I Barnabiti e i giovani dopo la Covid

Ai confratelli Barnabiti,
Il 125° anniversario della canonizzazione di S. Antonio Maria Zaccaria, grazie agli insegnamenti di alcuni nostri padri illustri ci ha introdotti nel cuore vivo del nostro Fondatore per capire come diventare testimoni del Cristo qui e ora, non nel secolo XVI!
Unitamente alla preparazione culturale e spirituale abbiamo cercato di raggiungervi per riflettere sui giovani, perché i giovani sono il nostro futuro. Purtroppo molto pochi di voi hanno dato delle risposte: troppo impegnati o troppo disinteressati a pensare il proprio servizio pastorale ai giovani? Forse paura di pensare, pregare e proporre insieme?
Il servizio ai giovani dovrebbe essere ancora il modo di caratterizzare il nostro essere pastori barnabiti eppure c’è un deficit di riflessione condivisa che deve farci pensare.
Mai come nel passato la pandemia di Covid ha toccato tutte, tutte le nostre realtà: mai come nel presente dobbiamo cercare insieme delle risposte, delle strade nuove, perché non si può semplicemente partire da dove ci siamo fermati.
Certo non si può in soli pochi due anni trovare risposte e strade nuove, però si possono cercare, sondare, proporre. Anche perché come avete rilevato nelle risposte, i danni della Covid ci sono stati: paura, restare con se stessi, poca fiducia negli adulti, maggiore uso degli smartphone, fatica di relazione. Il recupero quasi totale delle attività quotidiane ha lasciato molti … a casa e gli altri – specialmente adolescenti – con dell’amaro in bocca. In Europa poi la situazione della guerra in Ucraina sta continuando questo dramma.
Di fronte alla denuncia dell’Arcivescovo di Milano, Mario Del Pini: «I giovani non avvertono più la Chiesa come una interlocutrice per le loro domande, la Chiesa vive ciò come una sconfitta: abbiamo perso una scommessa.»; ma anche alla speranza dell’Arcivescovo di Hong Kong, Stephen Chow: «C’è bisogno di visione. E c’è bisogno di capire il presente e il contesto. Non guardare i muri, guardare il futuro.»: non possiamo agire da soli.
Muovendo da questi presupposti: sconfitta e visione vogliamo cercare di lasciarci muovere dal vigore zaccariano degli inizi che, nonostante la vita breve del Fondatore, non è stato invano: muovendoci con piede continuato nel cammino che la vocazione di ognuno di noi è chiamato a vivere. I confratelli che hanno risposto sottolineano il bisogno dei giovani di essere ascoltati, di essere presi con attenzione e serietà; mi viene da chiedervi: come ascoltiamo i giovani? Dalle Filippine al Brasile tutti chiedono di incrementare un rinnovato stile missionario.
Questo nuovo stile missionario è riconosciuto come proprio del nostro carisma, ma va pensato e ripensato e pregato insieme, con uno spirito e metodo sinodale che si fa testimonianza di vita specialmente perché le nostre forze sono diminuite.
Forse dovremmo ragionare di più sulle due parole: sconfitta e visione e in questo farci aiutare dalle sconfitte e dalle visioni del nostro Antonio Maria e dei suoi primi collaboratori e collaboratrici. È questa anche la linea che ha indicato il recente Sinodo dei Giovani che non è archiviato.
Grazie ai padri Giovanni Giovenzana di Eupilio, Giorgio Viganò di Cremona, Giuseppe di Nardo di Bari, Michael Sandalo di Silangan, Junior Cavalcante di Belem, Ferdinand Mushagalusa di Moucron e Carlo Giove di Napoli, Pascal Balumebaciza Pilipili di Buenos Aires.

p. Fabien M. Muvuny, p. Giannicola M. Simone, Ufficio di Pastorale Giovanile dei PP. Barnabiti. 27 maggio 2022

4 chiacchiere con Francesco Costa sull’informazione per il 9 compleanno del nostro blog

Chiacchierata con Francesco Costa, vice direttore de ilPost.it per il 9 compleanno del nostro Blog

Celebrare un compleanno non significa soltanto contare gli anni; vuol dire anche dare senso e significato a quegli anni. Quelli passati e quelli che verranno. A ogni compleanno della nostra esistenza si fanno bilanci e propositi, si tirano somme e si progetta il futuro. E come per ogni compleanno che si rispetti, festeggiamo il nono anno di vita del nostro blog www.GiovaniBarnabiti.it, e della sua costola cartacea IlGiovaniBarnabiti, regalandoci una preziosa intervista a Francesco Costa, vicedirettore del Post.it, programmando impegni e coltivando sogni e speranze di dare voce al futuro.

Qualcuno potrebbe contestarci che sia un regalo troppo “laico” per la nostra testata, ma la tradizione barnabitica è sempre stata attenta all’incontro con il mondo intorno a sé per annunciare, per far conoscere, per imparare.

D’altra parte nella bella chiacchierata con Francesco Costa (Catania, 1984) emerge subito il dato per cui scrivere significa, prima di tutto, andare “oltre il proprio ombelico” per parlare di e con altri. È il primo consiglio che ci ha fornito Costa, in una breve riflessione sulla comunicazione, sul giornalismo odierno, con i suoi punti di forza e di debolezza, sulla scrittura come strumento per comprendere la complessità del reale.

«Scrivere, mettere inchiostro su carta – ha detto Costa – ci costringe a pensare a ciò che scriviamo, quindi a ragionarci, a confrontarci con le persone che abbiamo intorno, ci spinge a essere curiosi. Per questo può essere uno strumento molto utile per comprendere la realtà. Dovremmo provare a utilizzare la scrittura non soltanto per raccontare se stessi, ma anche per raccontare il prossimo. Attraverso la scrittura dovremmo provare ad esplorare mondi sconosciuti, ad andare oltre noi stessi, al di là di un esercizio da diario che definirei ombelicale».

In un mondo così complesso, bombardato di innumerevoli informazioni, dove anche le notizie si prestano a diventare terreno di scontro e non occasione di crescita, invitare i giovani a scrivere significa dare fiducia alle loro capacità, alla loro abilità di analisi e di prospettiva non inferiore a quella degli adulti, sottolinea Costa. E noi concordiamo: tenere aperto un blog, anche senza pretese immense deve essere l’occasione di educare a informazioni sempre fondate e ragionate. Educare all’informazione; rendere consapevole il lettore: è questa la vera sfida nell’attuale ecosistema informazione. “La rapidità dell’informazione – spiega Costa – che comunque considero un vasto arricchimento, ci ha disabituati al fatto che queste stesse informazioni andrebbero maneggiate con cautela, verificate. Non sempre il primo racconto, la prima testimonianza è quella vera. Inevitabilmente la velocità è nemica della precisione. Sono tutti elementi di cui il lettore deve essere consapevole”. Non per smettere di leggerle ma per essere per orientarsi e meglio comprendere.

«Non credo – continua – che i giovani siano più vittime di altri di questa complessità odierna delle informazioni. Anzi mi sembra che nelle abitudini di lettura ci sia nei giovani maggiore curiosità, maggiore voglia di comprendere come funziona la realtà, dunque un vantaggio in più rispetto a chi è più adulto».

Ma quanto la frammentarietà, aggiunta alla velocità dell’attuale ecosistema informazione, ne danneggia la qualità? «C’è sicuramente una crisi industriale – spiega – Meno soldi, meno pubblicità, dunque meno persone, meno tempo da dedicare alle cose, quindi meno qualità. Ma c’è anche – quasi come una conseguenza – una crisi professionale che si spiega con una diversa cultura del lavoro e con un approccio superficiale alle cose. La velocità probabilmente ha aggravato la situazione”.

In considerazione di questo scenario non possiamo che essere ancor più attenti ai giovani, specie a quelli che ancora vogliono – e ci chiedono – di pensare. Ma domandiamo: in che modo?

«Sicuramente coltivando la curiosità rispetto al mondo che ci circonda. Se pensiamo che informarsi sia importante, dobbiamo fare un piccolo investimento anche in termini di tempo: non possiamo pensare che la nostra informazione sia frutto soltanto di una selezione casuale di notizie. Che sia leggere un giornale, ascoltare un podcast, leggere libri: ognuno trovi lo strumento più adatto ai suoi interessi ma decida ogni giorno di fare qualcosa per la propria informazione. Perché sia utile».

Questa riflessione sul cercare il “tempo per” ci porta all’ultima domanda, forse la più impegnativa, come ci dirà il nostro interlocutore.

Il 27 maggio ricordiamo la canonizzazione del nostro Fondatore Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), per noi una sorta di padre. Aldilà della dimensione specificamente religiosa che questa data ha per noi Barnabiti, e per le varie realtà legate alla nostra comunità, chiediamo a Francesco Costa, di quale paternità avrebbero bisogno – a suo parere – i giovani di oggi?

«È una domanda molto bella e impegnativa. Di una paternità che possa andare oltre l’idea biologica di paternità. Credo che i giovani abbiano bisogno di una paternità fondata sull’esempio. Mi sembra, da sempre, la cosa migliore che possano fare le persone adulte, quelle che hanno un ruolo di guida di una comunità, qualunque essa sia. Nei rapporti tra adulti e giovani l’esempio mi sembra la chiave fondamentale. Si può insegnare e parlare tantissimo, ma se manca il cuore non si trasmette ciò che si comunica».

Sarebbe stato interessante scambiarci altre idee, ma il tempo del lavoro e la saggezza di non volere il troppo ci hanno indotti ai saluti e a un ringraziamento reciproco per l’arricchente occasione di approfondimento.

Le riflessioni di Costa sulla necessità di trovare il tempo opportuno per l’approfondimento e la riflessione, l’idea di una paternità fondata sull’esempio, ben si legano a quello “stile zaccariano” annunciato dal nostro Fondatore.  Antonio Maria chiede infatti con forza di andare sempre alla profondità delle cose, di non restare nel campo della superficialità, della tiepidezza. Noi, con umiltà, impegno e costanza, ci proviamo. 

Grazie Francesco Costa e Buon compleanno GiovaniBarnbiti.it

pJgiannic e Raffaella DM

In carcere ho conosciuto Gesù

“Poichè ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” Mt 25, 31-46

Il carcere può essere, per molti, un luogo oscuro, triste, dimenticato e crudele. Si pensa che lì si trova il peggio della società, coloro che, in molti casi, non meriterebbero neanche di essere chiamati “persone”.

Oggi voglio condividere un po’ della mia esperienza come membro del gruppo Kolbe, che è parte della pastorale penitenziaria della città di Mérida, nello stato dello Yucatán, Messico.

Visitai il carcere per la prima volta 6 anni fa, e devo ammettere che me lo immaginavo giusto come si vede nelle serie TV o nei film. Avevo molti dubbi e anche un poco di paura. Credo che la mia preoccupazione più grande era sapere che avrei dovuto conversare con le persone recluse lì dentro. Posso dire con sicurezza che quella prima visita mi cambiò la vita: ho capito, infatti, che l’amore di Dio trascende luoghi e circostanze. Incontrai un Dio che vive attraverso tutti i fratelli che si trovano nel carcere.

Ho capito che anche nei luoghi più oscuri, Dio è capace di illuminare e spargere il suo amore in ogni momento. Ho conosciuto persone straordinarie, persone che si rialzano tutti i giorni con l’unico obiettivo di cercare essere migliori di ieri, persone che lavorano e si sforzano di andare avanti in mezzo alla monotonia e alla povertà che caratterizzano la vita nel carcere.

Però, non tutto è di colore rosa. Ho incontrato anche tristezza, rabbia, ingiustizia, disperazione e sete di perdono per gli errori commessi in passato.

La pandemia fu, per noi del gruppo apostolico, una sfida e una opportunità di incontrare nuove forme per restare in contatto con questi nostri fratelli carcerati. Insomma, sono passati quasi 2 anni, nei quali non abbiamo potuto visitarli! Gli abbiamo mandato lettere, generi di prima necessità, dolci, messaggi, cartelloni,  abbiamo recitato rosari virtuali pregando per la loro salute, e moltre altre iniziative. Gesù ci regalò la creatività per rimanere vicino a loro nonostante la forzata distanza.

L’anno scorso, in dicembre, ci informarono che finalmente avremmo potuto visitare il carcere. Non posso descrivere la gioia che provai. Fu una visita incredibile, nella quale ho potuto constatare che tutte le preghiere che avevamo offerto per loro avevano dato frutto. Ci ricevettero con gioia e soprattutto con una grande speranza di andare avanti nonostante la pandemia. Fu come reincontrare un vecchio amico.

A partire da gennaio, a causa dell’arrivo della variante Omicron, le visite al carcere furono sospese di nuovo. Pertanto, siamo stati molto incerti sulla possibilità di poter realizzare la tradizionale missione in carcere nella settimana santa. Ma con la benedizione di Dio, sì, ci siamo riusciti!

Questa Settimana Santa abbiamo avuto l’opportunità di visitare il carcere il Giovedì, il Venerdì e il Sabato Santo. Con l’aiuto di tutti i gruppi apostolici che visitano il carcere siamo riusciti a portare ai fratelli privati di libertà più di 1200 pacchi di generi di prima necessità, realizzare le celebrazioni liturgiche tipiche di ogni giorno, conversare, proporre attività e soprattutto portare loro un messaggio di speranza: ricordando che Gesù è vivo e che non si trattiene nel dare misericordia e amore in abbondanza.

Il mio cuore è ricolmo di amore perchè nuovamente sono riuscita a incontrare Gesù in carcere. Prego che continui a benedire tutti i gruppi che con molta allegria e dedizione visitano le carceri di tutto il mondo.

Oggi voglio invitare anche te a darti una opportunità di visitare il carcere! Sono necessari molti giovani come te e me, che trovino il coraggio di portare allegria e speranza alle persone private di libertà. Non temere! Ti prometto che non è come te lo immagini!

Ringrazio anche padre Stefano per il suo appoggio, dedizione e amore a questa missione che gli toccò realizzare. Preghiamo per le vocazioni sacerdotali!

Per concludere, mi piacerebbe lesciare questo messaggio: il carcere non è un luogo dimenticato da Dio, è un luogo che ha bisogno delle nostre preghiere e soprattutto della nostra fede. Fiducia in tutte le persone che lo abitano e che si sforzano di essere migliori per, un giorno, reintegrarsi nella società.

Grazie mille e un saluto dal Messico!

Tere Montzerrat Polanco Núñez – Merida

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Conocí a Jesús en la cárcel

“Porque tuve hambre y me diste de comer, tuve sed y me diste de beber, fui forastero y me hospedaste, estuve desnudo y me vestiste, enfermo y me visitaste, en la cárcel y viniste a verme” San Mateo 25, 31-46

La cárcel puede ser para muchas personas un lugar lleno de oscuridad, un lugar triste, olvidado y cruel. Se piensa que lo peor de la sociedad se encuentra ahí y en ocasiones que ni siquiera se le deberían llamar “personas” a todos los que se encuentran ahí.

Hoy quisiera compartirles un poco sobre mi experiencia como parte de la pastoral penitenciaria en el grupo Kolbe al que pertenezco en la ciudad de Mérida, Yucatán en México.

Hace 6 años realicé mi primera visita al penal, debo admitir que me lo imaginaba justo como en las series o películas, tenía muchas dudas e incluso un poco de miedo. Creo que mi mayor preocupación era saber de qué podía platicar con las personas de ahí adentro. Puedo decir con seguridad que mi primera visita me cambió la vida, pues pude comprender que el amor de Dios trasciende lugares y circunstancias. Conocí a un Dios vivo a través de todos los hermanos que viven en el penal.

He aprendido que incluso en los lugares más oscuros, Dios es capaz de iluminar y derramar su amor en todo momento. He conocido personas extraordinarias, personas que se levantan todos los días con la única intención de ser mejores que ayer, personas que trabajan y se esfuerzan por salir adelante en medio de la monotonía y las carencias que caracterizan a la cárcel.

Pero no todo es color rosa. También he conocido la tristeza, el enojo, la injusticia, el desánimo y la sed del perdón por los errores que se cometieron.

Como grupo apostólico, la pandemia fue un gran reto y una oportunidad de encontrar nuevas formas de estar en contacto con los hermanos del penal. Pues fueron casi 2 años en los que no pudimos visitarlos. Les mandábamos cartas, despensas, dulces, folletos y carteles, hacíamos rosarios virtuales para pedir por su salud, entre muchas otras cosas. Jesús nos regaló la creatividad para estar cerca de ellos a pesar de la distancia.

El año pasado, en el mes de diciembre, nos informaron que por fin podríamos visitar el penal. No puedo describir la alegría que sentí, fueron unas visitas increíbles en las que pude comprobar que todas las oraciones que ofrecimos por los hermanos rindieron frutos. Nos recibieron con mucha alegría y sobre todo esperanza de salir adelante incluso en medio de una pandemia. Fue como volverse a encontrar con un viejo amigo.

Debido al avance de la variante Omicrón, las visitas al penal nuevamente se suspendieron desde el mes de enero. Habíamos tenido mucha incertidumbre sobre si esta Semana Santa podríamos realizar nuestras misiones. Con la bendición de Dios ¡si lo logramos!

Esta Semana Santa, tuvimos la oportunidad de visitar el penal el Jueves, Viernes y Sábado Santo. Con la ayuda de todos los grupos apostólicos que visitamos el penal, logramos llevar más de 1200 despensas, realizar las celebraciones y oficios de cada día, platicar y realizar dinámicas y sobre todo, llevarles un mensaje de esperanza a todos los hermanos presos. Recordarles que tenemos un Jesús vivo que no se mide en misericordia y amor.

Mi corazón rebosa de amor por saber que estas misiones, nuevamente logré encontrarme a Jesús en el penal. Le pido que continúe bendiciendo a todos los grupos que con mucha alegría y entrega visitan las cárceles del mundo.

Hoy te quiero invitar a que te des la oportunidad de visitar el penal. Se necesitan muchos jóvenes como tú y yo que se animen a llevar su alegría y esperanza a las personas encarceladas. ¡No tengas miedo!, te prometo que no es como lo imaginas.

Agradezco también al Padre Stefano por su apoyo, compromiso y amor hacia la misión que le ha tocado realizar. ¡Pidamos por más vocaciones sacerdotales!

Para finalizar, me gustaría dejarles este mensaje: la cárcel no es un lugar olvidado por Dios, es un lugar que necesita de nuestras oraciones y sobre todo de nuestra fe. Fe en todas las personas que lo habitan y que se esfuerzan por ser mejores para algún día reintegrarse a la sociedad.

¡Muchas gracias y saludos desde México!

Tere Montzerrat Polanco Nùñez

photo by https://unsplash.com/@grant_durr

Blanco, un cantante a san Pietro

Lunedì 18 aprile, prima della Veglia con il pontefice, piazza San Pietro è stata il centro di un grande momento di festa. Dopo due anni di pandemia, don Michele Falabretti (responsabile dell’Ufficio nazionale della Cei per la pastorale giovanile) ha organizzato un concerto prima del momento di preghiera per il Lunedì dell’Angelo. L’evento, avvenuto in concomitanza con il forte pellegrinaggio dei laici, ha riscosso moltissimo successo sul pubblico giovanile (circa 57000), ma anche in quello adulto. I ragazzi sono stati accompagnati di fatto da numerosi adulti, per lo più educatori, sacerdoti, volontari e famigliari. Inoltre, successivamente all’annuncio che le udienze generali riprenderanno a tenersi nella Piazza, il concerto è segno di un ritorno alla normalità che manca ormai da troppi anni. Averlo organizzato in periodo pasquale è un modo per incoraggiare le persone a credere in Gesù; metaforicamente si può vedere in esso una nuova rinascita proprio come quella che Gesù ha mostrato ai credenti “vincendo le tenebre della morte” riprendendo il Papa.

Per l’occasione, è stato invitato Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco, fresco vincitore del Festival di Sanremo 2022 nonché rappresentante, insieme a Mahmood, dell’Italia agli Eurovision Song Contest di Torino (martedì 10 e sabato 14 maggio. Aver scelto un volto noto come Blanco (oltre a lui erano presenti anche Giovanni Scifoni, Michele la Ginestra e Matteo Romano) è indubbiamente una mossa di apertura verso i più giovani che sempre più spesso si fanno condizionare dai grandi abbandonando gli oratori e i centri pastorali. Essendo Blanco la star del momento, scegliere una persona così significa anche da parte della Chiesa cercare di “riallacciare” i rapporti con un mondo giovanile sempre meno religioso e più ateo. Riccardo ha tatuato sul petto un angelo con una corona di spine, simbolo, spiegato dall’artista stesso che rappresenta la sua doppia natura: da una parte “bravo”, ma dall’altra “marcio”. L’angelo fa però intuire come la persona abbia avuto un’educazione religiosa e cristiana quindi avesse a che fare con l’evento organizzato dalla Chiesa. La sua esibizione è avvenuta in mondovisione, nel pomeriggio prima dell’arrivo di Papa Francesco. Tra i suoi brani ha portato Brividi, canzone vincitrice di Sanremo, e Blu Celeste, celebre canzone del suo omonimo album. Quest’ultima è un inno all’amore, l’arma più potente che l’uomo ha a disposizione. In questo caso, purtroppo è rivolto ad una persona che non c’è più e non ritorna.

“Quando il cielo si fa blu, penso solo a te. Chissà come stai lassù ogni notte. È blu celeste”

In tutto il brano l’artista ha sensi di colpa, si sfoga, salvo poi autoassolversi; concetto che si presta all’idea di perdono cristiano. Possiamo quindi affermare quasi sicuramente che la scelta di far cantare Blanco non sia stata dovuta al momento che sta vivendo, ma anche all’abilità di scrittura, profonda e sensibile di Riccardo che in qualche modo, nonostante la giovane età, può essere d’esempio per milioni di persone.

Marco Ciniero, Milano