Le sedie

Oggi il vangelo ci parla di sedie.

La sedia è un oggetto importante nella storia degli uomini, forse oggi importantissimo perché dobbiamo passare molto tempo seduti. Non è facile progettare e costruire una sedia. La sedia fa parte di noi ma designa anche il ruolo sociale… c’è il trono di Dio, i troni degli apostoli… chissà come sarà la nostra sedia in paradiso a meno che non mangeremo in piedi…

Ma oggi siamo ancora preoccupati del posto che dovremo occupare “di là”? noi così materialisti, così preoccupati del “di qua”? così attenti alla scienza che risolverà tutto, dimentichi che poi si apriranno nuovi varchi, nuove prospettive e forse nuove ansie? La scienza è importante e necessaria ma parla con i numeri, non usa le parole di cui l’uomo ha bisogno per capire, per tentare di capire.

Gesù non usa solo i numeri, sa che deve parlare ai suoi discepoli.
Il discorso del vangelo di oggi segue la denuncia dell’imminente tradimento ecco perché i discepoli sono preoccupati, non capiscono. Gesù sapeva che dopo 3 giorni sarebbe risorto, ma non usa la “scienza matematica” per sostenere la risurrezione, usa le parole della fede; Gesù ha fiducia nei discepoli, ha fiducia nel Padre suo e loro e nostro.

Questo discorso è il discorso dell’addio; ma addio non significa “non ci vediamo più”, bensì ad Deum, verso Dio, verso l’avvenire. Con l’ad-Dio l’avvenire, proprio e degli altri, è posto in Dio. Gesù, che ha sempre vissuto le sue relazioni nell’ad-Dio, cioè davanti a Dio e per Dio, vi pone anche il suo avvenire.
Forse ci sembra un po’ difficile ma è bello sapere che c’è un avvenire fatto non di certezze numeriche ma di parole e gesti e opere di amore.

Come è drammatico sapere che in casa mia, che nella mia vita una sedia magari rimane vuota (e quante ne sono rimaste vuote in questi mesi), però è consolante, è bello, è vero sapere che ci sarà sempre una sedia, un posto con Gesù e la schiera dei santi.
Questa consolazione non nasce da ignoranza, ma dal sapere che prima di noi Gesù ha vissuto la sua vita sempre con ad Deum, con il Padre e per questo può raccontarlo a tutti noi, anche ai più inadatti e ignoranti e lontani da lui.

L’imprevedibile allora non è una pandemia che la scienza non si aspettava, ma che Dio si è fatto Padre nel Figlio che ci racconta con la sua vita e con le sue parole questa vita nuova a cui siamo chiamati. L’addio, l’ad Deum allora non è soltanto un pensiero per la sedia, il posto che occuperemo domani, ma la sicurezza che questa sedia, questo posto dove stare è già qui nella nostra casa, nelle nostre chiese.

Ecco l’Opera di Dio, che la prima e seconda lettura ci spiegano più dettagliatamente: edificare un posto dove sederci tra noi per discutere tra me e Dio e qual è questo posto?
La coscienza di ognuno di noi!
Abbiamo due belle sedie nella nostra coscienza per imparare a stare con Dio?

Tra poco riprenderemo a celebrare insieme e ne siamo contenti, ma in questo tempo di clausura abbiamo qualificato il nostro stare con Dio, il nostro riconoscerlo presente comunque tra di noi? Perché altrimenti siamo dei feticisti? Siamo degli insani abitudinari, non degli amanti sani!
Ecco l’opera grande che Dio vuole compiere con noi: che crediamo in lui, perché chi crede compirà le sue opere e anche di più grandi.

Quali sono queste opere più grandi? La carità prima di tutto (grazie a quanti stanno aiutando persone indigenti): a questo proposito vi invito ad avere sempre una sedia, un posto libero alla vostra tavola per ricordarci che i poveri ci sono sempre.
Ma una opera grande che dobbiamo fare è quella di evitare il distanziamento sociale! Siamo invitati a un distanziamento fisico, non sociale! Non lasciamo che questa pandemia aumenti l’individualismo già imperante della nostra società. Mentre camminiamo per strada non abbiamo paura di guardare negli occhi (conosciuti o sconosciuti) scoperti da una mascherina, e magari di dire buona sera, buon giorno, ciao, fare un cenno con la mano.

Ci prenderanno per matti?
Ma uno che crede di avere un posto qui e un posto di là non è forse un matto!
È non forse matta la fede di chi in questi giorni continua a pregare:
Cristo è risorto, è veramente risorto?

Diritti umani. Helin e Shady, due morti che pesano sugli Stati

Due nomi, due storie, due ingiustizie: Shady Habash e Helin Bolek. Il primo cittadino egiziano, la seconda cittadina turca. Bolek un’affermata cantante di un gruppo folk, Habash un giovane regista. Entrambi arrestati senza colpa e senza prove: Shady accusato di aver definito “dattero” il dittatore egiziano al–Sisi, Helin accusata di essere una terrorista ma colpevole solo di essersi impegnata per la libertà di stampa.

 

 

 

 

 

 

Due giovani – lei ventotto, lui ventiquattro anni – che hanno perso la vita sotto regimi dittatoriali che per convenienza appartengono ancora alla “comunità internazionale”. Due giovani amanti della libertà che hanno avuto il coraggio di ribellarsi alla dittatura e all’ingiustizia. Helin è morta in ospedale dopo 228 giorni di sciopero della fame. Shady è stato vittima di un calvario che lui stesso ha raccontato: «Non è la prigione, ma la solitudine che ti uccide.

Resistere in prigione significa cercare di non perdere la testa e non lasciarsi morire lentamente perché sei stato gettato in una cella due anni fa senza motivo e non sai se e quando finirà». Parole che ricordano le “Lettere di Olga” di Vaclav Havel, anche lui sostenitore della non violenza e arrestato più volte per il suo impegno politico e per essersi ribellato al regime di Gustav Husak. La vicenda di Shady è simile a quella di Patrick Zaki, lo studente dell’Università di Bologna da tempo detenuto in Egitto senza aver commesso alcun reato, e a quella di Abrahim Ezz Eldin e Ahmed Abdel Fattah, attivisti egiziani torturati e incarcerati perché impegnati nella ricerca della verità sulla tragica morte di Giulio Regeni. Siamo in piena emergenza coronavirus, ma non possiamo distogliere lo sguardo di fronte alle continue violazioni dei diritti umani e costituzionali che purtroppo avvengono anche in Paesi con cui abbiamo rapporti diplomatici e di scambi commerciali.

Il Parlamento europeo e l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri, Josep Borrell, hanno più volte stigmatizzato la ferocia giudiziaria di Egitto e Turchia, ma non basta. È ora che l’Europa sospenda gli aiuti finanziari e congeli le relazioni diplomatiche con questi Paesi. È giunto il momento di prendere decisioni che siano coerenti con la nostra coscienza, e i nostri valori. L’Italia e l’Unione Europea hanno tra i loro princìpi fondanti la tutela dello Stato di Diritto. È tempo di dimostrare che ciò è vero non solo a parole ma anche nei fatti.

Giuliano Pisapia,
Avvocato ed europarlamentare

Avvenire mercoledì 6 maggio 2020

Chiudere o aprire?

4^ domenica del tempo di Pasqua

Questa quarta domenica di Pasqua è dedicata alla preghiera per le vocazioni alla vita cristiana e alla vita sacerdotale e consacrata in modo particolare, cioè a chiedere a Dio Padre il dono di nuovi pastori per il suo gregge.
Forse siamo ancora poco consapevoli della crisi vocazionale che stiamo attraversando, ma forse un po’ di più della crisi cristiana che stiamo attraversando. Capite che se manca la terra buona di una vita cristiana diventa più difficile seminare nuovi pastori, nuovi pescatori di uomini.
Questa crisi nasce però da una crisi generalizzata della vocazione alla vita: la vita è dono, ma noi ne abbiamo fatto un consumo a nostro esclusivo favore.
Prima ci sono io, poi gli altri, forse!
Il “noi” non è più la prima persona plurale, prima persona, è ormai la centesima persona indefinita. L’“io” è sempre il problema eterno dell’uomo, ma oggi di più (il populismo ne è la conseguenza principale).
I termini che Gesù usa nella seconda parte del brano giovanneo riguardano il cattivo uso del tempio, dell’area del tempio; sono i termini usati per cacciare i mercanti, gli ipocriti preoccupati del proprio “io”, del borsellino, piuttosto che del “noi” del popolo di Dio.
Questo brano di oggi segue la guarigione del “cieco nato”; Gesù continua a parlare ai farisei ciechi, ai discepoli definendosi pastore e, specificamente la “porta” da cui passare per la salvezza.
Io sono la porta che non si è chiusa nella propria divinità, ma si è aperta all’umanità. Io sono la porta non per far passare meglio ladri e assassini, ma per farvi conoscere la mia voce, per chiamarvi per nome, chiamarvi amici.
Quale voce vogliamo ascoltare? Quale porta vogliamo aprire?
La porta ha un valore simbolico e antropologico forte, specialmente oggi per non fare entrare il virus! La normalità ripetitiva dell’uscire di casa e del rientrarvi a piacimento oggi è messa in discussione. La porta può chiudere, ma anche aprire, serve per entrare ma anche per uscire.
La porta deve essere un limite che non imprigiona ma che è a servizio della libertà sia quando protegge l’intimità della persona all’interno, sia quando apre all’esterno. Immagine di chiusura e apertura, di intimità e relazione, di protezione e di esposizione, di inspirazione ed espirazione, la potenza antropologica del simbolo della porta viene applicata dall’evangelista Giovanni a Cristo stesso. Infatti, attraverso la porta che è Cristo stesso, si entra e si esce. Tutta la vita umana si riassume nei due atti fondamentali dell’entrare e dell’uscire: dalla nascita, l’uscita dal seno materno, all’uscire ed entrare in casa e negli spazi della vita, fino all’uscita definitiva con la morte. Il simbolo della porta applicata a Cristo indica dunque il compito del cristiano di vivere ricominciando sempre la sequela del Cristo, ovvero passare attraverso la porta che è Cristo. (Manicardi)
Mi chiedo e vi chiedo:
io che sono giovane, io che sono famiglia, io che sono compagna o compagno di una storia d’amore; Cristo è la porta che preserva la mia intimità, ma anche mi apre a Lui e all’altro?
Recentemente un prete ha scritto che il cristianesimo è ai minimi termini, tanto che no ci lasciano nemmeno aprire le chiese (è bene che sia così!); forse non si rende conto che ormai da tempo i cristiani stessi preferiscono altre porte per riparare o preservare li proprio ego.
Cristo è diventato la porta di servizio!
Cristo non è la porta di servizio, ma “la Porta” attraverso cui passare per diventare suoi amici e con lui continuare a costruire il regno di Dio.
Non dobbiamo avere paura di aprire, anzi, spalancare le porte a Cristo; non dobbiamo avere paura di indossare il vestito della festa, non il pigiama (come dicevano domenica scorsa) per accoglierlo; Cristo non cerca l’immunità di gregge, ma uomini e donne portatori del buon profumo di Cristo nostro pastore.
Cristo non ha avuto di prendere il nostro profumo – anche le nostre spuzze – di uomini e donne, perché noi possiamo prendere il profumo della sua amicizia da portare a questa umanità sofferente.
Per questo io e padre Antonio, nonostante le nostre spuzze, abbiamo accolto il dono del sacerdozio, anche su questo noi tutti cristiani dobbiamo riflettere e pregare se vogliamo che ancora si possa annunciare al mondo: Cristo è risorto, è veramente risorto!

Una rivoluzione dopo Covid?

Si parla spesso di rivoluzione portata da questa pandemia. La rivoluzione indica un qualsiasi cambiamento radicale nelle strutture sociali.

Non si vuole fare troppo allarmismo, certo, ma è anche vero che se 100 anni fa riconoscevi il nemico contro cui combattere, ora non è così; mi viene da ridere quando sento il primo anziano in coda al supermercato riderci sopra dicendo che lui ha superato la guerra. Non è la stessa cosa.
Sicuramente ci sarà una crisi post epidemia che ricorderà molto quelle post guerra: le imprese dovranno affrontare una crisi di merce invenduta e magazzini pieni mentre le persone dovranno ottimizzare bene la spesa pensando più volte a cosa acquistare. Diversa gente non potrà più permettersi di fare vacanze lunghe (e già prima erano in pochi rispetto ai tempi del boom economico) o altre cose che fino al 2019 venivano date per scontato fare. Paradossalmente anche mantenere più auto o comprare il motorino al ragazzino.
Si capirà meglio, forse, il valore dei soldi e della fatica, avremo più a cuore i piccoli gesti tra i quali aiutare il bisognoso, riutilizzare oggetti vecchi e non buttare gli avanzi di cibo, ma anche solamente il salutare una persona amata. Sicuramente le nuove generazioni capiranno che non sono immortali soltanto perché sono nati con lo smartphone o possono fare Londra-New York in 6 ore.

Ma chi siamo noi per dire cosa è giusto e cosa è sbagliato?
Qualcuno si domanda se ci sarà una rivoluzione virale? Non proprio.

Più che di rivoluzione parlerei di un ritorno al passato e, riprendendo l’economista inglese Thomas Malthus, di un ciclo che ricomincia dopo aver sforato il limite. Se nel 1700 le nascite superavano i mezzi di sussistenza andando così a creare uno squilibrio tra risorse e capacità di soddisfare la domanda, ora possiamo fare un parallelismo con gli acquisti inutili effettuati rispetto a quelli necessari. Con questa epidemia, la cosiddetta “catastrofe malthusiana”, si va a chiudere un’epoca aprendosene un’altra; casualmente in concomitanza con il nuovo decennio.

Il virus non darà un colpo mortale al capitalismo, il quale continuerà imperterrito per la sua strada, ma sicuramente sarà un osso duro per tutti, capitalismo compreso. Come dicevo prima si darà più peso al valore delle cose e si analizzeranno accuratamente i propri acquisti. Se si era abituati a cambiare cucina ogni 5 anni, forse ora ne serviranno 10 per vedere un nuovo piano cottura in casa propria. Se prima si era abituati a comprare l’ultimo modello del cellulare preferito, ora si penserà due volte prima di fare questo investimento.

Molte altre cose, però, rimarranno inalterate. Ricordiamoci che il Dio denaro prevale su tutto da sempre e si è più portati a far continuare il capitalismo anche a costo di fare poi svariate campagne, spot e altro ancora per salvare il Pianeta.

Dal punto di vista politico (perché anche di questo dobbiamo parlare) svaluto il pensiero di Zizek, che ho trovato in un articolo, ovvero di una caduta del regime comunista cinese, come svaluto l’idea di una superiorità cinese stessa nei confronti del resto del mondo, la gente si dimentica facilmente le cose. Ci sarà un ennesimo finto senso di uguaglianza e di comunità tra Stati dell’Unione Europea e non. Classico giochetto illusorio per far credere di star facendo qualcosa di importante, quando in realtà non si sta combinando nulla.

Servono e serviranno più che mai fatti concreti e non maschere da indossare quando fa comodo. Perché un giorno mi conviene essere tuo amico mentre il giorno dopo non più? Se non siamo noi cittadini stessi a essere uniti (e non lo siamo perché dopo 159 anni ci sono ancora meridionali che incolpano settentrionali e viceversa), perché ci vogliono far credere di esserlo con Paesi nemici dai tempi dei romani? Perché essere disonesti con se stessi? Forse hanno ragione i diversi studi scientifici che affermano che l’essere umano è egoista per natura e l’altruismo è solo un modo per sentirsi migliori agli occhi di chi guarda. Un esempio è la classica storia del ragazzo che trova una moneta per terra: quando è da solo la tiene, altrimenti la dona al povero. Questa azione viene fatta inconsciamente, ma è dettata da diversi fattori tra i quali la società e la paura di essere emarginato.

Marco Ciniero – Milano