32 anni da prete

32 anni fa sono diventato prete.
Oggi a 61 anni ancora a giocare con i bambini in calzoncini corti! Era questa la mia idea di sacerdozio?
La testimonianza dell’amicizia con Cristo passa attraverso molte strade.
Ho chiesto a qualche amico o conoscente cosa ne pensi dei preti. Due risposte mi hanno fatto pensare di più.
Una, inaspettata, che nonostante la differenza di età, di valori, di fede richiama l’amicizia creatasi e rimasta anche a distanza di tempo e di spazi; la percezione di ricevere sensazioni positive; la consapevolezza, pur essendo ateo il mio amico, di essere di fronte a un pusher dello Spirito santo, come mi chiamava da studente; poter parlare di tutto con un prete lo rende sicuramente necessario per questa società tecnologica.
L’altra, altrettanto inaspettata, di chi distante dalla religione ritiene la figura del prete neutra per la società di oggi, tranne che per il piccolo gruppo di credenti.
È quell’aggettivo “neutra” che mi ha fatto pensare, forse perché ha toccato quel bisogno di protagonismo che tutti perseguiamo o forse perché potrebbe significare anche la mia insignificanza.
Eppure credo sia importante essere “neutri”, cioè sapere che si vive e lavora per non lasciare spazio se non a Dio. Il protagonismo che spesso, troppo, ha caratterizzato la figura del prete non è evangelico, l’unico protagonismo è quello dello Spirito santo.
Solo quando sarò in grado di rendere visibile lo Spirito santo piuttosto che me allora sarò veramente sacerdote di Gesù.
Neutro può essere un aggettivo negativo: insignificante, inutile, pressoché sconosciuto. Ma forse è proprio qui che nasce la verità della fede. Si è sacerdoti di Cristo non per fare le crociate, bensì per tessere quella rete di comunione tra gli uomini e le donne che Dio ama, una comunione che perlopiù chiede poca visibilità ma c’è! Una comunione che va oltre le immagini delle varie reti o di chissà quali politiche.
Una comunione che nasce dall’invisibile di Dio.
Neutro, mi scrive con rispetto Mttplz; a prima lettura ci sono rimasto male, non tanto per me ma per Dio! Ma rileggendo ne ho tratto grande insegnamento e preghiera per comprendere che il metro di Dio non è il metro degli uomini; per riconoscere che se anche gli uomini e le donne di oggi possono vivere senza Dio, un credente, un sacerdote, continua a stare con Dio con quella “neutra” semplicità della brezza del mattino che più di ogni terremoto o incendio o straripare di acque rivela la Sua presenza.
Dimenticavo, inaspettatamente il quasi unico augurio per oggi è di un mio altro amico, anche egli ateo. Quasi a dire: tu sarai “neutro”, ma noi no!
Grazie a voi che tenete viva la mia vocazione e il mio servire Dio nel sacerdozio.
Giannicola M. prete.

Firenze, 29 giugno 2029, solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo

Questi gli scritti inviatimi.

Essendo quasi completamente estraneo al mondo della chiesa, non ho mai avuto modo di avere un’opinione riguardo i preti (inteso come figura lavorativa). Mi è
capitato però, attraverso un amico, di poterne conoscere qualcuno e di scambiarci qualche parola. Tra le cose che ho notato è che emanavano una sensazione di
‘leggerezza’, riuscendo a creare un ambiente amichevole, e talvolta erano anche simpatici. So anche che buona parte dei preti fanno attività di volontariato,
cercando di coinvolgere studenti ma anche adulti.
Essendo così lontano dal mondo religioso, non saprei dire se c’è ancora bisogno dei preti o meno. Visto l’aura positiva che emanano, e le buone azioni che
fanno, posso dire che non ho motivo di pensare che questi non servano più o che abbiano fatto il loro corso.
Non sapevo che il numero di preti stesse diminuendo, suppongo però che questo sia dovuto all’era tecnologica in cui viviamo. E’ possibile che le persone
cerchino conforto su internet, soprattutto con le nuove intelligenze artificiali che possono sostituirsi alle figure religiose, invece di andare in chiesa.
Consigli non ne ho purtroppo. Al massimo posso consigliarvi di modernizzarvi, oltre ad emanare sensazioni positive emanate (molti di voi, non tutti) anche
la sensazione di star parlando con persone ‘intrappolate’ in un’epoca passata e che abbiano deciso di rimanere li, invece di modernizzarsi.
Ho avuto la fortuna di poter conoscere un prete quando stavo alle scuole superiori, padre Giannicola (detto anche PJannic o Pusher dello Spirito Santo),
che mi ha fatto entrare nel mondo del volontariato. In lui oltre ho trovato un amico che mai avrei pensato di trovare (vista la differenza di età e visto che
l’unico prete con cui avevo parlato prima di allora era durante il periodo della comunione), in grado di poter parlare di qualsiasi cosa (spesso con una birra
vicino), con una bontà unica, che alternava però anche a momenti di estrema serietà. Dopo la scuola siamo rimasti in contatto, e anche se ora viviamo in due
città diverse e siamo meno in contatto, riusciamo sempre a chiamarci e aggiornarci, spesso per farmi partecipare ad iniziative di volontariato all’estero o
anche solo per sapere come stiamo.
Padre Giannicola è stato un prete, ma soprattutto un amico, molto significativo, riuscendo a rendere la scuola meno pesante di quello che era.
AleBevi, Napoli

Quanti anni di sacerdozio fai di bello ? 😀, Julien, Milano

Ciao, certo volentieri rispondo (e auguri per i 32 anni!)

Premesso che rispondo da non credente, quindi personalmente non vedo l’utilità della figura ma sicuramente per chi crede è importante, non credo che ci sia una differenza nell’importanza della figura ma semplicemente oggi si rivolge a un pubblico piú piccolo credo. Come esempio significativo me ne viene in mente solo uno piuttosto negativo in realtà che era il mio prete del catechismo, evidentemente frustrato e continuamente nervoso quindi quella non è stata una grande esperienza devo dire. Per il resto direi tutti neutri senza infamia e senza lode.
Matteo, Berlino

siamo salvati

intervista a Alessandra Carati, scrittrice

“Dopo Londra non è stato più lui, come se il destino lo avesse aspettato per voltare pagina in modo irreversibile. Ero convinta che gli servisse un recinto capace di segnare in modo chiaro il confine tra ordine e disordine.”

Abbiamo scelto queste parole, tratte dal romanzo “E poi saremo salvi”, per introdurne l’autrice, Alessandra Carati. Donna, scrittrice, finalista del Premio Strega Giovani 2021, si racconta in un’intervista che, traendo spunto da riflessioni sul suo più celebre romanzo, un libro che parla di bambini, adolescenti, adulti, un percorso generazionale attraverso le varie fasi della vita, approda a tematiche profonde sulla società e complessità umana. Alessandra Carati, donna, scrittrice, finalista premio strega giovani 2021.

1) Nel suo libro incontriamo la protagonista, poco più che bambina, e la seguiamo nel suo percorso di formazione: è davvero così difficile crescere?
La vita nella sua totalità è complessa. Per i protagonisti del libro forse ancora di più, poiché incontrano degli ostacoli ulteriori. La guerra li costringe a scappare, è un moltiplicatore di fatica e di dolore. Quando conosciamo Aida, la protagonista, ha solo sei anni. Oltre ad attraversare le normali difficoltà del diventare adulti ha quindi un fardello da sciogliere molto pesante. Il trauma della guerra impatta sulla sua famiglia direttamente e il padre li porta a vivere in Italia per salvarli. Vengono strappati all’improvviso dalla loro realtà rurale e quotidiana, dove la comunità ha una sua forza e una sua vitalità, per andare a vivere a Milano. La guerra ha conseguenze non solo su Aida ma su tutta la sua famiglia, su tutte le generazioni che la compongono, dai genitori fino ai nonni, lasciando in ciascuno ferite diverse.

2) Quale è il rapporto dei personaggi del romanzo con la religione?
Il modo in cui vivono la religione non ha niente di trascendente, non hanno dimensione religiosa
realmente viva. La religione diventa una qualità per identificarsi in una situazione in cui si sentono esclusi, quasi a voler marcare una differenza e rivendicare l’appartenenza a qualcosa. Stanno attaccati ad essa come ad una formalità. Neppure il fratello riesce a trovare questa dimensione, anche quando cerca di ricomporre qualcosa nella sua dimensione di delirio, quando tenta di riunificare la sua dimensione psichica attraverso la lettura dei testi sacri delle tre grandi religioni monoteiste. L’unico momento in cui pare esserci un una ricerca di una dimensione trascendente è quando il padre porta Aida sulla tomba della nonna: in quell’istante entrano in contatto con l’invisibile, anche se non direi in senso propriamente religioso.

3) È veramente necessario un evento così traumatico come una guerra per indurci a riflettere maggiormente su noi stessi?
La guerra sicuramente funge da moltiplicatore di emozioni, portandone ad una fortissima ed eccezionale intensificazione. Eppure, questo ci dovrebbe far riflettere. Quante volte anche noi siamo alla ricerca di intensificatori di emozioni, come se il quotidiano non fosse bastante. Forse perché oggi è sempre più rarefatto lo spazio per la propria intimità. L’attenzione assidua al nostro corpo, al nostro involucro, ci ha forse fatto dimenticare la necessità di un ascolto di noi stessi in modo più organico. Il nostro copro non è solo lo strumento che ci permette di fare delle cose, ma preferiamo forse ridurlo a questo per una innata paura della solitudine, di cui non riusciamo a comprendere appieno l’importanza per comprendere realmente noi stesso e le relazioni con l’altro.

4) Allontanandoci dalla specificità del romanzo, cosa è per lei la scrittura e quando è nata la sua passione per essa?
La scrittura per me è stata una sorta di vocazione che, tuttavia, non ho coltivato da subito. Prima di ritornavi, infatti, mi sono “dispersa” in altri ambiti professionali, creando un bagaglio di esperienze che confluiscono nel processo creativo. Per me scrivere è sempre stato un atto di condivisione di esperienza umana, da vivere in primo luogo come una pratica, qualcosa di tangibile, che sta nelle mie mani ancor prima che nel mio intelletto. Qualcosa che avviene con il corpo tramite un contatto con la materia. È un’azione fisica in cui racchiudiamo emozioni, commozioni, sensazioni.
Nello scrivere vi è sicuramente una parte professionale, ma anche una parte più intima che non necessariamente confluisce in un libro, un’attività intima dello scrivere, di cui tutti noi abbiamo fatto esperienza. Scrivere ci nutre, riusciamo ad oggettivare ciò che sentiamo e ciò che proviamo, permettendo di guardare le cose in modo diverso.
Citavo prima la componente fisica della scrittura: oggi, in realtà, poche persone scrivono a mano, abbiamo diversi supporti. È rimasta la scrittura a mano libera solo quando scriviamo qualcosa che è ancora caldo, dobbiamo annotare una sensazione momentanea, un pensiero improvviso. Il supporto cambia molto la temperatura di ciò che si scrive.

5) Come sceglie il materiale e gli argomenti su cui scrivere?
Non scelgo il materiale su cui scrivo, è il materiale che mi sceglie. Ho sempre bisogno di scrivere qualcosa. Mi interessa l’umano, le esperienze biografiche anche lontane dalle mie.
Il romanzo “E poi saremo salvi” ad esempio, nasce da incontro con una mia studentessa, come precipitato di tante storie diverse, scoperte dopo la conoscenza, il dialogo e l’ascolto con una comunità di ex profughi. Ascoltare è una conditio sine qua non per la scrittura, componente essenziale del processo creativo.
Il momento in cui scrivo fisicamente sono pochi mesi, ma sono preceduti da tanti anni di studio di materiale umano, incontri. Per questo libro, ad esempio, ho dedicato molto spazio allo studio teorico, geografico, geopolitico e antropologico, alla lettura di opere di scrittori bosniaci. Tutto questo per me è già scrittura, che diventa così la sintesi di diversi input in contatto diretto con la materia viva, il risuonare dei racconti. Come un grande calderone da ci traggo materia narrativa. Più è stratificato più il processo di sintesi è lungo.
Infine vi è il momento in cui sento di essere pronta a scrivere. I mesi immediatamente precedenti sono periodi di grande sofferenza, è come se stessi covando qualcosa che tuttavia non arriva. In un mondo così orientato alla performatività e alla produttività, questi mesi in cui apparentemente sembra di non fare niente sono in realtà cruciali per la composizione dell’opera.

6) Quali sono alcune sue strategie di comunicazione e scrittura efficaci?
Non credo che ci siano delle strategie di comunicazione. Ci possono essere degli strumenti. La parola strategia suscita in me un sentimento di manipolazione, ma io credo in una forma di scrittura che sia onesta. Il sentimento è qualcosa di estremamente complesso, che ha bisogno di cultura e riflessione, non deve essere forzatamente suscitata.

intervista a cura di Giulia C. – Firenze

puoi vedere e ascoltare l’intervista sul nostro canale youtube: https://youtu.be/5WHAKTcmJqk

33 anni dopo Maradona

Alle 22:37 del 4 maggio 2023 il Napoli è diventato campione d’Italia per la terza volta della sua storia. La squadra di Spalletti va sotto nei primi minuti della partita, ma poi pareggia grazie a un gol di Osimhen vincendo così il campionato con ben 5 giornate d’anticipo.

L’urlo liberatorio, atteso da diversi giorni, si è levato dallo stadio Maradona, dove 50.000 tifosi supportavano la loro squadra del cuore attraverso maxischermi, e ha finalmente scacciato la paura di giocatori e tifosi. Da lì è cominciata la festa in gran parte delle città italiane e anche nel mondo.

È stata la festa del popolo, delle persone da sempre emarginate e schernite, di coloro che sono sempre stati presi di mira perché emigrati, ma che almeno per una notte hanno potuto gridare al cielo la loro fede e la propria origine. Da Fuorigrotta a Posillipo passando dal Vomero, tutta la città era avvolta in un unico colore: l’azzurro. Tutte le vie e ogni vicolo del centro storico erano affollati di gente nuda che piangeva, non ci credeva e sventolava i bandieroni tricolori consapevoli del fatto che nessuna squadra poteva più superarli. Tutto il paese era dipinto di azzurro e bianco con motivetti tricolori. Dalle finestre dei palazzi scendevano gigantografie dei campioni d’Italia mentre tra i vicoli erano appesi a mo’ di lenzuola le magliette della formazione titolare scudettata. Tutta la città era scesa in strada per cantare, gridare e ballare a cielo aperto.

Immagini che ricordavano molto la festa azzurra della magica estate del 2021, quando la Nazionale si laureò campione d’Europa e che ci fanno quasi distogliere lo sguardo alla crisi pandemica. Ricordiamo che proprio in questi giorni, l’Italia è uscita finalmente dallo stato di emergenza sanitaria e sembrerebbe vedersi la luce in fondo al lungo tunnel buio. Un po’ come i napoletani con il tanto agognato scudetto.

Tornando alla festa partenopea, quest’ultima si è estesa fino alle 4 del mattino ovvero fino a quando la squadra è atterrata all’aeroporto della città. Ad accoglierli, anche lì un’ondata di scooter biancoazzurri che strombazzavano a più non posso per esprimere il loro amore verso tutti i componenti della squadra. Piazze e strade erano strette in un unico e interminabile abbraccio cercato, voluto e raggiunto. Nessuno voleva che finisse mai; è stata una cosa del tutto spontanea e organizzato dai napoletani soltanto qualche settimana prima anche grazie alle istituzioni che hanno predisposto un servizio d’ordine pubblico preciso con ampie zone pedonali e polizia a presidiare il tutto.

La vera festa, con la sfilata dei giocatori a pullman scoperto, avverrà soltanto all’ultima giornata di campionato del 4 giugno. In occasione della 38esima giornata, ci sarà infatti la premiazione e di conseguenza l’alzata del trofeo da parte del capitano della squadra vincitrice. Motivo per cui dopo la premiazione ci sarà la classica manifestazione ufficiale organizzata dalla squadra e dal comune. Si sa, i napoletani sono persone simpatiche e calorose, con inventiva di idee stravaganti e fuori dal comune (il carro della nave in giro per la città è uno dei moltissimi esempi a supporto della tesi). Dopo essere passato dal golfo di Napoli, difficilmente si riesce a trovare posti che suscitano le stesse emozioni e la famosa frase “vedi Napoli e poi muori!” racchiude tutte queste cose. La festa del Napoli rappresenta un po’ tutto questo spirito che la persona napoletana ha intrinsecamente dentro di sé. La storia del Napoli stesso, inteso come società sportiva, combacia esattamente con la figura del napoletano. Per anni derisi, ricordati soltanto per il periodo d’oro di Maradona, il fallimento e gli eterni secondi posti; poi, quando nessuno se l’aspettava, ecco la vera forza del gruppo uscire allo scoperto. La forza di chi, nonostante importanti cessioni durante il mercato estivo, ha creduto dove nessuno ci credeva ed è riuscito in un’impresa che durava da decenni.

Il Napoli che spendendo poco e nulla stravince il campionato battendo le ricche squadre del Nord è riuscito in un’impresa che ricorda molto quella di Davide che, con una semplice fionda, batte il temibile gigante Golia dei Filistei. Questo è il bello del calcio. Anzi, questo è il bello della vita che riserva situazioni inattese in momenti ancora più inaspettati.

Marco C. – Milano