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Dal nostro amico e “corrispondente” in stanza in Afghanistan

Questa mattina mi sveglio con il tubare di due tortorelle che stanno allestendo il loro nido vicino alla finestra della mia stanzetta. Che piacevole canto, mi piacerebbe sapere che cosa quelle care tortorelle si dicono.
Cosa si diranno le due tortorelle che mi hanno svegliato questa mattina di sole. Forse hanno capito che è arrivato il giorno tanto atteso. Vi ricordate i 4 gemelli che avete aiutato? Oggi andiamo a trovarli! Non si può descrivere l’euforia che aleggia nell’aria tra noi. Da giorni programmiamo quest’uscita, ma i talebani hanno annunciato l’offensiva di primavera.
Gli obiettivi indicati dal Mullah Omar sono le sedi diplomatiche, le basi militari e i centri di intelligence delle forze internazionali impegnate in Afghanistan, a partire dalle 5 del mattino di oggi, venerdì 24 aprile 2015. I nostri colleghi di Mazar-i-Sharif se la sono vista brutta, trascorrendo così almeno sei ore nei bunker. Almeno due razzi sono stati lanciati contro Camp Marmal, la più grande base della Bundeswehr al di fuori dei confini della Germania. Mazar-i-Sharif è la quarta maggiore città afghana, con una popolazione di circa 300.000 abitanti.
Finalmente il via libera per uscire dalla nostra base; le nostre Mercedes GL blindate sono in movimento.
Siamo fuori, c’immettiamo sulla ring road, quell’anello d’asfalto che corre attraverso il territorio dell’Afghanistan e unisce le maggiori città. È un via vai di torpedoni, autovetture motociclette caricate all’inverosimile. Guardiamo ogni veicolo ogni persona con sospetto. La tensione è altissima. Soltanto ieri a Kabul ci sono stati due attentati suicidi nei confronti di altrettanti veicoli delle forze internazionali e che solo per mero caso non hanno prodotto morti. Dopo tre quarti d’ora, e 25 km a est di Herat, arriviamo al villaggio Abdul Abad: sono già tutti lì ad attenderci Aesha, Roqeya e Farahulldin. Oltrepassiamo una porta di ferro ed ecco la piccola corte e la casa, si e no 20 metri quadri, due camerette in tutto, per una famigliola cresciuta un po’ troppo. Ma sentiamo già la voce di chi, come per incanto, avvertendo la nostra presenza, sa che siamo arrivati per loro. I quattro gemellini sono stati vestiti a festa. Appoggiati sul tappeto della stanza principale. Nessuno di noi riesce a esprimere una sola parola. Lo splendore di questi bimbi ha qualcosa di magico! Seppur questa famiglia viva nella più estrema povertà ha espresso una dignità che ha pochi eguali. Rimaniamo colpiti di quanto amore c’è stato da parte della mamma nella cura dei particolari, i vestitini, le scarpette, le cuffiette.
Consegniamo al papà la scorta di latte e qualche altro piccolo aiuto. Tutta la famiglia si è riunita per accoglierci e ognuno di loro ha una parola di affetto per noi che siamo un po’ meno “stranieri” per loro.
Mentre la mamma ci prepara il tè che ha un gusto unico, approfittiamo per scattare qualche foto. Non lo sanno ancora, ma sarà l’ultima volta che potremmo far loro visita: si percepisce già un po’ di malinconia. Non c’è l’allegria tipica delle famiglie numerose.
Torneremo alle nostre famiglie, ai nostri affetti. Ma questi visi non li dimenticheremo mai. In questo angolo del mondo dove il progresso non è riuscito a portare alcun beneficio, questo spettacolo della natura ha inciso per sempre i nostri cuori!
Ciao Safa, ciao Marwa, ciao Madena e ciao Atiquallah (il maschietto)
“Allah sia sempre con voi e con le vostre famiglie”, con questa benedizione il capofamiglia, con gli occhi lucidi, ci saluta e ci abbraccia.
Addio Badraddin!

Thelma e Louise

Sedotto dal soggetto ultrasovversivo di Callie Khouri (Oscar per la miglior sceneggiatura), il regista di Blade Runner, Alien e Legend, spazza via le cortine fumogene e i controluce. Ridley Scott ha scelto lo stile hard da spot nel profondo Sud, corpi in ebollizione, polvere e jeans per l’avventura di due donne a bordo di una Thunderbird decappottabile 1966. Arkansas e già verso il Grand Canyon, obiettivo Messico.
Il film nasce leggero, Thelma (Geena Davis), sindrome di Peter Pan, con marito-padre repressivo, e Louise (Susan Sarandon) cameriera in un bar con boyfriend tenebroso, decidono per un weekend da sole nella casa vuota di un amico, lontano dal ménage, pagato o no. Ma Thelma vuole fermarsi, ballare e bere lungo la strada. Louise guida, non vuole, ma si ferma. Finiranno in un parcheggio, una sdraiata su un’auto a un soffio dalla violenza carnale e l’altra con la pistola calibro 38 puntata sul collo del latin-lover fallito. Louise spara al bruto impomatato che sotto la canna puntata osa ancora lo stupro verbale. E via, Thelma e Louise passano il «confine» non solo allegorico e attraverso gli States tracciano una nuova High way 66.
L’America le accompagna con scenari grandiosi, in sintonia con la nuova rabbia di donne braccate. Harvey Keitel, poliziotto comprensivo, l’unico uomo degno di questo nome, è sulle loro tracce. E Thelma e Louise collezionano crimini in crescendo ma con l’allegria di Sailor e Louis, la complicità di Bonnie e Clyde, l’astuzia di Butch Cassidy e Billy the Kid.
Rapine ai supermarket, un poliziotto «nazi» chiuso nel bagagliaio della sua auto in pieno canyon (e scoperto da un nero in bicicletta che spinella con un walkman, scena irresistibile), toccata e fuga con un giovane autostoppista interpretato da un altrettanto giovane e aitante Brad Pitt, l’esplosione di un’autocisterna guidata da un tipaccio e ancora, Stato dopo Stato, verso la frontiera al ritmo battente dell’autoradio.
La commedia entra in tensione e sconfina nel cinema che fu New World anni settanta, direzione Corman: donne fuorilegge, donne con la pistola.
Thelma e Louise non sono più due ragazze dell’Arkansas ma due eroine selvagge che impongono una nuova legge.
Implacabile film antimacho che evoca le due bande di Russ Meyer, Thelma & Louise si fa on the road politico, macigno scagliato contro l’ordine maschile, struggente. Fino alla fine tragica, ma al contempo lirica e ironica: circondate da un plotone di auto poliziesche, in alto un elicottero e in basso la vertigini del Canyon, Thelma e Louise scelgono il volo ad angelo nel pulviscolo rosso del sole.
La Thunderbird parte, salta nel vuoto e resta sospesa nei titoli di coda.
Non si torna indietro.
Jonathan Demme le avrebbe portate fino in Messico. Clint Eastwood salvate con la sua 44 Magnunm. John Landis avrebbe pensato un bel crash tra pantere ed elicottero. Ridley Scott, invece, le fa morire. Peccato, non ci sarà un Thelma & Louise 2 – La vendetta.

Fabio Gregg C., 2015 aprile 26

Gesù pastore buono o borghese?

Siamo nel tempo di Pasqua? Il tempo che ha fatto il Signore, il tempo in cui ragioniamo e preghiamo sulla pietra che i costruttori hanno scartato ed è diventata pietra angolare!
Il tempo della risurrezione, della vita, delle apparizioni, dello Spirito santo: cosa c’entra con tutto ciò Gesù pastore buono, che questa domenica ci presenta la Chiesa?
Non è forse una immagine troppo romantica e zuccherosa per parlare di Gesù che poco ha a che fare con la Pasqua?
Però questa immagine ci piace, ci rasserena, ci imborghesisce.
L’immagine di Gesù pastore “buono” e “bello” e “vero” (questo il significato della parola greca originale kalos) non riguarda solo l’estetica artistica, ma la bellezza della vita di Cristo.
C’è una parola che ricorre 5 volte in questo brano di san Giovanni: darsi, donarsi, nell’originale greco, spogliarsi, della vita:
Gesù il pastore buono, bello e vero è pastore proprio perché si spoglia della sua vita per noi, per la nostra salvezza;
Gesù il pastore buono, bello e vero è pastore perché conosce il Padre, cioè ha vissuto la sua conoscenza del Padre sino alla Croce. Gesù è pastore perché porta in sé le piaghe della croce e in forza di queste piaghe può chiamare le sue pecore nel suo gregge. C’è un Amore nella vita di Gesù che non è solo parole, ma intimità con Dio, comunione di pensiero e di azione con il Padre. C’è un Amore in Gesù che è ricevuto dal Padre, vissuto dal Cristo, donato nello Spirito santo a ogni uomo, ecco perché Gesù è il pastore buono, bello, vero, perché vive di questo Amore e non lo tiene per sé ma lo dona a noi, a coloro che sanno ascoltare!
Non c’è uomo nella storia dell’umanità che non desideri il bene, il bello, il vero, ma non tutti gli uomini vogliono ascoltare e trovare risposta.
E noi tra quali uomini siamo? Abbiamo orecchie aperte o chiuse?
Abbiamo voglia di entrare in questo movimento di Amore che viene dal Padre e in Cristo attraverso lo Spirito si dona a noi?

Oggi la Chiesa ci invita a pregare per il dono delle vocazioni alla vita sacerdotale, ci invita a chiedere il dono di operai per la messe del Signore, pastori per il popolo di Dio, ma pregare non è soltanto dire una Ave Maria, bensì imparare e insegnare a vivere questa azione di Amore. Là dove una Chiesa è chiusa in se stessa, non è capace di chiedersi come vivere il tempo in cui esiste, si crea solo aridità, autoreferenzialità, sterilità vocazionale!
Il pastore buono ci invita a essere pecore buone, belle e vere, capaci di ascoltare il bene, il bello, il vero dell’Amore di Dio per costruire il bene, il bello, il vero la dove si vive, anche a costo del sangue, della Croce!
C’è bisogno di bene, di bello, di vero là dove vivo?
Quanto bene, bello e vero porto là dove vivo?
Chiediamo a Dio che susciti in tutti i giovani l’ansia del bene, del bello e del vero; chiediamo ai giovani di non avere paura nell’ascoltare la voce di Cristo pastore buono non solo per essere parte del suo gregge, ma anche operai, sacerdoti della sua vigna, del popolo di Dio.
Chiediamo ai giovani di non avere paura di entrare nel vortice dell’amore di Dio per ridonarlo a tanta umanità bisognosa di bene, di bello e di vero.

Genocidio armeno, educare per non dimenticare

Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto, IlSole24ore 2015 04 19

Medz Yeghern il “ Grande Male”: così gli Armeni definiscono il genocidio che un secolo fa falcidiò il loro popolo per il solo motivo della sua fede cristiana. Era la notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 quando molti esponenti dell’élite armena di Costantinopoli vennero arrestati. A partire da quella data, in un solo mese più di mille intellettuali armeni, giornalisti, scrittori, poeti e delegati al Parlamento furono deportati verso l’interno dell’Anatolia. Quasi tutti furono massacrati lungo la strada. Responsabili di arresti, deportazioni e omicidi erano i Giovani Turchi, gruppo nazionalista nato all’inizio del Ventesimo secolo e giunto al potere col progetto di creare in Anatolia uno Stato turco etnicamente omogeneo.
Fu messa in atto un’efferata “pulizia etnica”, che condusse alla morte di oltre 1.200.000 persone, uccise dalla fame, dalla malattia o dallo sfinimento, quando non eliminate fisicamente dalla violenza criminale del potere turco, che agiva con la supervisione di ufficiali dell’esercito tedesco in forza dell’alleanza tra Germania e Impero Ottomano. Quanto avvenne costituì di fatto la prova generale della Shoah attuata dai Nazisti contro gli Ebrei durante la seconda guerra mondiale. Le fotografie di Armin T. Wegner – il soldato tedesco che, a rischio della vita e contravvenendo agli ordini ricevuti, rivelò al mondo lo sterminio – sono testimonianza di quei fatti atroci. Mentre il governo turco seguita a rifiutare il riconoscimento del genocidio armeno, una recente legge francese punisce con il carcere la negazione di quel genocidio. Il 12 aprile scorso Papa Francesco ha parlato apertamente dello sterminio degli Armeni, «generalmente definito come il primo genocidio del XX secolo», citando una dichiarazione comune del 2001 di Giovanni Paolo II e del Patriarca armeno Karekin II in occasione della celebrazione del 1700° anniversario della proclamazione del cristianesimo quale religione dell’Armenia. L’affermazione del Papa ha suscitato una dura reazione della Turchia, che ha richiamato il proprio ambasciatore e ha convocato il nunzio apostolico della Santa Sede. Nella stessa Turchia le cose cominciano però a cambiare: così si è la lasciata cadere la denuncia contro Orhan Pamuk, lo scrittore turco di fama mondiale, che in un’intervista ad un giornale svizzero si era espresso senza ipocrisie sui tragici fatti accaduti. Riflettere su di essi è importante per tutti, perché gli elementi che caratterizzarono il “grande male” messo in atto esattamente un secolo fa si sono più volte ripetuti nel XX secolo e farne memoria potrebbe aiutare ad evitare che accadano ancora. Si tratta delle ragioni politiche soggiacenti a quelle etnico-religiose che motivarono il genocidio, del carattere di sterminio di massa programmato e attuato sistematicamente che esso ebbe, e dell’impatto di quegli eventi sull’intera storia del Novecento.
L’obiettivo dei Giovani Turchi era fare della Turchia uno stato nazionale sul modello dei paesi europei nati nell’Ottocento: il Paese avrebbe dovuto essere “purificato” da elementi estranei e unito con il mondo turcofono dell’Asia centrale (il Turkestan). L’ostacolo più evidente da eliminare per portare a termine questo sogno nazionalista erano proprio gli Armeni, cristiani e indoeuropei, organizzati in millet, comunità religiose e nazionali, che secondo il progetto dei Turchi erano destinate semplicemente a sparire dal territorio fino ad allora da essi abitato, che doveva entrare a far parte della grande Turchia. L’ambizione dei Giovani Turchi era di conseguire con la forza ciò che la storia non aveva realizzato. Con gli Armeni, erano i Greci e gli Assiri altri fra i più importanti gruppi cristiani da sopprimere. A cooperare con i Giovani Turchi nelle stragi furono inizialmente anche i curdi, iranici, ma musulmani. Gli esseri umani da eliminare avevano la sola colpa di appartenere a un’etnia e a una religione diverse da quella dei carnefici: nessun possibile titolo di giustificazione poteva essere preso in considerazione; la fuga o la morte erano le due sole alternative lasciate a un intero popolo. Fu così che oltre agli innumerevoli innocenti massacrati, tanti Armeni fuggirono verso Occidente, anche in Italia, spesso modificando i loro nomi di famiglia per non essere riconoscibili e quindi raggiungibili dai sicari della follia omicida dei giovani Turchi. I bellissimi romanzi di Antonia Arslan (“La masseria delle allodole” e “La strada di Smirne”) hanno reso accessibile a molti lettori la conoscenza di questa immane tragedia.
L’eliminazione del “diverso” veniva realizzata in maniera ufficialmente “pulita”, dando cioè l’impressione che si trattasse di trasferimenti di massa verso nuovi insediamenti e che solo incidentalmente ciò comportasse la perdita della vita. In realtà, oltre gli omicidi perpetrati efferatamente, la maggior parte degli Armeni in fuga morì per le condizioni delle marce forzate verso una salvezza del tutto improbabile, spesso senza cibo né riposo, incalzati dalla minaccia degli oppressori. Proprio così, quello armeno divenne il primo genocidio del Novecento, atroce modello per tutti gli altri poi realizzati, a cominciare dalla Shoah del popolo ebraico e dai sei milioni di morti da essa prodotti. Impressionante fu l’opera di formazione ideologica degli assassini, che dovevano essere convinti di “lavorare” al servizio della causa della grande Turchia, ma che in realtà erano spesso criminali comuni, predisposti dall’ignoranza e dalla fame ad accettare le condizioni imposte dal potere per la loro stessa sopravvivenza. L’impatto del Medz Yeghern fu molto forte, al di là del tradimento politico del popolo armeno, sacrificato dalle potenze occidentali in nome di una presunta convivenza con l’Impero Turco oramai in dissoluzione: le élites culturali che sopravvissero al massacro portarono in giro per il mondo la raffinata cultura della Nazione che per prima aveva abbracciato il cristianesimo come religione ufficiale già nel quarto secolo. La concentrazione di memorie culturali e di fonti letterarie armene, già da tempo presenti specie nell’Isola di San Lazzaro a Venezia, consentì l’accesso alla loro conoscenza da parte di molti studiosi e dell’opinione pubblica, cui scrittori e storici poterono comunicare i risultati delle loro ricerche. Purtroppo, però, il Grande Male servì da modello per nuove e ancor più efferate forme di barbarie, come quella concepita e messa in atto dal Nazionalsocialismo per la distruzione degli Ebrei d’Europa. Fare memoria dei fatti avvenuti un secolo fa non è allora solo un dovere morale di ricordo dei tanti innocenti uccisi, ma anche una sorta di educazione a non dimenticare, affinché quel male non abbia più a ripetersi. In questa direzione vanno le parole pronunciate da Papa Francesco: e addolora il fatto che l’attuale élite del potere turco abbia reagito così duramente ad esse, come se il male compiuto nulla avesse insegnato. “Ricordare – ha ribadito il Papa – è necessario, anzi, doveroso, perché laddove non sussiste la memoria il male tiene ancora aperta la ferita; nascondere o negare il male è come lasciare che la ferita continui a sanguinare senza medicarla!”.

Udienza di papa Francesco per EarthDay 2015

Earth Day Italia ha aderito alla campagna “Una sola famiglia umana, cibo per tutti: è compito nostro!” versione italiana dell’omonima mobilitazione “One Human Family. Food for All” lanciata a livello internazionale da Papa Francesco e da Caritas Internationalis il 10 dicembre 2013. La Campagna vuole promuovere un cambiamento nel modello di sviluppo economico, partendo dagli stili di vita del singolo, con un impegno anche a livello politico affinché tutte le persone, in Italia, in Europa e nel mondo, abbiano accesso al bene comune costituito da un cibo sano, nutriente e giusto.
La logica è la seguente: non c’è diritto al cibo se non si regola la finanza; non c’è buona finanza se non si introducono buoni principi; non c’è pace durevole se non è fondata sulla giustizia sociale e sul rispetto dei diritti di tutti, tra cui quello essenziale al cibo.
Sono questi i principi che il Santo Padre ha ribadito anche nel mese di Febbraio durante il suo intervento  alla Fao nel corso della Seconda Conferenza Internazionale sulla Nutrizione “Il diritto all’alimentazione sarà garantito solo se ci preoccupiamo del suo soggetto reale, vale a dire la persona che patisce gli effetti della fame e della denutrizione. Il soggetto reale!”. 15 minuti di discorso in spagnolo in cui il Santo Padre ha lanciato un forte appello per la soluzione di questo problema che colpisce ancora tantissime persone.
Earth Day Italia vuole ribadire l’importanza di abbracciare questa campagna e lo fa proprio con il Santo Padre, il 22 aprile 2015 in occasione della Giornata Mondiale della Terra. Quale occasione migliore per lanciare un appello capace di andare diritto al cuore!

L’Udienza Pontificia di mercoledì 22 aprile, Giornata Mondiale della Terra, darà l’opportunità alle scuole che hanno partecipato al premio sull’Alimentazione Sostenibile – contest lanciato da Earth Day Italia e Cittadinanza Attiva – di consegnare al Santo Padre una testimonianza dei lavori realizzati a testimonianza del dovere di tutti di promuovere il rispetto e l’educazione all’alimentazione nei più piccini.

Curare il pianeta non è una moda, è una forma di cultura

In occasione della giornata della terra, leggiamo e riproponiamo da Avvenire del 18 aprile 2014 la riflessione di di  Melchior Sànchez De Toca (Sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura).

 

La Bibbia, il grande codice della cultura occidentale, quel grande alfabeto colorato dove, secondo Chagall, i pittori per secoli hanno intinto i loro pennelli, descrive con tratti essenziali il rapporto tra l’uomo e la Terra: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). La terra, un giardino da coltivare, da custodire – peraltro uno dei grandi nuclei tematici su cui è imperniato il padiglione della Santa Sede all’Expo 2015 – esprime il giusto rapporto tra l’uomo e l’universo, forse in un modo più vicino alla nostra sensibilità moderna che non il “riempite la terra e soggiogatela” della Genesi (1,28).

Coltivare la terra rimanda, già nella stessa radice latina, a due dimensioni fondamentali dell’esistenza umana: il culto e la cultura. E non è un caso se in molte altre lingue, a cominciare dall’ebraico biblico, il lavoro (‘abd) è strettamente collegato al servizio divino (‘abodah). La cura della terra è così intimamente legata a quel “prendersi cura” di sé che è all’origine della cultura e al rapporto con Dio, che si esprime nel rito, nei simboli, nei racconti.

La giornata mondiale della Terra, l’Earth Day, celebrato in tutto il mondo, ci ricorda queste verità essenziali.

Prendersi cura del pianeta non è un lusso, non è una concessione alla moda del momento. È prendere coscienza di una responsabilità comune a tutti, di un’urgenza impellente. Per decenni abbiamo sfruttato il pianeta che ci ospita, di cui siamo parte, e lo abbiamo saccheggiato, ben lontano da quel “prendersi cura” che Dio aveva ordinato all’uomo.

Curare il pianeta è un dovere di solidarietà nei confronti delle generazioni successive; ma comincia ad essere anche un atto di semplice sopravvivenza. E anche una forma di cultura, sia in senso etimologico, sia in quello comune.

per la Siria e non solo

Anche in questo gioioso tempo pasquale, la Basilica continua a mantenere tra le normali litanie della liturgia due litanie speciali per la Pace in Siria e in Medio Oriente, ove i nostri fratelli cristiani, inchiodati alle loro croci di violente persecuzioni e complice silenzio mondiale, aspettano pazientemente che la loro sete di vita, pace, giustizia e di tutto quello che è degno di un essere umano, sia saziata dall’acqua vivificante che zampilla dal santo costato del Cristo Crocifisso. Preghiamo per costoro che non si lasciano vincere dalla tentazione di abiurare il santo nome di Cristo, per evitare la morte o la tortura, anzi tutto sopportano, avendo ben compreso quanto prezioso sia anche solo il Nome di Cristo! Impariamo da loro e proteggiamoli in ogni modo in cui possiamo.

In modo particolare preghiamo per i responsabili di questa nobile terra di Siria e di Iraq. Concedi loro saggezza, lungimiranza e perseveranza; che essi non cedano mai allo scoraggiamento nel loro impegnativo compito di edificare la pace duratura a cui tutti i popoli anelano, preghiamo il Signore.

Ti preghiamo per tutti i popoli del Medio Oriente. Aiutali ad abbattere i muri dell’ostilità e della divisione e a edificare insieme un mondo di giustizia e solidarietà, preghiamo il Signore.

Fare Pasqua

Cosa significa Pasqua? Passaggio! Passaggio del mar Rosso, passaggio dalla morte alla vita, ma specialmente passaggio da una fede di religione a una fede di fede;
passaggio da una religione fondata su un uomo che è vissuto 2000 anni fa a una fede in un uomo che vive ancora qui e ora!;
passaggio da una fede in un Gesù spirituale a una fede in un Gesù concreto, che mangia con me, che pensa con me, che ama con me, che pensa e sceglie con me;
passaggio da una fede di paura a una fede di gioia, di azione, di testimonianza.
Fare Pasqua, come spesso diciamo, non significa solo confessarsi, fare la comunione, preparare delle uova o mangiare del cioccolato! Fare Pasqua significa passare da una vita misurata su me stesso, a una vita che arde continuamente come il fuoco del cero pasquale. Fare Pasqua significa incontrare il Signore Gesù e da lui lasciarsi incontrare!
Non un fantasma o un personaggio della storia, ma il vivente che rientra nella nostra vita in modo rinnovato e sconvolgente.
Fare Pasqua: credere in un Dio che si è fatto uomo, con un corpo, che continua a vivere con questo corpo passato attraverso la Croce!
Gesù non ritorna dai suoi discepoli accusandoli perché scappati, perché rimasti in undici, perché non volevano credere! Gesù torna continuamente dai suoi discepoli dicendo: Pace a voi! Non abbiate paura! Guardatemi, parlatemi, toccatemi nelle mie piaghe, mangiamo insieme, accogliamo insieme il dono dello Spirito santo.
Ma noi guardiamo a Gesù? parliamo con Lui? leggiamo di Lui? tocchiamo le sue piaghe? mangiamo con Lui? Accogliamo con Lui il dono dello Spirito santo?
Forse ci dimentichiamo che Gesù è risorto con il suo corpo e con il suo corpo rinnovato dall’azione potente dello Spirito santo si incontra con noi!
Forse ci dimentichiamo che la messa che stiamo celebrando è Gesù che parla con la Scrittura, che ci alimenta con il Pane eucaristico, che ci invita a correre con i nostri piedi per annunciare a tutti che Cristo è risorto nel suo vero corpo!
Quanta paura invece abbiamo di riprendere a ragionare con Gesù per capire in quale modo essere cristiani. Quanta paura abbiamo di vivere con gioia la nostra vita cristiana.
Ancora una volta abbiamo assistito a una tragedia nel nostro mare Mediterraneo, ancora una volta dei cristiani sono stati uccisi, ma forse a molti è scappato un particolare. Questi uomini e queste donne presi dalla paura di perdere la propria vita hanno reagito creando una catena umana, stringendosi in un solo corpo per combattere la paura. Il corpo di questi uomini trasfigurati dalla sofferenza è segno del corpo di Cristo che combatte la morte e dice che la vita esiste, che la vita è più forte!
«Faccio fatica a crederlo», scuote la testa Buba ripensando al ‘suo’ barcone e a quei quattro giorni in balia del mare, cristiani e islamici uniti. «Eravamo così numerosi e uno sull’altro che non saprei dire quanti fossero i cristiani in percentuale, ma ricordo bene i momenti in cui abbiamo pregato insieme, io e i ragazzi che stavano più vicini a me. Loro pregavano spesso, ma non mi è mai passato per la mente che non avessero il diritto di rivolgere il pensiero al loro Dio: credo che tutti gli uomini sulla terra abbiano il diritto di professare la propria religione, ancor più nel momento del bisogno».
Credo che troppo spesso abbiamo paura, paura di incontrare Gesù nel suo vero corpo e di stare e mangiare con Lui; paura di diventare una cosa sola con Lui e di correre a raccontare a tutti che Gesù è vivo in mezzo a noi.
Paura di fermarci, per non dare spazio all’odio, ai cattivi pensieri ma spazio allo Spirito santo perché ci aiuti a distinguere le vie della pace che combatte la guerra, la via dell’umiltà che scaccia l’orgoglio, del dialogo che scardina ogni forma di chiusura.
Anche oggi «Gesù in persona appare in mezzo a noi e dice: “Pace a voi, non abbiate paura”».

Siria, che speranza abbiamo? L’appello di padre Sammour

Più di 220 mila morti, oltre un milione i feriti e 12,2 milioni gli sfollati della guerra in Siria che giunge al suo quinto anno. In Libano, una persona su quattro è un rifugiato siriano, per un totale di quasi 1,2 milioni di rifugiati in un paese di soli 4 milioni di abitanti, secondo il Jesuit Refugee Service in Siria. La testimonianza del direttore, padre Nawras Sammour, apparsa su “Orientamenti Sociali”.

Beirut, 24 marzo 2015 – Siamo entrati nel nuovo anno con tutta la speranza che eravamo riusciti a raccogliere dentro e fuori di noi, prendendola dalle nostre famiglie, dalla comunità, addirittura dai nostri nemici. L’abbiamo messa tutta insieme e condivisa tra noi a piccole dosi, appena sufficienti per andare avanti. Abbiamo pregato e sognato che tutto ciò sarebbe stato l’inizio della fine dell’orrore; che nel 2015 saremmo riusciti a gettarci alle spalle gli ultimi quattro anni, e dimenticare tutto il sangue versato: i padri persi e le madri in lutto, i bambini affranti, le città distrutte e le aspirazioni svanite.

Speravamo che chi era coinvolto direttamente nel conflitto a livello regionale e internazionale avrebbe trovato il modo di porre fine alle ostilità. Li abbiamo pregati di smettere di bombardare i civili e gli operatori umanitari. Gli abbiamo chiesto di trovare un modo per generare la volontà politica di porre fine al conflitto attraverso una soluzione negoziale. Ma sembra che i nostri appelli siano rimasti inascoltati.

I mesi di gennaio e febbraio ci hanno invece portato le violenze più brutali viste fino a quel momento. Ci sono piovuti addosso atti di violenza indiscriminata da tutte le parti in conflitto: proiettili, barili-bomba, bombardamenti, missili, mortai, violenze sessuali, arresti arbitrari, sequestri, torture, decapitazioni ed esecuzioni; una raffica senza fine di crimini contro la nostra umanità. Come civili, siamo stati privati della nostra libertà ed esposti al mondo come uno spettacolo, mentre la comunità internazionale ha convenientemente evitato di prendere piena responsabilità per il ruolo assunto nella macabra rappresentazione in corso in Siria e nel Medio Oriente.

In tutta onestà, è come se fossimo stati più vicini a una soluzione nel 2012/2013 di quanto non lo si sia adesso nel 2015. Sia l’inizio, sia la fine di questa follia sono due punti così distanti che ora come ora non vediamo altro davanti a noi se non oscurità senza fine.

Che speranza abbiamo? Per i nostri figli: nessun futuro da offrire. Per i nostri anziani: lapidi senza nome, case vuote, il dolore di seppellire i figli. Per noi. solo esistenze distrutte.

Migriamo a milioni, stringendoci in città che non sono le nostre, gli uni accanto gli altri come sardine in scatola. Scappiamo in paesi vicini che non ci vogliono, che non possono sostenerci, solo per poter respirare aria che non abbia l’odore della morte. Ci avventuriamo nei mari per raggiungere l’Europa sapendo che potremmo annegare. Ma che differenza fa? Stiamo comunque annegando nel nostro sangue in Siria, perché non farlo in acque pulite che almeno non hanno un sapore così amaro?

Sono parole che riassumono a malapena la tragedia e la disperazione diventata dura realtà per i siriani che entrano nel quarto anno di uno dei conflitti più brutali dell’ultimo secolo. In Siria, i decessi aumentano senza controllo; si stima siano più di 220mila i morti, più di un milione i feriti e 12,2 milioni le persone che hanno urgente necessità di assistenza sanitaria. Nel Libano, una persona su quattro è un rifugiato siriano, per un totale di quasi 1,2 milioni di rifugiati in un paese di soli 4 milioni di abitanti. Dopo quattro anni in cui l’afflusso di rifugiati è stato costante, le infrastrutture del piccolo paese sono vicine al collasso. Nella regione, la tradizionale ospitalità sta venendo meno e nascono tensioni tra comunità ospitanti e comunità rifugiate. I siriani si sentono intrappolati nella regione, e non hanno un altro posto sicuro in cui andare. I colloqui di pace che si sono svolti a Mosca in gennaio non hanno ancora prodotto alcun passo avanti per nessuna delle parti in causa.

I siriani si sentono più disperati e divisi che mai. Ci sentiamo al contempo abbandonati e attaccati da tutti. Quando al gruppo di lavoro del JRS ad Aleppo è stato chiesto se avesse notato un aumento degli attacchi aerei dovuto a quelli sferrati dalla coalizione internazionale contro l’ISIS, la risposta è stata: “Pensate che sappiamo riconoscere la differenza tra un attacco e l’altro? Non ha importanza chi attacca, sono comunque bombe lanciate su di noi”.

Nelle parole di un padre di Homs: “Noi siriani preferiamo rimanere in Siria. Amiamo il nostro paese, ma è diventato insostenibile. Se non sono le bombe, moriamo di fame. Anche con un lavoro, non riesco a sfamare la mia famiglia perché i prezzi aumentano e le riserve diminuiscono. È come se ogni giorno avessimo meno speranze”.

Il JRS chiede a chi abbia potere nella comunità internazionale – ovvero Francia, Iran, Qatar, Russia, Arabia Saudita, Turchia, Regno Unito e Stati Uniti – di mettere da parte gli interessi nazionali per il bene comune, facendo pressione perché tutte le parti coinvolte cessino le violenze contro i civili e gli operatori umanitari aprendo la strada a un dialogo politico serio. L’azione concertata della comunità internazionale genererebbe la volontà politica di trovare una soluzione negoziale al conflitto.

Una crisi di questa grandezza ha posto uno stress senza precedenti sul sistema umanitario. Non è solo questione di finanziamenti; dopo quattro anni di violenze sempre in aumento, gli approcci tradizionali utilizzati per gestire il conflitto si sono rivelati insufficienti. L’attuale capacità umanitaria delle NU e delle ONG internazionali non può soddisfare le necessità della popolazione siriana, né quelle delle comunità vicine. Molto resta ancora da fare per accedere a queste persone, e sono le organizzazioni di base e le reti civili siriane ad avere questa possibilità.

I benefattori internazionali dovrebbero sostenere la risposta umanitaria che si è sviluppata organicamente all’interno della società siriana, poiché è lì che si trovano le soluzioni sostenibili. È di vitale importanza rafforzare i siriani dando loro l’opportunità di trovare soluzioni proprie e soddisfare le necessità che hanno all’interno del paese. Tuttavia, se non si pone freno alle violenze contro i civili, nulla si può fare per fermare l’esodo di queste persone in fuga per la vita, e sarà un’altra opportunità persa di aiutare i siriani che cercano una soluzione pacifica.

Il nostro appello al mondo è questo: “Non fateci celebrare il quinto anniversario della guerra in Siria”.

Nawras Sammour SJ

direttore JRS Siria

fonte: http://www.caritasroma.it/2015/03/siria-che-speranza-abbiamo-lappello-di-padre-sammour/

Fare politica secondo Lorenzo Guerini

Cari Amici di Giovanibarnabiti.it buon giorno!
Leggendo non sole le ultime cronache politiche, ma anche quelle più datate, la politica continua a non lasciare un bel segno di sé e sembra sempre più distaccarsi dal sentire della gente che comunque non ha perso la voglia di vivere e agire; l’ultima indagine di Ilvo Diamanti (La Repubblica, 8 aprile 2015) conduce proprio in questo verso, ciò nonostante della politica non si può fare a meno. Il cristiano poi è chiamato in modo particolare non solo a pregare per i propri governanti, ma anche a occuparsi della res publica. Per affrontare anche questo tema cerchiamo di disturbare qualche persona che di politica si occupa direttamente.
Partiamo da Lorenzo Guerini, vicesegratario del Partito Democratico e portavoce del primo ministro della Repubblica.

Buon giorno Lorenzo, sono qui con alcune domande elaborate da alcuni nostri giovani da diverse parti d’Italia; però, però la prima domanda è mia! Non per approfittare del mio ruolo, semplicemente per introdurci nel tema.
Cosa significa per te la parola politica oggi?
Prima di tutto significa servizio. La politica ha il compito di porsi al servizio della comunità per farla crescere attraverso un progetto ideale e concreto. Significa anche riconoscere le persone e le loro idee, anche quando diverse dalle mie. Solo così si può costruire una politica che avanza, che costruisce.

Guardando però quanto spesso accade nel Parlamento, il rispetto non sembra essere molto presente, piuttosto sembra una chimera.
Hai ragione, stiamo vivendo un momento difficile ma anche ricco di opportunità.

In questo tempo di riforme e di necessità di coordinarsi per cambiare le regole del gioco, è corretto secondo te un confronto, un parallelo con l’Assemblea Costituente?
Le situazioni sono molto diverse. L’Assemblea costituente era chiamata a ricostruire l’unità nazionale dopo la guerra, dopo la dittatura. Fu un confronto tra giganti, della politica, del pensiero, che ebbero la capacità di riconoscere insieme il bene del paese, senza abdicare ai propri principi ma con la capacità di metterli in relazione con quelli altrui. Un esempio che vale anche per l’oggi quando invece l’immediata relazione tra ciò che si produce in Parlamento e l’immagine che si vuole dare all’esterno nel rapporto con l’opinione pubblica, spesso prevale sui contenuti. È più facile voler realizzare solo la propria idea, piuttosto che la fatica del confronto e dell’ascolto per cercare una sintesi.

Diciamo che la cultura dell’immediato è entrata anche in Parlamento?
Si, questa cultura ormai è parte anche della vita politica. Da un lato questo è positivo, perché ci sollecita a essere capaci di dare risposte più veloci; dall’altro però è un approccio rischioso quando si devono affrontare percorsi complessi che richiedono più attenzione. La politica deve ritornare a fare i conti con la complessità. Noi abbiamo recentemente affrontato il percorso sulla riforma costituzionale ed è evidente che nella posizione di alcuni gruppi parlamentari ha pesato molto la valutazione dell’immagine verso i propri elettori, piuttosto che la fatica di costruire insieme l’incontro necessario per cambiare le regole istituzionali del nostro paese. Ma così ci si limita a restare alla superficie e si privilegia l’immagine alla sostanza.

Credo però questo sia un problema di tutti: vivere non l’istante, con la sua parzialità, ma il tempo, con la sua globalità.
Dipende anche da come si raccontano le cose. Se ogni fase deve avere un vincitore e un vinto, un promosso o un bocciato, se il tutto deve essere comunicato nell’immediato e il giorno dopo subito bruciato… si privilegia una pedagogia sbagliata. Con queste modalità risulta chiaro che si afferma una visione distorta della politica che invece richiede tempo e approfondimento: una vera e propria pedagogia della politica.

Hai parlato di pedagogia: esistono ancora delle scuole di politica?
La formazione è ancora oggi fondamentale, ma assai carente da parte di tutte le agenzie sociali e politiche, anche delle realtà prepolitiche. Non credo sia utile e fruttuoso affidare la formazione solo alle nuove tecnologie, pur molto importanti, perché il rischio è di lavorare in modo superficiale.

Questo discorso ci porta alla domanda successiva e a quelle pensate dai nostri ragazzi sparsi per l’Italia.
Io partirei da una tua concittadina, una lodigiana. Francesca chiede se è molto diverso, cioè quale è stato il passaggio dalla politica di una piccola città come Lodi a una grande realtà come l’Italia intera!
E poi chiede se il tuo è stato un percorso che ti sei costruito o, semplicemente, ti è accaduto; cioè c’era nella tua idea di fare politica il pensare di arrivare dove sei arrivato ora?
Il salto è stato sostanziale. Una cosa è fare il sindaco di una cittadina, che misura quotidianamente la tua insufficienza unitamente al bello di una comunità locale, altro è questo lavoro di vicesegretario di un partito grande, molto grande. Qui misuro maggiormente la mia inadeguatezza, quando sono chiamato a confrontarmi con altre dinamiche, specialmente quella della comunicazione, così difficile e insidiosa.
Il mio percorso politico è cominciato intorno ai 20 anni – ho sempre avuto passione per la politica – quando il mio parroco mi ha detto: ora devi fare di più! Ho cominciato dal consiglio comunale ed è cresciuta una esperienza che si è sviluppata grazie al mio impegno, ma anche all’aiuto di molte persone che mi hanno fatto capire le responsabilità del servizio. L’importante è non farsi inebriare e darsi tempo, ponendosi l’obiettivo di passare ad altri il testimone. Il mandato deve avere un limite.
L’uomo tende a pensarsi onnipotente, il politico forse di più…
Questa è un’esperienza lieve che nasce e finisce.

Da Genova Elena, chiede quanta attenzione avete per il mondo della formazione e per il suo rapporto con il mondo del lavoro.
A questo proposito c’è il progetto della buona scuola: si è concluso il percorso di ascolto che ha coinvolto tutti i protagonisti della scuola. Sono arrivate tante proposte e sollecitazioni utili che si sono tradotte in misure per il futuro della scuola. La scuola è centrale per il paese, per la sua crescita e competitività. È molto positivo che ci sia stato questo ascolto di chi la scuola la fa e la vive ogni giorno per pensare a un rinnovamento dell’intero sistema di istruzione.

A proposito di scuola Gregorio, di un liceo di Bologna, chiede cosa ne pensi del fatto che i giovani oggi siano così protesi nel lasciare l’Italia.
I giovani negli ultimi anni hanno ricevuto l’idea dell’Italia come un paese in cui non si possa progettare il proprio futuro. Io, noi, siamo stati educati a pensare la vita come un progetto. Oggi per un giovane è molto difficile fare lo stesso. Io penso che si può avere fiducia nella forza del nostro paese e il Governo ne sta dando prova attraverso le riforme che sta attuando. L’intervento sul lavoro vuole proprio colpire un punto di debolezza del nostro sistema. Il mercato del lavoro è molto frammentato e i giovani sono le prime vittime perché rimangono senza tutele. Siamo intervenuti proprio per creare un nuovo equilibrio tra lavoratori e imprese, per agganciare la ripresa che sta dando i primi seppur piccoli segnali positivi. Il mondo sta cambiando, vogliamo andare oltre i confini nazionali, ma anche creare un’Italia accogliente specialmente per i giovani. Occorre inoltre ripensare il welfare che oggi è basato su un sistema obsoleto in cui i giovani sono assolutamente tagliati fuori da molti punti di vista. Non possono pensare a una pensione sicura, c’è il problema del sostegno al lavoro per chi ha famiglia, del sostegno all’acquisto di una casa. Abbiamo parlato negli anni molto di politica, ma poco di politiche!

Certo sulla famiglia dovremmo ragionare di più, pensiamo solo al tasso di natalità più basso di Europa, anche tra gli immigrati ormai.
Ragionando su futuro e prospettive, da Milano Sarah, stufa di vedere continue strade in costruzione chiede se sono realmente necessarie tutte queste Grandi Opere che hanno distrutto le campagne della Lombardia!
L’Italia aveva e ha ancora un deficit strutturale di viabilità. Ritengo però la scelta di puntare sulle strade ferrate, sulla ferrovia, importante e prioritaria. Nei decenni scorsi è stata consumata una quantità di territorio davvero esagerata per realizzare abitazioni non vendute. A questo poi si lega un campanilismo esasperato incapace di fare sistema per crescere insieme e coordinare i bisogni, piuttosto che moltiplicarli. L’individualismo di cui parlavano prima si rileva anche in queste realtà. Però stiamo assistendo a un’inversione di tendenza, riguardo sia alle norme, sia alle scelte di crescita di cubature edilizie, pensiamo per esempio alla scelta volume zero per puntare invece al recupero efficace dell’esistente.

Scendendo verso il centro, da Roma Beatrice chiede:
Il papa vende i suoi regali per i poveri: quanti politici rinunciano ai propri benefici?
Sicuramente la politica non ha dato una buona immagine di sé negli ultimi decenni. Devo dire che sulle indennità dei parlamentari si sono già fatti interventi, ma si può fare sempre di più. Inoltre c’è bisogno di equilibrio: se pensiamo ai sindaci, verifichiamo una indennità molto bassa rispetto le responsabilità che hanno. Detto questo gli sprechi vanno combattuti e vanno contenute le indennità e controllati i vitalizi. Ricordo solo che intanto abbiamo abolito il finanziamento pubblico ai partiti, per impulso soprattutto del PD.

Da Napoli invece Francesca chiede cosa stiamo facendo per questo grande problema internazionale dell’Isis.
Il tema del terrorismo internazionale è complesso, viene da lontano ed è molto delicato. Scontiamo una certa superficialità dell’Occidente nel leggere i mutamenti profondi che attraversano il mondo. Così come non abbiamo capito il fenomeno dei terroristi di terza o quarta generazione nati e cresciuti in Europa. Oggi è necessaria molta diplomazia, cooperazione internazionale più compatta e coesa rispetto a ieri, un protagonismo dell’Unione europea che finora non si è visto. Immaginare una possibilità militare deve essere solo una extrema ratio quando e se le armi della politica sono state giocate tutte e sono risultate insufficienti. Ma io rimango comunque molto prudente e penso che solo con la politica e il dialogo si possa fronteggiare chi invece agisce con violenza contro gli stessi dettami dell’Islam.

Mattia, infine, chiede cosa significano oggi parole come legalità, onestà e coerenza.
Legalità significa che tutta la vita pubblica deve essere rispettosa delle leggi. Non si deve essere indulgenti. La politica poi deve fare delle scelte, e non di convenienza. Anche se si dovesse perdere qualche voto non si può rinunciare alla coerenza e alla chiarezza. Occorre tenere molto alte le antenne e non girarsi dall’altra parte o cercare accomodamenti, sulle piccole come sulle grandi questioni. Stiamo facendo un bel lavoro con l’Autorità anticorruzione e la presidenza di Raffaele Cantone. Però deve crescere il rispetto della legalità ed è un bene che si accertino tutte le responsabilità. Il senso di legalità serve sì per controllare le grandi opere, ma deve crescere anche nella coscienza delle persone.

Ultima domanda – anche perché vedo sul tuo tavolo tanti fogli e giornali che presumo dovrai leggere. – Non tutti ma buona parte sì. A chi ti ispiri nel tuo lavoro, chi ti riqualifica, quindi cosa consiglieresti a dei giovani che volessero impegnarsi in politica?
Ognuno ha i suoi percorsi. Io sono stato molto stimolato da Emmanuel Mounier e dal suo personalismo comunitario, dall’esempio di De Gasperi, e poi da Aldo Moro, specialmente da una sua frase: “in aderenza alla realtà per dominare con intelligenza gli avvenimenti”.
Oggi invece sto leggendo Hans Jonas, un filosofo ebreo, sul principio della responsabilità.
Non è sempre facile mediare tra ciò che leggi e ciò che devi fare, però avere riferimenti alle spalle, non tanto per imitazione ma per continuare a costruire, è bello, ti aiuta. Dobbiamo tornare a pensare e ad approfondire per dominare con intelligenza gli avvenimenti. Dobbiamo usare l’intelligenza per cambiare la realtà. Una politica che non è in aderenza alla realtà non lavora per l’uomo. Ma una politica che non domina gli avvenimenti rischia di farsi guidare invece che guidare le trasformazioni.

Su questo pensiero: usare l’intelligenza per capire e cambiare la realtà e su quello dell’inizio del nostro incontro: capire l’avversario, confrontarsi con lui per costruire il bene comune saluto e ringrazio Lorenzo Guerrini e auguro buon lavoro.
Grazie a voi e a tutti i vostri ragazzi di Giovanibarnabiti.it.