggendosi a vicenda. Nel proporre questa visione antinomica del vissuto scolastico la pellicola appare equilibrata, senza scadere in storpiature alla Moccia né in trasognate epopee generazionali, e puntellata da una colonna sonora adeguata e non invasiva, firmata Ratchev & Carratello. La bravura di Herlitzka, poi, merita ogni singolo minuto.
Fabio Greg Cambielli