Molti anni fa, quando le major cinematografiche non avevano ancora pieno controllo verticale sulle sale in Francia, quando la voce francofona del quasi trentasettenne Gainsbourg riempiva attraverso la radio le case europee con Coleur café, usciva contemporaneamente al cinéma il settimo lungometraggio di Jean-Luc Godard, Bande à part.
Era il 1964 e il cinema francese stava vivendo una rivoluzione che ancora oggi paralizza i registi di tutto il mondo: da quel momento la Nouvelle vague avrebbe cambiato il cinema. Ne avrebbe cambiato le forme, i costumi, i modi.
Un triangolo amoroso degno di Truffaut riempie le scene del film, andando a scandagliare quei tratti che rendono i protagonisti personaggi godardiani a tutto tondo, animali selvaggi ancora incorrotti, impacciati quando delinquono e quando cercano di nascondere i loro veri sentimenti. Annoiati come bimbi alle lezioni d’inglese, corridori provetti a bruciapelo tra le sale del Louvre, ballerini affermati nei bar sulle note di un rythm & blues, in una delle sequenze forse più epiche del cinema francese; Odile, Franz e Arthur sfrecciano per le strade della periferia est parigina a bordo della loro SIMCA lasciando che la luna si mangi stancamente il sole, in cielo, e che un’altra noiosa giornata finisca.
Come dessert, una rapina organizzata nella casa dove vive la ragazza con la vanesia quanto misteriosa tutrice. Il tutto seguiti dalla silenziosa Arriflex 2 C, pilotata magistralmente da Raoul Coutard, che li pedina senza essere mai invadente, li accarezza quasi, riuscendo a restituirci i loro palpiti minimi. Perfino il respiro. Fino all’ultimo.
Ispirato all’estetica popolare dei b-movies americani degli anni ’50, Bande à part è un dramma risolto in cadenze di commedia burlesca, un perfetto heist movie dove il crimine e l’amore la fanno da padrone, idoli indiscussi di una storia cinematografica, in quell’anno ormai quasi centenaria.
Bande à part è una infinita, eterna preparazione all’inevitabile epilogo: ma anche un esorcismo, un giocare a scacchi con il Fato e la Morte. Se il percorso è stabilito a priori in fase di sceneggiatura, lo stile cerca di sovvertirlo e di mandare in stallo la storia stessa.
La pellicola incanta per questo strano gioco, per questa sfida che Godard pone a sé stesso, per il duello tutto interno al film tra il bisogno di una storia chiusa e prestabilita e la sua aspirazione a uno stile e a una regia totalmente aperta.
Arthur, Franz e Odile parlano e si parlano addosso incessantemente, più di Lei e Lui in Hiroshima mon amour e, forse, è per questo che a metà film sentono il bisogno di sperimentare un minuto di silenzio, che la cinepresa registra in tempo reale, esulando i suoni e accludendo lo sguardo incredulo dello spettatore. Ma subito dopo la parola riprende il suo potere e contende più di prima, come nelle migliori pellicole di Rohmer, il primato all’immagine.
È un film leggero, girato sulle punte. Danzante come la fotografia di Bresson e tagliente come quella di Capa, Bande à part riesce a sovvertire le regole del gioco cinematografico classico, presentando un soggetto innovativo (benché non originale), forte di una fotografia morbida ma greve, disegnando dei personaggi goffi e immaturi, amati e accarezzati dal regista ma impossibili da salvare.