Tra le strade polverose di Riyad, in mezzo a donne col burqa ed ecomostri incompleti, cresce una ragazzina di nome Wajda. Indossa Converse nere, ascolta musica inglese, ha un migliore amico maschio e vuole una bicicletta.
Questo è il soggetto dal quale il film parte. Un film forte, forte della sceneggiatura e dell’idea di base.
Un film che non si dimentica. Un film che ha la caratura della testimonianza documentaristica e di una narrazione quasi neorealista per l’uso di attori non protagonisti, acerbi ma comunque capaci di comunicare la forza di un vissuto condiviso.
La storia è di una semplicità disarmante ma non per questo banale.
Wajda desidera una bicicletta e per averla partecipa a un concorso sulla recitazione del Corano indetto a scuola. La bambina è già fuori dalle righe rispetto a quanto l’educazione oppressiva dell’Arabia Saudita preveda, si ribella alle costrizioni sul vestiario, ascolta musica in lingua inglese, sviluppa un desiderio ancora più rivoluzionario e lotta per esaudirlo sfruttando ciò che la società le porge, ma mai si piega veramente. Seguendo questa traccia il film cristallizza la condizione femminile partendo dall’ambito scolastico che plasma i comportamenti futuri delle giovani menti femminili.
“La bicicletta verde” è un racconto di donne, per donne, audacemente controcorrente, che descrive una cultura a noi sconosciuta, troppo distante. Raggelante per l’insieme di costrizioni e regole così prodigiosamente introietatte da tutti attraverso un sistema di indottrinamento e di conseguente esclusione sociale alla prima presunta violazione che si fonda sul testo religioso e sulla struttura sociale maschilista che ne deriva. E nel farlo si sceglie un mondo di donne in cui le donne sono attori in pieno, vittime e carnefici di se stesse, in cui gli uomini sono sorridenti e mai impositivi, placidi amici anch’essi intrappolati in un gioco che spesso non condividono nei fatti.
Un film soffocante che palesa pochissime vie di fuga, in cui tutto ruota nel mettersi in gioco e approfittare di quei margini di tolleranza che sono un po’ ovunque e che, fomentati dall’esempio di alcune coraggiose, nel tempo può comportare anche il minimo cambiamento.
In 100 minuti si respira tutta la violenza delle religioni volte a piegare il femminile fino a cancellarlo dallo spazio pubblico, con un obbligatorio happy ending di circostanza, perché nel futuro più che sperare non si può.
Forse quello che manca di più è un’elaborazione registica, ma il sopravvento di quanto si racconta è imperioso.
Mi domando solo se sia stato distribuito in patria.
Fabio Cambielli