21 operai copti

Voici l’icône réalisée pour les 21 coptes exécutés il y a dix jours. L’auteur est probablement copte, vivant aux USA.
Elle devrait paraître dans la Croix demain ou les jours suivants.
Remarquez les détails : la plage sur laquelle ils ont été martyrisés avec la mer derrière. Tous les visages ressemblent à Jésus, dont ils ont prononcé le nom jusqu’à leur dernier souffle. Les tuniques oranges rappellent la combinaison orange que les terroristes islamistes mettent à leurs victimes avant de les décapiter. Ils ont par-dessus l’étole rouge du martyre, proche de l’étole des diacres coptes, portée ici également par les anges et par le Christ.
Remarquez la pluie de couronnes que les anges leur remettent.

cari amici, credo che questa icona dica tutto quello che le parole non possono e non sanno dire.
buona preghiera per la pace.

Nessun lavandaio sulla terra

II domenica di Quaresima.
Oggi siamo di fronte al mistero di Dio, più che in altri eventi della sua rivelazione.
Oggi siamo chiamati a maturare la nostra conoscenza di Dio.
Se le tre parole chiave della quaresima sono: preghiera, digiuno, elemosina, oggi siamo invitati a dare più spazio alla preghiera; solo nella preghiera può crescere la nostra conoscenza di Dio, una conoscenza fatta non solo di testa, ma di intimità, di amicizia.
Solo da questa preghiera che conosce può nascere una vera e significativa elemosina, cioè carità, attenzione all’altro.
Infatti, Gesù non dice ai discepoli: restiamo qui, ma scendiamo a valle, andiamo tra gli uomini.
Ma torniamo alla conoscenza di Dio. Un Dio che si rivela in modo drammatico ad Abramo prima e a Giacomo, Giovanni e Pietro poi. Eppure trascorrono 1000 anni tra loro, e 2000 anni tra noi e ancora non siamo capaci di conoscere Dio. Non perché Dio non vuole farsi conoscere, bensì perché l’Amore e il suo amore per l’uomo è troppo grande per farsi conoscere nella sua totalità.
Scriveva Paolo VI a proposito di questo brano di Marco:
“D’un lampo, la Bellezza increata ci sfolgora davanti, figurata da volto umano. Così l’uomo. mi svela la sua faccia quale Dio la pensò e la volle nel giorno in cui, creando l’uomo, pose fine alla sua opera creatrice: la faccia dell’uomo appare soffusa d’un’arcana e ineffabile bellezza. Bellezza talmente splendida e viva da doversi dire non sua, ma in lui riflessa, come luce di sole in limpida acqua. Bellezza di Dio”.
L’amore di Dio è Gesù; l’amore di Dio è Gesù morto e risorto per noi; all’uomo che è fedele a Dio, come hanno imparato a esserlo Abramo prima, Giacomo. Giovanni e Pietro poi, Dio mostra il volto di Gesù, cioè il vero volto dell’uomo. Qui c’è il vero volto dell’uomo, di ognuno di noi e questo volto è il volto di Gesù.
E anche noi come Pietro, Giacomo e Giovanni abbiamo paura, non di guardarlo, ma di capire; e anche noi come Pietro, Giacomo e Giovanni non sappiamo più che dire, che fare; almeno Abramo non dice nulla: semplicemente agisce.
Perché è difficile riconoscere Gesù? Perché Marco pone a metà del suo vangelo proprio questo episodio? Perché noi vogliamo un Dio a nostra misura, che obbedisca ai nostri criteri e abbiamo paura di un Dio che sia Dio, di un Dio che possa morire e risorgere. Il vangelo di oggi ci invita a contemplare un Dio che ci chiede di morire e risorgere; un Dio che non vuole la fine del peccatore, ma la sua risurrezione.
La luminosità di Gesù trasfigurato – nessun lavandaio avrebbe mai lavato così bianco – è la luminosità della stella di natale, è la luminosità della risurrezione, è la luminosità del paradiso.
Allora dobbiamo proprio fermarci a pregare, a guardare l’Eucaristia, a fare silenzio davanti alla parola che ci viene proclamata.

Meccanica quantistica e mistero della Trinità

Luce.
Ne siamo sempre circondati, in ogni momento. Ma che cos’è la luce?
Tralasciando ciò che i filosofi dell’antichità ci dicono su questo fenomeno, una prima spiegazione arriva nel diciassettesimo secolo, formulata da Isaac Newton. Egli suggerisce che la luce è composta da corpuscoli molto piccoli che viaggiano a velocità estremamente elevate. Questa semplice ed elegante teoria riesce a spiegare innumerevoli fenomeni osservati come la riflessione, l’arcobaleno e la divisione della luce a opera del prisma.
Fin qui tutto bene, eppure esistevano dei fenomeni già conosciuti, come la diffrazione e la birifrangenza, che questa teoria non spiegava molto bene.
Nel frattempo dall’altra parte del canale della Manica, alcuni scienziati tra cui Christiaan Huygens, Thomas Young, Augustin-Jean Fresnel, proposero un’alternativa alla teoria di Newton.
Strappatevi un capello e procuratevi una di quelle pennine laser da conferenze. Provate a mettere il capello di fronte al laser e puntatelo contro una parete. Cosa vedete? Sulla parete dovreste vedere delle righe orizzontali separate una dall’altra. Questo fenomeno si chiama diffrazione ed è tipico delle onde che incontrano un ostacolo.
Dunque sul continente venne proposta l’idea che la luce fosse composta da onde e non da particelle. Le due teorie sopravvissero finché non arrivo, nel 1864, la presentazione da parte di Maxwell delle sue famose equazioni che spiegavano il fenomeno luce come il manifestarsi del campo elettromagnetico. Queste equazioni hanno formulazioni tipiche delle onde, perciò sembrò che il mistero fosse risolto: la luce è un’onda.
Spesso la scienza ha più colpi di scena di una qualsiasi fiction di Hollywood, perché nel 1905 Einstein rimette tutto in discussione osservando che l’effetto fotoelettrico è spiegabile solo se si assume che la luce sia di natura corpuscolare.
Questa vicenda termina finalmente con l’avvento della meccanica quantistica. Tra i postulati fondamentali di questa teoria vi è proprio il dualismo onda-particella. Dopo la formulazione del principio d’incertezza da parte di Werner Heisenberg, Niels Bohr enuncia la famosa interpretazione di Copenaghen in cui è riassunto questo principio: la luce è contemporaneamente sia onda che particella; l’interazione dell’uomo con la luce, tramite la misura, pone in risalto uno dei due aspetti naturali della luce.
Ciò ovviamente non è facile da capire, perché siamo abituati a immaginarci il mondo fatto da particelle e per quanto riguarda le onde, il massimo che riusciamo a visualizzare sono le onde del mare. Eppure la fisica ci dice che noi stessi siamo fatti contemporaneamente sia da particelle, sia da onde.
A questo punto mi piace pensare che il concetto della Trinità cristiana abbia dei punti in comune con la dualità onda-particella. È sicuramente difficile comprendere il significato del Padre che si manifesta come Figlio e come Spirito Santo. Uno può scegliere ovviamente di crederci o meno a questa cosa. Però ciò che la scienza ci insegna è che questo mistero della fede in realtà non è cosi dogmatico e misterioso, ma anzi nella vita di tutti i giorni noi possiamo osservare che esiste ed è reale la dualità onda-particella.
Anche se per molti anni scienza e fede si sono combattute, ogni tanto capita che inaspettatamente l’una venga in aiuto dell’altra.
Roberto Nava

Più atroci patimenti

In questa grande quaresima,
tempo opportuno per la sincera e profonda riflessione,
non lasciamo che il Signore ci chieda:
Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico credi?
 

Ma credendo veramente, preghiamoLo dicendo:
Dispero di me stesso, considerando le mie opere,
degne o Signore, di ogni castigo;
ecco, ho trascurato i tuoi augusti precetti,
o Salvatore,
ho consumato nella dissolutezza la mia vita:
ti prego dunque,
purificami con le piogge del pentimento,
fammi risplendere per il digiuno e la preghiera,
Tu che solo sei misericordioso;
e non avere orrore di me,
o benefattore di tutti, o più che buono.
 

E mai, nella durezza del digiuno sentiamoci grandi
per il patimento che esso può arrecarci,
pensiamo piuttosto ai fratelli cristiani
del Medio Oriente e dell’Africa
che sono costretti a ben più atroci patimenti
perché hanno creduto e vogliono credere
pur non avendo visto!
 

Buona cammino di Quaresima
Contro una globalizzazione dell’indifferenza.

I domenica di quaresima

È cominciata la Quaresima:
un tempo di grazia, un’opportunità, un dono di Dio
per crescere in quell’amore che Lui stesso ci ha donato (Dio non chiede ciò che non dona).
40 giorni in cui Dio è particolarmente presente tra noi, nella sua chiesa,
per rinnovare l’alleanza con noi;
40 giorni in cui lo Spirito vuole entrare nelle nostre profondità
per aiutarci a rinnovare l’alleanza con Lui.
Quello Spirito che è sceso sull’uomo Gesù, perché diventasse figlio di Dio,
quello Spirito che ha portato il cielo in Gesù, ora porta Gesù nel deserto;
questo Spirito è quello che vogliamo invocare se per rinnovare la nostra alleanza con Dio,
per combattere le tentazioni dell’eros, del potere, della ricchezza.
Nel deserto comincia la grande battaglia di Gesù contro il demonio che vuole separarlo, dividerlo da Dio e dagli uomini.
Nel deserto comincia una battaglia che si concluderà sulla croce, con la vittoria sulla grande separazione: la morte.
Nessuno è testimone d questa battaglia tutta interiore e personale, attraverso la quale deve imparare la sua obbedienza di Figlio – “imparò l’obbedienza dalle cose che patì” dice la lettera agli Ebrei – e vincere il tentatore che non vuole il regno dei cieli.
Marco osserva come Gesù non cede al trionfalismo, ma nella fatica quotidiana di 40 giorni, coltiva la sua alleanza con il Padre per noi.
Marco sottolinea anche l’armonia che si crea tra Gesù e il creato (pietre, arbusti, rettili, bestie selvagge), come a dire che Gesù è il nuovo Adamo, nel rinnovato paradiso, regno dei cieli. Infatti cosa leggiamo subito dopo: “il tempo è compiuto, il regno di Dio è vicino”; ma anche: “convertitevi e credete al Vangelo”.
Tutto ciò però accade perché prima di tutti Cristo si è svuotato della propria divinità, della propria potenza: Cristo si è abbassato per innalzare ognuno di noi, per far entrare ognuno di noi nel regno di Dio.
E noi cosa impariamo da questa lotta di Gesù?
E noi come costruiamo il regno dei cieli che Gesù ha ricostruito per noi?
Forse una affermazione per tutte e sufficiente: vinciamo la tentazione dell’indifferenza, combattiamo la globalizzazione dell’indifferenza. Usciamo dalle nostre comodità, dal pensare che tutto giri intorno a noi (esami, lavoro, amore, amici…) e preoccupiamoci di, prendiamo a cuore una situazione o l’altra:
evitiamo di vivere da uomini pieni solo di sé;
evitiamo di vivere da cristiani pieni solo di forme o sentimenti.
Ascoltiamo il Vangelo e cambiamo vita, la nostra, e cambierà quella del creato, quella degli altri e l’indifferenza non avrà più diritto di cittadinanza tra noi.
Domande per la riflessione:
cosa ti dice Gesù nel deserto?
Senti la presenza dello Spirito all’inizio di questa Quaresim? lo hai invocato?
Cos’è per te l’indifferenza? Si può combattere?
Hai letto il messaggio del papa per la Quaresima 2015:
combattere la globalizzazione dell’indifferenza?      http://w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/lent/documents/papa-            francesco_20141004_messaggio-quaresima2015.html

Buona quaresima 2015

Un cuore affamato d’amore

Dalle note di Bruce Springsteen e Larry Norman

larry norman

Probabilmente nessuno è in grado di contare quante canzoni nella storia, italiana e internazionale, hanno come oggetto quel sentimento che i greci incarnavano nel dio Eros. Gran parte della musica parla di questo sentimento, nelle sue mille versioni e storie: dalle agonie e sofferenze per un amore non corrisposto, dalle ansie, preoccupazioni e paure per un primo amore o per un amore non ancora rivelato, fino alle dediche sdolcinate e gioiose per quello che sembra l’amore eterno, l’”amore della propria vita”.

Stiamo parlando in un argomento tanto gettonato, che non solo oggi viene ripetutamente cantato e quindi trasmesso in radio, ma che ha addirittura spinto autori di migliaia di anni fa a scrivere a riguardo, e perché no, a cantare già allora sull’amore. Il famosissimo e tanto studiato Omerotratta esplicitamente l’eros, come sentimento di passione irrefrenabile, che lega Paride a Elena di Troia. Siamo nel IX secolo a.C., molto tempo fa. Per non parlare del tormentatissimo Catullo, il quale scrisse per la maggior parte, carmina su Lesbia, nelle diverse fasi che visse il loro amore. Questa volta siamo nel mondo dei romani, nel primo secolo a.C. Dunque se pur più vicino, ancora lontano a noi.

Duemila anni dopo, l’amore è presente in tutti i generi e stili musicali, rock e “christian music”, compresi. Con l’obiettivo di evidenziare anche questa volta, punti di forza e di debolezza dei due rispettivi generi, quello della musica laica, e quello più sconosciuto, per molti, della musica cristiana, analizzeremo due canzoni sull’amore. Sulla prima canzone si cercherà di focalizzare il contenuto e il significato del testo, sulla seconda la validità a livello sonoro e musicale che l’artista cristiano è riuscito a inserire nella sua canzone.

Dopo aver presentato un’opera d’arte dell’eterno Bob Dylan, questa volta parliamo di un altro che ha lasciato il segno. “The Boss”, il grande Bruce Springsteen, ha cantato l’amore a modo suo, nella stessa forma che ha convinto milioni di americani a definirlo come vero cantante rappresentativo dei 51 Stati Uniti d’America. Bruce, che è “nato per correre” come dice nella sua “Born to run” (assieme a Wendy), e che è stato catalogato per decenni come “working class-hero”, ossia eroe della classe operaia e lavoratrice, ha cercato di definire questo sentimento tanto trascendentale per tutti, in modo diverso e originale in tante sue canzoni.

“The river”, album di successo del 1980, contiene “Hungry heart”, pezzo molto acustico e orecchiabile, probabilmente grazie al semplice giro di Do che si ripete costantemente. Apparentemente questa canzone sembra meno impegnata di altre, visto il senso di leggerezza che si percepisce tra una strofa e l’altra, eppure evidenzia concetti piuttosto importanti. La canzone può essere divisa in tre momenti, scanditi dal ritornello in cui si dice che “Tutti hanno un cuore affamato”, “Everybody’s got a hungry heart”. Nonostante ciò, l’amore è una scommessa, qui si dice come una giocata a carte piuttosto rischiosa, tant’è che lui stesso nella prima strofa dice di aver abbandonato moglie e figli alla ricerca di un altro amore. Nella seconda invece vi è un altro amore, il classico amore che sembra perfetto, ma che con il tempo, una volta spento quel fuoco iniziale, è finito inesorabilmente. È da Baltimore, città dello stato di Maryland, a Kingstown, città del Rhode Island, che bisogna spostarsi per trovare l’amore? Neanche “The Boss” lo sa, dal momento che dopo aver viaggiato tra una parte e l’altra degli USA si ritrova solo a pensare, ed è quanto ci dice nella terza strofa, che dopotutto, “nessuno vuole stare da solo, tutti vogliono avere una casa e un posto dove riposare”, ricordando forse la moglie e i figli lasciati a Baltimore. È un trentun’enne colui che parla –il signore Springsteen è del 49-, un uomo che nel bel mezzo della propria vita si è accorto che tutti sono affamati d’amore, ma nonostante ciò stare da soli fa male. È un pezzo dunque molto malinconico, che probabilmente vuole insegnare che chi sbaglia paga, un po’ come se la vita ti restituisse in cambio ciò che fai. Il tutto però dal punto di vista di Bruce Springsteen, colui che riesce a trattare argomenti difficili, di forma sincera e spesso sfacciata, ma con un senso di gioia e leggerezza che lo contraddistinguono. Un classico, sempre presente nelle sue raccolte e nei suoi concerti.

Anche la seconda canzone che analizziamo, ha come tema centrale l’amore. Questa volta, non trattandosi più di una canzone laica, è evidente il soggetto al quale è dedicato questo sentimento così profondo: Dio. Anche in questo caso, ci concentreremo sull’aspetto puramente musicale, più che sul contenuto e sul messaggio trasmesso. E pure questa volta presentiamo una christian song, che è piacevole e bella da ascoltare, a dimostrazione del fatto che questo “mondo” musicale è in grado non solo di spaziare da un genere all’altro, ma anche di offrire melodie valide sotto tutti gli aspetti.

Larry Norman, un perfetto sconosciuto per tanti, è stato probabilmente l’iniziatore del rock cristiano. È giusto dunque ricordare una canzone di questo grande artista, il quale ci ha lasciato nel 2008, a sessantun’anni, tanto importante per questa musica. Colui che ricordiamo come il primo ad aver allontanato il mito secondo cui il rock fosse anti-cristiano, cantò a partire dagli anni ’70, impegnandosi a tal punto da incidere più di un centinaio di album. Stiamo parlando di un artista ricordato particolarmente per la sua facilità di scrittura, capacità che lo lega ulteriormente al Boss del New Jersey, l’intramontabile Bruce Springsteen. Nonostante avesse dedicato l’intera carriera alla christian music, Larry Norman non fu un pastore. Anzi spesso non ebbe rapporti del tutto idilliaci nei confronti della Chiesa, visto il suo stile di vita talvolta contrario ai principi insegnati dal Vangelo e da Gesù. Basti ricordare che si sposò ben due volte. La sua musica comunque è ancora impressa nella storia.

“Home at last” è uno degli album degli anni ’80 maggiormente ricordato: del 1989, pubblicato originalmente come LP, contiene tra gli altri, “He really loves you”. Questo brano incita tutti coloro che si sentono lontani dalla fede cristiana, a credere in Dio, di allontanarsi dalle tenebre e dalle oscurità così da poter ricevere tutto l’amore che Egli ha in serbo per ciascuno.

“Egli davvero ti ama” è molto interessante, e per questo è stato scelto come brano da analizzare, vista la sua musicalità particolare che lo avvicinano a un genere, il “country”, ascoltato perlopiù negli USA, e poco nel nostro continente, nato nei paesi del sud, negli anni delle piantagioni e degli schiavi di colore. In linea con “One step forward, two steps back”, mito della musica Country, scritta dalla “Desert Rose Band”, vi invitiamo ad ascoltarla a bordo di una Mustang o di un’altra lunga macchina americana, completamente scappottata, mentre percorrete le strade deserte e che sembrano perdersi nell’orizzonte, dell’Arizona, magari nel bel mezzo del Grand Canyon, o del Texas. E ovviamente questa deve essere la traccia successiva a “Hungry heart” di Bruce Springsteen. Solamente così, infatti, respirando la leggera brezza dell’estate, ci si può considerare un vero americano e si può capire il vero significato dell’amore, sia da un punto di vista laico e che da un punto di vista cristiano.

Buon ascolto!

Roby Eldima

La maturità di Romeo

Intervista a Matteo Vignati, attore e performer

 

A porte chiuse - Garcin 1 Romeo ufficiale 2 Un posto luminoso chiamato giorno - Baz 1 Romeo sul balcone

Cari amici di Giovanibarnabiti.it buon giorno.
È il vostro pJgiannic che vi parla dalla sua postazione mobile.
Oggi arricchiamo il nostro blog di un’eccellente intervista a un giovane attore che ho avuto il piacere di vedere al Globe Theatre di Villa Borghese a Roma.
Guardando Romeo e Giulietta con la regia di Gigi Proietti, in uno scenario particolare come il Globe Theatre, e assistendo alla bravura del cast mi sono posto una domanda da rompiscatole come tutti mi conoscete:
e se io cercassi di intervistare l’attore principale, Romeo?
E se io creassi un percorso di riflessione sulla figura di Romeo – poi vi spiego meglio?
Come fare?
Fortunatamente internet non è solo uno strumento diabolico, è anche uno strumento utile per fare cose belle!

Quindi caccia all’attore su FB ed ecco il profilo, ecco un messaggio di complimenti, non per piaggeria, ma perché se li merita, per la recitazione e un invito all’intervista, ma… avrebbe risposto?
Ebbene, dopo un mese, con attenzione e gentilezza la risposta di Matteo Vignati eccellente Romeo – insieme a una brava Giulietta, Mimosa Camperisi e gli altri giovani della compagnia. Sì, una compagnia di giovani, di giovani professionisti.
Eccoci in linea con Matteo Vignati.

ciao Matteo,
grazie per la disponibilità.
prima di tutto anni e origine!
27 anni, nativo di Pavia, ma abito in provincia di Milano. Ho visto che Giovanibarnabiti ha anche una postazione a Lodi! Il paese dove sono cresciuto è vicino a Lodi, san Colombano al Lambro.
Sei un banino!
Si sono un banino.

Dov’è nata la passione per il teatro?
La mia passione nasce tardi. Io ho iniziato a ballare da piccolo, non so perché durante gli anni ho avuto come degli incontri con contesti e atmosfere di concentrazioni e sollecitazione inconsce che poi mi hanno portato al teatro. Poi ho fatto l’accademia di musical a Milano, dove avevo fatto anche recitazione vera e propria. Di base mi interessava la linea di interpretazione, andare alla base al nucleo dell’arte, del trasmettere emozioni.

Infatti ho notato, che sia come recitazione, come danza, veramente molto bravo. Ho avuto modo di lavorare con Il Ramo di Lodi, e qualche cosa capisco.
Si grazie. Si conosco Il Ramo.
Poi ho frequentato la Statale a Milano, storia del teatro della regia, quindi dovevo fare l’attore. Recitazione, teatro e quindi l’attore.

Bello, recitazione, teatro. Noi diciamo attore, ma prima c’è la recitazione. È importante essere precisi nei termini.
Come l’hai coltivata? con quale e quanta fatica, ma anche con quale e quanta soddisfazione?
Come ogni passione è una cosa bellissima e un estremo sacrificio. La si coltiva tutti i giorni nelle cose più piccole a quelle più grosse. Cerchi di sfruttare tutto ciò che ti piace/accade nella vita e la porti nella vita, cerchi di sfruttare artisticamente. È un grosso sacrificio perché l’arte dell’attore è un’arte bastarda, è un’arte complessa, un insieme di discipline maggiore rispetto ad altre. La danza, il canto sono basate sul corpo, sulla voce; l’arte teatrale è completa perché le racchiude tutte.

Le prime soddisfazioni quando sono arrivate?
Molto presto, danzavo da piccolo di lavorare con ballerini professionisti o lavorare in tv in adolescenza. Ecco le prime soddisfazioni professionali.
Le soddisfazioni propriamente teatrali, di quello che propriamente desideravo, stanno arrivando ora: Romeo e Giulietta e altro.

Quali personaggi prediligi tra quelli interpretati?
Mi piacciano con un forte conflitto dentro di sé.
Lo stesso Romeo è stato bellissimo. Recitare un ruolo così grande. A me piace molto la drammaturgia contemporanea. Dove i conflitti interiori, i drammi vengono rappresentanti nel loro fulgore.
Ultimamente sto portando avanti uno spettacolo di Tony Kushner, ambientato nella Germania del 33 – oggi è la giornata della memoria. In questo testo, un posto luminoso chiamato giorno, recito un personaggio interessante, un personaggio omosessuale molto cinico, perché estremamente legato all’amore e al sentimento. Un ruolo molto complesso.

Molto interessante in una epoca in cui le diversità non erano accettate, quindi il ruolo è più difficile interpretare.
Ho appena concluso una tournée, lavoro da Roma in su e sulle piazze principali.

Tu sei giovane? che significa giovane secondo te?
Mi sento giovane.
Ok non sei proprio giovanissimo, non sei un adolescente, inizia ad andare verso l’età matura. Che significa giovane?
Giovane non è uno standard di età, è più una sensazione personale, certi giorni sono giovane, certi giorni vecchio. Giovane è quando si ha ancora un entusiasmo per la vita e si continua a combattere per quello in cui crede.
Bene, ma … quando ti senti vecchio e quando giovane?
Ci sono dei giorni in cui sono spossato fisicamente o sono prostrato psicologicamente, in quel momento posso dire di sentirmi vecchio, vedo grigio.

D’altra parte c’è anche del grigio nella vita.
Soprattutto se si vive in provincia di Milano.

Si la nebbia, ma le tue colline hanno anche tanti colori belli che ho percorso in bicicletta.

Io ti ho visto in Romeo e Giulietta, con la regia di Proietti; avevo un’idea edulcorata, quasi ossequiente del dramma shakespeariano, anche quando lo lessi la prima volta durante il militare, ma grazie a te e alla compagnia ho scoperto l’attualità di questo classico.
Quanto i giovani del dramma sono simili o diversi dai giovani di oggi?
Io credo che la differenza sostanziale tra ieri e l’epoca del dramma è la convivenza. Allora si diventava grandi subito, prima di adesso. A 14 anni si era già adulti, si andava a combattere, si figliava. Ma l’animo, l’essenza della gioventù non muta, non cambia, come non cambia l’animo dell’uomo.
Romeo seppure ha 18 anni, è un adulto, ha comunque quell’ossessione nei confronti del l’amore che hanno ancora gli adolescenti oggi, così Giulietta.

Infatti l’adolescenza è una categoria sociale di questi ultimi 100 anni prima non esisteva, si capisce anche perciò una certa autonomia di Romeo e Giulietta; certo alcune ossessioni o alcune passione nell’innamorarsi permangono ancora oggi, tra tanti adolescenti che ho visto crescere.
Secondo te Romeo e Giulietta sono degli eroi, dei modelli?
Questa è una bella domanda.
Sto pensando. Sono eroi in senso tragico, perché combattono strenuamente contro una struttura sociale che vuole soffocarli. Per essere coerenti all’amore che sentono addirittura affrontano la morte. È un concetto di eroe anche sofocleo. Che siano dei modelli da seguire, questo è una domanda complessa! Shakespeare non a caso alimentava questi conflitti etici nelle sue opere. È giusto arrivare a uccidere, per amore? Si può arrivare al suicidio per amore? È giusto disobbedire all’amore dei genitori, per amore? Che domande ci facciamo quando vediamo Romeo e Giulietta?

Una persona deve a un certo punto saper tagliare il cordone ombelicale, che non sempre significa rinnegare la propria famiglia.
Il problema è che qui forse non esiste un rapporto con gli adulti. Romeo e Giulietta non parlano mai con i loro genitori; il morire forse è dovuto proprio a una mancanza di dialogo, di confronto, anche diverso, ma di confronto.
Io penso in generale sia sbagliato parlare di uno standard ma solo personali opzioni; io posso sentirmi adulto perché ho una indipendenza economica, ho dei figli, ma ognuno ha le sue scale di valori. Ciò che mi arriva dalla mia esperienza teatrale è che tutti gli adulti sono bambini. quando lavoro con degli adulti li guardo negli occhi e mi accorgo che tutti gli adulti sono bambini, e quando lavoro con i bambini li tratto alla pari. È giusto così, quando si lavora in gruppo è così!
Chi può essere considerato più maturo? Forse frate Lorenzo? Un frate atipico, irruento, anche complice.

Io direi che sono più adulti Romeo e Giulietta perché hanno cercato, almeno Giulietta, di parlare con qualcuno, gli adulti no!
Secondo me lei dovrebbe capire…
Mi fai sentire anziano perché mi dai del Lei.
No è rispetto.

Capisco, quasi tutti mi danno del tu. Normalmente non riesco a incutere il dovuto timore; anche qualche tuo coetaneo che è stato mio alunno al San Francesco potrà testimoniare!!!
Ma torniamo alla maturità. Giulietta era più matura, ha cercato di parlare con la governante.
Romeo era più adulto, forse perché uomo, perché aveva degli amici, perché aveva già ucciso!
Giulietta è una sorta di Antigone, l’unica all’interno dell’opera che fa una scelta veramente matura e coerente con se stessa e con i suoi desideri, pronta a rischiare fino in fondo. Rischia la morte, quando prende la fiala da frate Lorenzo.
Ricorda molto Antigone. Questa secondo me è una persona adulta, quando segue se stessa fino in fondo.
Quello che dici tu è anche una conseguenza di essere in pace con se stessi, confrontarsi, lasciare spazio agli altri.

Degli adulti abbiamo parlato, non esiste un rapporto tra adulti e giovani: è cambiato qualche cosa oggi?
È cambiato tutto, c’è una forma mentis più comprensiva, si parla di adolescenza che prima non esisteva…
Anche se questo a volte sfocia nell’eccesso opposto, avere genitori più amici, senza un ruolo materno, paterno definito.

I tuoi genitori sono più amici o genitori?
A momenti, sono due genitori molto giovani, siamo cresciuti insieme. Mia madre mi ha fatto a 21 anni, mio papà 26, la mia età quando sono nato; è stato un bel percorso insieme.

Penso che sappiamo essere genitori, quando si è capaci di dire no o si. Da come parli e ragioni sicuramente lo hanno fatto.
Il problema è che oggi i genitori hanno paura di dare linee ai propri figli. E comincia il dramma.

Ancora tre domande. Una più interiore, perché nel dramma si parla di fra Lorenzo, quindi la fede centra e non centra, non centra più di tanto, forse centra di più in Otello, con Desdemona.
La fede: quanto c’entra la fede nella vicenda o è solo una tradizione, un contesto dell’epoca?
Nell’opera abbiamo due tipi di religiosità, non ci sono figure istituzionali, di potere, ma le famiglie parlano di matrimonio di convenienza, di affari della religione; dall’altra parte frate Lorenzo, dedito io giovani, irruente… un po’ alcolizzato (questa è la regia simpatica di Proietti).
Frate Lorenzo è Il frate che dona la fiala, che organizza questo inganno… che finirà male.

Non voglio parlare ora del suicidio ma andrebbe sviluppato. Romeo e Giulietta si suicidano forse questo non si sottolinea abbastanza.
Finisce male per loro, ma le due famiglie si rappacificano, una sorta di sacrificio, anche se non è giusto che debbano pagare due giovani.
La bellezza del teatro di Shakespeare è proprio quello di estremizzare alcuni aspetti della condizione umana per portare lo stimolo a riflettere sulle tematiche, il loro amore è luminoso, bellissimo ma forse come il sole se è troppo acceca.

A proposito di religiosità e di fede, tu hai fede?
Dipende che tipo di fede si intenda.
Io ho una fede nell’essere umano e in qualche cosa di supremo, di altissimo, che chiamo Dio, che prego, perché la mia esperienza mi ha portato a ciò. Esiste qualche cosa di cui non abbiamo controllo e che non vediamo. Un principio spirituale che regola il mondo e che non possiamo capire, ma la mia fede sta in questo.

Quale speranza vedi per il domani. Prima però quali progetti, quali sogni.
Mi piacerebbe da una parte riuscire a essere tranquillo, con il mio lavoro dal punto di vista economico, dall’altra parte voglio portare all’estremo il mio percorso di ricerca artistica, per esempio viaggiare in Europa per del teatro sperimentale che abbia una panoramica più ampia; l’Italia è un po’ lenta rispetto agli altri.

Sperimentale si intende come al Vascello di Roma o all’Elfo di Milano con i “Tre allegri ragazzi morti”?
Anche su quella linea, danza, teatro, canto, ma non un musical commerciale. Dove ci sia un rapporto diretto con il pubblico. Mi piace molto guardare negli occhi le persone, in mezzo alle persone, stare a tu per tu.

Ti dirò come sarà il musical Romeo e Giulietta ama e cambia il mondo.
Potrebbe esser un prodotto di qualità.

Sei giovane fai teatro, fai cultura, porti avanti un patrimonio italiano e europeo, questo è fare cultura, di fronte al solo apparire.

Perché tanta fatica per andare a teatro, per leggere?
Perché sono attività che richiedono tempo e ascolto e con ritmi di oggi è difficile ascoltare e ascoltare le persone e ascoltare un testo.

Bella riflessione, grazie. I nostri nonni non sapevano leggere, ma ascoltavano la natura, le cose…
Andiamo in una direzione che nega i rapporti umani più sinceri e naturali. La tecnologia è una potenzialità che però non riesce a riporta al parlarsi negli occhi… è molto facile litigare via fb perché siamo coperti da una maschera.

Ti ringrazio per la pazienza, Matteo, spero veramente di poter utilizzare quanto hai detto per fare crescere quanti ti leggeranno pochi o tanti che siano, anche pochi ma che vogliono crescere.
Grazie anche da parte mia, avrò piacere di invitarla al prossimo progetto, ma anche il piacere di avere trattato delle tematiche che potrebbero interessare e stimolare altri giovani con le parole emerse in questa intervista, grazie della chiacchierata.

Il segno della testimonianza

Intervista a Paolo Martinelli vescovo della chiesa di Milano per la vita consacrata 

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Paolo Martinelli è da poco vescovo ausiliare della diocesi di Milano incaricato per la vita religiosa. Non solo in qualità di mio compagno di scuola superiore o del suo essere frate cappuccino, bensì del suo ruolo che svolge in una delle diocesi più importanti del mondo e poiché siamo nell’anno dedicato alla vita religiosa, gli ho posto alcune domande perché ci aiuti a ragionare sul valore della vita consacrata (o religiosa) come segno nella nostra società fatta di segni e … simulacri.

Buon giorno fra Paolo, è un piacere rincontrarci in questa tua nuova veste, in questa diocesi che ci ha visto crescere; chi avrebbe pensato che dalla nostra scuola (1975/1980) potessero fiorire ben tre vocazioni tra cui un vescovo! Siamo nell’anno che papa Francesco ha dedicato alla vita religiosa (per intenderci con i nostri lettori: Gesuiti, Domenicani, Cappuccini, Barnabiti…), un anno che ci sollecita a ragionare con ulteriore attenzione a questo ramo della vita cristiana. La vita religiosa è dai più definita come segno, segno definitivo di Cristo nella Chiesa e nel Mondo, quindi io vorrei partire proprio dai segni e da alcuni segni che oggi vanno molto di moda, tatuaggi.

Cosa pensi dei tatuaggi, di questo bisogno di qualche cosa di così definitivo, in una società in cui conta di più il momento, l’usa e getta?

A dire la verità questi segni incisi sulla pelle e nel corpo mi sembrano come un grido, come una domanda in cerca di interlocutore, poiché il corpo è il luogo in cui ciascuno incontra e si fa incontrare dall’altro. In un’epoca di relazioni “liquide” il segno corporeo sembra voler incidere in modo indelebile nella carne un grido, una esigenza di relazione e di riconoscimento.

I tatuaggi sono dei segni, forse dei simboli: perché i giovani di oggi hanno così bisogno di segni?

Ogni persona ha bisogno di segni perché non può vivere senza comunicare se stesso agli altri. Devo dire che l’abbondanza di un corpo supertatuato, come ad esempio quello di coloro che lo ricoprono quasi totalmente di tatuaggi, mi sembra che contenga un carattere di “eccesso”. Ad ogni modo l’uomo è sempre un io-in-relazione, anche nell’eccesso. Inoltre il segno come simbolo esprime il bisogno di interpretare la realtà che ci si trova a vivere quotidianamente. L’uomo è quell’essere al quale non basta vivere ma deve interpretare la vita e ciò avviene attraverso la funzione simbolica.

Il mondo del lavoro, ma anche molti di noi, spesso non approva e tantomeno accetta persone tatuate: è giusto che l’abito continui a fare il monaco?

Credo che i “supertatuati” possono dare a volte una impressione di eccesso, come sintomo di un equilibrio non ancora trovato. Da qui una certa diffidenza che il mondo del lavoro può provare nei loro confronti. Questa impressione può essere naturalmente sbagliata e determinata da pregiudizi. Ma in questo senso il proverbio “l’abito fa il monaco” non è del tutto sbagliato; la forma che si assume nella vita comune non può essere indifferente.

Quali segni credi la società di oggi offre alle generazioni giovani?

La necessità di simbolizzare è assolutamente inestirpabile nei giovani e nelle persone. Purtroppo la nostra cultura sta perdendo la capacità simbolica in forza della diffusione pervasiva delle tecnoscienze. Sono conquiste importanti, ma non devono essere vissute a discapito del bisogno dell’uomo di vivere il rapporto con le cose con la necessità che ci sia un senso in quello che si vive. Da questo punto di vista la società non offre molti segni, forse offre molti segnali che spingono al consumo più che alla riflessione. I giovani vanno aiutati a non vivere di riflessi meccanici e condizionati ma a essere uomini liberi e consapevoli del senso della vita, di dare uno scopo ai propri giorni e di prendere decisioni che diano senso ai propri giorni.

Restando nell’ambito giovanile: qual è il segno che preferisci nella gioventù di oggi? E quello più preoccupante, che ti piace meno?

Nei giovani di oggi vedo segni di autenticità e sincera capacità di amare, di essere generosi. Quello che mi preoccupa di più è di trovare in essi spesso anche segni di tristezza e poca fiducia nel futuro; causati spesso dalla mancanza di adulti che testimonino a loro la possibilità di vivere all’altezza dei propri desideri più veri. C’è bisogno di adulti che tornino a comunicare questa possibilità, che siano testimoni di speranza.

 La vita religiosa nel pensiero cristiano è sempre stata intesa come segno, segno della vita di Cristo tra gli uomini. Saresti capace di chiarire meglio questo concetto ai nostri lettori?

Oggi la maggior parte dei giovani non conosce più la vita religiosa. Le indagini statistiche sulle realtà giovanili ci dicono che la loro comprensione della vita religiosa è assolutamente bassa. Credo che i religiosi e le religiose dovrebbero aver più coraggio di farsi incontrare dentro la vita quotidiana dei giovani. Essere segno vuol dire essere capaci di intercettare la vita dei giovani e fare sorgere le domande fondamentali sul senso da dare alla vita. La vita religiosa come segno di Cristo vuol dire una forma di vita incontrando la quale si è portati a porsi delle domande sul senso e sul fatto che Cristo propone un significato totalizzante capace di abbracciare ogni situazione, di gioia e di dolore.

Un segno svolge la propria funzione quando riesce attirare a sé, a farsi seguire da coloro a cui si rivolge (pensiamo alla pubblicità o alla moda). Secondo te i giovani di oggi sono capaci di comprendere l’essere segno della vita religiosa? O  meglio: noi religiosi siamo capaci di farci intendere, comprendere dai giovani di oggi?

Su questo occorre riflettere bene: la pubblicità propone segni fortemente “seduttivi” che tendono a produrre una reazione compulsiva di consumo e a rendere il desiderio della persona sempre più superficiale. In tal modo la libertà della persona è ridotta alla semplice reazione di soddisfare nel più veloce tempo possibile un bisogno, per lo più indotto dall’esterno. La vita religiosa non deve in nessun modo essere un segno di questo tipo; piuttosto deve indurre a riflettere, a pensare al proprio vero desiderio e capire la propria responsabilità nella vita e a scoprire dove sia la vera gioia. Occorre che la vita religiosa dia a pensare al giovane sul senso da dare ai propri giorni.

Perché molte esperienze di vita più radicali, penso alla Clausura ma anche a nuove forme di vita comune secondo il Vangelo, sembrano attirare, suscitare più vocazioni che altre forme più classiche e storiche della Chiesa?

È un discorso molto complesso. Il mondo è cambiato in modo vertiginoso in questi ultimi sessant’anni ed è normale che le antiche forme di vita consacrata abbiano bisogno di ripensarsi e di riflettere su come vivere la propria vocazione nel presente. Le realtà di vita contemplativa, come la clausura, e le grandi tradizioni di vita spirituale sono più solide perché riescono ad essere se stesse integrando nuove sensibilità. Sono in crisi soprattutto le realtà sorte 100/200 anni fa, molto legate a opere particolari. I cambiamenti sociali fanno sentire molto il loro peso su queste realtà legate a situazioni contingenti.

Quanto vale come segno essere religioso in maniera “normale”?

Direi che la cosa migliore sia essere religiosi “normali”; è bene essere creativi sviluppando il dna presente nella propria storia spirituale, lasciandosi fecondare dal presente; mentre non mi sembra che abbiano dato grande esito i tentativi di cercare di essere religiosi “strani” o “diversi” dal passato, forzando degli adattamenti che rischiano di snaturare la propria esperienza.

La vita religiosa è chiamata anche a essere profetica, cioè a portare speranza e progettualità per il futuro: quali segni di speranza e di futuro offriamo ai giovani?

Innanzitutto bisogna capire che cosa vuol dire essere profeti. Il profeta è l’amico di Dio e l’amico degli uomini; è tanto amico di Dio da poter ascoltare intimamente la sua parola e dirla al mondo; ed è tanto amico degli uomini da avere il coraggio di denunciare la falsità dei cuori e di rilanciare la speranza per un cambiamento possibile. Inoltre, per me l’urgenza più grande oggi è quella di fare vedere che seguire Gesù Cristo rende le persone più umane. La Chiesa italiana parla giustamente di nuovo umanesimo in Cristo. Occorre lavorare per questo nuovo umanesimo. Occorre riportare l’uomo al centro con le sue relazioni costitutive. Seguire Gesù fa vivere intensamente gli affetti, il proprio essere uomo e donna, il lavoro, il riposo, la gioia, il dolore, la vita e la morte. Essere profeti del regno oggi vuol dire essere profeti dell’umano: mostrare in questo tempo, dove si sogna un transumanesimo o postumanesimo, la bellezza di essere se stessi come creature amate e come figli di Dio.

Un’ultima domanda, fra Paolo: da pochi mesi sei stato ordinato vescovo nella e per la chiesa di Milano: cosa significa tutto ciò? Quale missione pensi ti sia chiesta dal Vangelo, dalla Chiesa in questo nuovo millennio?

Mi è stato dato l’incarico di vicario episcopale per la vita consacrata e sono molto contento di questo. Mi sembra che la cosa più importante sia proporre – come dice papa Francesco – la cultura dell’incontro contro la cultura dello scarto, proporre il cristianesimo come incontro; incontrare Cristo e andare agli altri portando l’incontro con Cristo. I consacrati e le consacrate sono proprio persone dell’incontro. Occorre lavorare per costruire forme di testimonianza evangelica semplici e incisive in cui mostrare la bellezza e la gioia del Vangelo. Il cristianesimo non si diffonde per propaganda ma per l’attrazione della testimonianza di uomini veri e autentici. I consacrati e le consacrate devono essere in prima linea su questo.

Quindi, fra Paolo, posso concludere richiamando quanto diceva Paolo VI: per l’uomo di oggi abbiamo bisogno non di maestri, ma di testimoni. Il segno di cui l’umanità non può assolutamente fare a meno e per il quale la vita religiosa è impegnata in prima linea è proprio quello della testimonianza, non dell’effimero, ma dell’incontro con Gesù!

Grazie di cuore per il tempo dedicato ai nostri GiovaniBarnabiti e buon lavoro da pastore.

Per la pace, sempre per la pace

Continuiamo a pregare per la pace in Siria, in Iraq e in Medio Oriente vista la sempre tragica e persistente situazione di violenza che continua a mietere vittime innocenti; continuiamo a pregare così finché tutti gli uomini di buona volontà che amano professarsi cristiani o giusti, non avranno il coraggio di indignarsi e di dissociarsi assieme a noi, innanzi a tale vituperata visione del mondo e a tanta, troppa indifferenza e abitudine. Quest’oggi offriamo una parafrasi del messaggio per la pace 2015 di papa Francesco.

Pregando per la pace, all’inizio di questa grande Quaresima, riflettiamo su ciò e chi costruisce la pace: ciascuno di noi e il rapporto che realizza con l’altro; perché è questo quanto è posto alla base del vivere comune.

Infatti, al“desiderio di una vita piena appartiene un anelito insopprimibile alla fraternità, che sospinge verso la comunione con gli altri, nei quali troviamo non nemici o concorrenti, ma fratelli da accogliere ed abbracciare.

Essendo l’uomo un essere relazionale, destinato a realizzarsi nel contesto di rapporti interpersonali ispirati a giustizia e carità, è fondamentale per il suo sviluppo che siano riconosciute e rispettate la sua dignità, libertà e autonomia”.

Purtroppo, la sempre più diffusa piaga del disconoscimento dell’altro come mio pari “ferisce gravemente la vita di comunione e la vocazione a tessere relazioni interpersonali improntate a rispetto e carità. Tale abominevole fenomeno, che conduce a calpestare i diritti fondamentali dell’altro e ad annientarne la libertà e dignità, assume molteplici forme”. Fino alla più aberrante, l’arrogarsi il diritto di poterlo uccidere in nome di un proprio credo e della cieca violenza.

Per questo motivo lancio un pressante appello a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, … di non voltare lo sguardo di fronte alle sofferenze dei loro fratelli e sorelle privati della libertà e della dignità…” dall’arroganza della violenza, perché “sappiamo che Dio chiederà a ciascuno di noi che cosa hai fatto di tuo fratello?

La globalizzazione dell’indifferenza che oggi pesa sulle vite di tante sorelle e di tanti fratelli, chiede a tutti noi di farci artefici di una globalizzazione della solidarietà e della fraternità”, della verità e della giustizia, affinché la violenza di quanti credono di aver il diritto e il potere di togliere la vita all’altro, non renda più nessuno schiavo del suo capriccio immondo.