Tai Chi

Nel Tai Chi che pratico da anni, c’è un saluto con cui apriamo sempre le nostre sedute: ci si inchina lentamente tre volte portando le mani al cuore, una chiusa a pugno nell’altra.
Il primo inchino è mentalmente rivolto “al maestro che è sopra di noi”; il secondo “al maestro che è davanti a noi”; il terzo “al maestro che è dentro di noi”.
Così ci ha spiegato chi ci guida.

Il saluto è lento, tranquillo, silenzioso e mi dà tutte le volte tempo e modo per una preghiera dolce e riconoscente alla Trinità.

Mi inchino al maestro che è Padre, creatore, misericordioso, luce da cui tutto proviene e in cui tutto si ricapitolerà.
Poi mi inchino al maestro che è Figlio, via, verità e vita per me che sono ancora e sempre in ricerca.
Infine mi inchino al maestro interiore che è in melo Spirito, luce nelle scelte di ogni giorno, consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo compagno nel cammino della vita. Prego così, tutte le volte. Ho imparato nel tempo, e non sempre in modo indolore, che non ci sono altri maestri in Terra e che anche in una palestra si può pregare. Chissà se il mio saggio e profondo insegnante di Tai Chi se n’è accorto!

Ho tratto questo testo da https://www.unattimodipace.it grazie

Call me by your name

Estate 1983: tra le province di Brescia e Bergamo, Elio Perlman, un diciassettenne italoamericano di origine ebraica, trascorre le giornate con i genitori nell’ereditata villa del XVII secolo leggendo Stendhal, suonando Bach e nuotando nel fiume sotto il soffocante sole di Agosto. Gli ispiratori lontani sembrano Jean Renoir e Éric Rohmer e più che La regola del gioco, La scampagnata e Pauline alla spiaggia sono l’archetipo dell’ultimo lungometraggio del regista, con la natura che diventa metafora di una modernità fatta di attimi fuggenti.
L’atmosfera bucolica cambia quando li raggiunge Oliver, un dottorando ventiquattrenne che lavora con il padre di Elio, docente universitario; e dal primo sguardo, da quel primo: “Dopo.”, Elio ne rimane turbato, non osa corteggiarlo, pur rimanendone attratto. Ma dal momento in cui Oliver si fermerà per solo sei settimane le ore sono contate, dovendo volente o nolente abbandonare al futuro ciò che verrà costruito dai due durante la loro vicinanza. E nonostante sia un tema relegato ai minuti finali del film, quello della perdita è il fil rouge di Chiamami col tuo nome, più lampante e tangibile che in ogni altra pellicola di Guadagnino anche perché, diciamocelo fuori dai denti, mai film di Guadagnino fu degno di recensione… Che si parli di morte, di cordoglio, o di abbandono – spesso sottostimato rispetto ai primi due, ma catalizzatore di un malessere interiore pari a quello provocato dalla morte stessa –, il dolore lacera i tessuti e apre piaghe a volte impossibili da risanare: prosciuga la ricchezza del sangue, il congegno degli organi, la corona dei sogni, chiude le ali alle chimere della fantasia…
C’è un “però”, tuttavia, e quel però non potrebbe essere chiarito meglio che da D’Annunzio ne Il piacere – seguitemi un attimo, non è uno show-off, non sto citando a caso, prometto:
«La convalescenza è una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male; e non mai l’anima umana [è] più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della morte. Comprende l’uomo, nel guarire, che il pensiero, il desiderio, la volontà, la coscienza della vita non sono la vita. Qualche cosa è in lui più vigile del pensiero, […] ed è la sostanza, la natura dell’essere suo. Comprende egli che la sua vita reale è […] il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive; […] è l’impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte le rinnovellazioni.»
È questo il miracolo della convalescenza: la maturazione attraverso il dolore, la purificazione grazie alla perdita. La perdita di un parente, di un amico; la perdita di Elio e Oliver. E, come Andrea Sperelli esattamente un secolo prima, il vero problema sta nel fatto che Elio questo amore lo ha perso esattamente prima di aver realizzato quanto fosse autentico, provocando dunque un dolore così profondo che solo la fine di «amori naturali» possono causare.
«Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio…» rappresenta anche una vera e propria dichiarazione di volontà di fusione con l’altro: l’“altro” che diventa “io”, l’“altro” di Merleau-Ponty nel quale ci si riconosce a tal punto da diventare una cosa sola. E in una cosa sola si trasformano i due lentamente, seguendo i pacati ritmi dell’afosa campagna lombarda, scanditi da giri in bicicletta, musica e pagine di libri. Tanti libri.
Il loro avvicinarsi prende forma in maniera naturale e spontanea, come il lungo scorrere dell’acqua che dopo numerose deviazioni e ostacoli all’improvviso si fa cascata e si manifesta in tutta la sua forza e bellezza. Questo è l’amore tra Elio e Oliver, una forza della natura che nulla può davanti alla paura se non sbocciare delicatamente, irrimediabilmente. Un amore non contro natura, ma formato dalla natura stessa.
Le loro menti si innamorano prima dei loro corpi e questo fa si che un semplice tocco di mano, una carezza sfiorata, una frase soffocata, e infine un abbraccio possano diventare la massima espressione del desiderio e della passione.
E dove il sesso e l’orientamento sessuale passano in secondo piano davanti a un sentimento che sfida e vince ogni tipo di pregiudizio e paura. E che sceglie di parlare e di non morire.
Se siano meritate le quattro nomination agli Oscar o meno rimando a pareri più esperti del mio. Ma di certo c’è che Chiamami col tuo nome ha lasciato un segno, se non indelebile, nel panorama LGBTQ cinematografico contemporaneo, dettando un nuovo modo di raccontare una storia, scevro da ogni pregiudizio o stereotipata rappresentazione di una naturalità alla quale ognuno di noi si approccia dai tempi dell’adolescenza.
«Raramente sappiamo ciò che possiamo diventare per gli altri attraverso il nostro essere. Dobbiamo rassegnarci a questo. […] Tra due persone accade che talvolta, assai raramente, nasca un mondo. Questo mondo è poi la loro patria, era comunque l’unica patria che [Elio ed Oliver] era[no] disposti a riconoscere. Un minuscolo microcosmo, in cui ci si può sempre salvare dal mondo che crolla.»

Fabrio Greg Cambielli

Le ceneri della giustizia

Praticare la giustizia.
Con questa affermazione comincia il vangelo del mercoledì delle ceneri 2018.
La giustizia sono le “opere buone” per ristabilire il bene tra le persone, in se stessi, per essere graditi a Dio.
Il tempo della quaresima è il tempo per ristabilire la giustizia di Dio, la giustizia tra Lui e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e gli uomini e le donne.
Questa giustizia passa attraverso l’austero segno delle ceneri imposte sul nostro capo, non solo per dirci che siamo cenere, ma specialmente per dirci che il nostro peccato in forza della giustizia di Dio diverrà come cenere e come cenere andrà disperso.
La giustizia di Dio, perché possa operare, richiede che noi “ascoltiamo il Vangelo e cambiamo vita”: che diventiamo giusti.
Per ascoltare il Vangelo bisogna fare silenzio, pregare!
Fare silenzio richiede il digiuno, digiuno del mangiare prima di tutto, ma anche della nostra mentalità, del nostro esclusivo proprio modo di pensare, di non saper rinunciare a nulla.
Si prega, si fa digiuno per cambiare vita, per meglio operare il bene, cioè l’elemosina, la carità.
Avremo tempo per riflettere su quale preghiera, su quale digiuno, su quale carità… per ora il mercoledì delle ceneri ci chiama a impegnarci in questo cammino di Quaresima: Dio si impegna con noi attraverso il segno delle Ceneri, noi ci impegniamo con Lui?
Impegnarci a essere ambasciatori di Cristo… suoi collaboratori! Questo chiede Dio nella seconda lettura (2Cor 5,20-6,2).
Preghiera, elemosina, digiuno sono gli strumenti per verificare, per crescere in questa identità di ambasciatore per rendere credibile la vocazione cui siamo chiamati: noi siamo chiamati ad affrontare il peccato, a renderlo come cenere, ma anche a collaborare con Dio in questa impresa.
Ambasciatori per chi? In particolare per i più giovani, per le nuove generazioni. I giovani hanno bisogno di testimoni credibili, di persone coerenti. Hanno ancora sete di Dio, ma più ancora di testimoni di Dio che sappiano ri-raccontare loro la proposta di Dio.
Chiediamo che questo austero rito delle Ceneri ci permetta di rinnovare la nostra esperienza di Dio perché possa meglio diventare anche la verità per le nuove generazioni.
Questa è la giustizia che ci è chiesto di praticare.

Cos’è la vita?

Cos’è la vita?
Siamo capaci di prenderla per mano, la vita che ci scorre attorno, la vita nella quale siamo chiamati a scorrere?

In un episodio della sua vita Gesù entra nella casa di Pietro e, vedendo la suocera malata, la prende per mano e la rialza alla vita quotidiana. Sembra una stupidaggine, un fatto senza grande importanza questo “prendere per mano” eppure vale più di quanto pensiamo.

In troppi ci accorgiamo che molta, forse tutta la vita scorre in solitudine, ecco perché prendere per mano non è un gesto di poco conto.
Credo che questa vita di oggi più che in altre epoche, sia da prendere per mano, la vita dal suo concepimento alla sua sepoltura. La vita da prima che fosse conosciuta a noi uomini, sino a quando sarà sconosciuta a noi uomini. Perché la vita che specialmente scorre tra questi due punti, comunque c’è anche oltre questi due punti.
Ma cos’è la vita per noi?

Lo Stato ci ha dato delle leggi per “difendere” la vita delle donne in cinta, la vita delle persone gravemente ammalate, ma forse non ci ha dato leggi per accompagnare la vita. Non siamo chiamati a fare battaglie apocalittiche o estremiste per far comprendere che la vita comunque è vita, ma a riflettere, a far ragionare sì.
L’aborto è veramente una salvezza? Per chi?
Il dimenticarsi dei poveri, dei bambini, degli anziani, degli ammalati è veramente segno di maturazione civica?
Far morire chi è gravemente malato piuttosto che accompagnare a una buona morte è un diritto del malato o una liberazione dei “sani”?
In tutte queste leggi si parla della vita delle persone o degli individui? Perché c’è differenza tra considerare un uomo, una donna, persona o individuo.

La recente “Dichiarazione anticipata di trattamento” è un tentativo di risposta a una questione spinosa, ma va usata con attenzione, né in senso largo, né in un senso stretto. Bisogna fare attenzione a che questa legge non permetta tutto ovvero limiti tutto. Prendere “per mano” questa legge sarà importante, è un dovere di noi cristiani, un dovere da assumere seriamente se non vogliamo cadere nel peccato di omissione, molto più grave di altri peccatucci che più normalmente confessiamo.
L’uomo di oggi ha paura di “prendere in mano” la malattia, di “prendere per mano” le persone che scorrono intorno alla propria vita.

Qualche giorno fa un sacerdote campano ricordava il testamento di una donna che pur avendo sempre vissuto di immagine, di mettere in mostra il proprio corpo, la propria storia di fronte alla possibilità di andare a morire in Svizzera causa un tumore devastante, una amica fidata le dice che invece dell’eutanasia poteva percorre la via italiana delle cure palliative con la sedazione profonda. Una possibilità che non conoscevo, afferma Marina Ripa di Meana, per questo farà un appello: «Voglio lanciare questo messaggio, in questo mio ultimo tratto: per dire che anche a casa propria, o in un ospedale, con un tumore, una persona deve sapere che può scegliere di tornare alla terra senza ulteriori e inutili sofferenze. Fallo sapere, fatelo sapere».

Chiediamo allo Spirito santo di insegnarci il gesto di Gesù che prese per mano la suocera di Pietro: forse non rialzeremo la persona malata, ma avremo dato dignità a lei e all’umanità.