Intervista a Paolo Martinelli vescovo della chiesa di Milano per la vita consacrata 

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Paolo Martinelli è da poco vescovo ausiliare della diocesi di Milano incaricato per la vita religiosa. Non solo in qualità di mio compagno di scuola superiore o del suo essere frate cappuccino, bensì del suo ruolo che svolge in una delle diocesi più importanti del mondo e poiché siamo nell’anno dedicato alla vita religiosa, gli ho posto alcune domande perché ci aiuti a ragionare sul valore della vita consacrata (o religiosa) come segno nella nostra società fatta di segni e … simulacri.

Buon giorno fra Paolo, è un piacere rincontrarci in questa tua nuova veste, in questa diocesi che ci ha visto crescere; chi avrebbe pensato che dalla nostra scuola (1975/1980) potessero fiorire ben tre vocazioni tra cui un vescovo! Siamo nell’anno che papa Francesco ha dedicato alla vita religiosa (per intenderci con i nostri lettori: Gesuiti, Domenicani, Cappuccini, Barnabiti…), un anno che ci sollecita a ragionare con ulteriore attenzione a questo ramo della vita cristiana. La vita religiosa è dai più definita come segno, segno definitivo di Cristo nella Chiesa e nel Mondo, quindi io vorrei partire proprio dai segni e da alcuni segni che oggi vanno molto di moda, tatuaggi.

Cosa pensi dei tatuaggi, di questo bisogno di qualche cosa di così definitivo, in una società in cui conta di più il momento, l’usa e getta?

A dire la verità questi segni incisi sulla pelle e nel corpo mi sembrano come un grido, come una domanda in cerca di interlocutore, poiché il corpo è il luogo in cui ciascuno incontra e si fa incontrare dall’altro. In un’epoca di relazioni “liquide” il segno corporeo sembra voler incidere in modo indelebile nella carne un grido, una esigenza di relazione e di riconoscimento.

I tatuaggi sono dei segni, forse dei simboli: perché i giovani di oggi hanno così bisogno di segni?

Ogni persona ha bisogno di segni perché non può vivere senza comunicare se stesso agli altri. Devo dire che l’abbondanza di un corpo supertatuato, come ad esempio quello di coloro che lo ricoprono quasi totalmente di tatuaggi, mi sembra che contenga un carattere di “eccesso”. Ad ogni modo l’uomo è sempre un io-in-relazione, anche nell’eccesso. Inoltre il segno come simbolo esprime il bisogno di interpretare la realtà che ci si trova a vivere quotidianamente. L’uomo è quell’essere al quale non basta vivere ma deve interpretare la vita e ciò avviene attraverso la funzione simbolica.

Il mondo del lavoro, ma anche molti di noi, spesso non approva e tantomeno accetta persone tatuate: è giusto che l’abito continui a fare il monaco?

Credo che i “supertatuati” possono dare a volte una impressione di eccesso, come sintomo di un equilibrio non ancora trovato. Da qui una certa diffidenza che il mondo del lavoro può provare nei loro confronti. Questa impressione può essere naturalmente sbagliata e determinata da pregiudizi. Ma in questo senso il proverbio “l’abito fa il monaco” non è del tutto sbagliato; la forma che si assume nella vita comune non può essere indifferente.

Quali segni credi la società di oggi offre alle generazioni giovani?

La necessità di simbolizzare è assolutamente inestirpabile nei giovani e nelle persone. Purtroppo la nostra cultura sta perdendo la capacità simbolica in forza della diffusione pervasiva delle tecnoscienze. Sono conquiste importanti, ma non devono essere vissute a discapito del bisogno dell’uomo di vivere il rapporto con le cose con la necessità che ci sia un senso in quello che si vive. Da questo punto di vista la società non offre molti segni, forse offre molti segnali che spingono al consumo più che alla riflessione. I giovani vanno aiutati a non vivere di riflessi meccanici e condizionati ma a essere uomini liberi e consapevoli del senso della vita, di dare uno scopo ai propri giorni e di prendere decisioni che diano senso ai propri giorni.

Restando nell’ambito giovanile: qual è il segno che preferisci nella gioventù di oggi? E quello più preoccupante, che ti piace meno?

Nei giovani di oggi vedo segni di autenticità e sincera capacità di amare, di essere generosi. Quello che mi preoccupa di più è di trovare in essi spesso anche segni di tristezza e poca fiducia nel futuro; causati spesso dalla mancanza di adulti che testimonino a loro la possibilità di vivere all’altezza dei propri desideri più veri. C’è bisogno di adulti che tornino a comunicare questa possibilità, che siano testimoni di speranza.

 La vita religiosa nel pensiero cristiano è sempre stata intesa come segno, segno della vita di Cristo tra gli uomini. Saresti capace di chiarire meglio questo concetto ai nostri lettori?

Oggi la maggior parte dei giovani non conosce più la vita religiosa. Le indagini statistiche sulle realtà giovanili ci dicono che la loro comprensione della vita religiosa è assolutamente bassa. Credo che i religiosi e le religiose dovrebbero aver più coraggio di farsi incontrare dentro la vita quotidiana dei giovani. Essere segno vuol dire essere capaci di intercettare la vita dei giovani e fare sorgere le domande fondamentali sul senso da dare alla vita. La vita religiosa come segno di Cristo vuol dire una forma di vita incontrando la quale si è portati a porsi delle domande sul senso e sul fatto che Cristo propone un significato totalizzante capace di abbracciare ogni situazione, di gioia e di dolore.

Un segno svolge la propria funzione quando riesce attirare a sé, a farsi seguire da coloro a cui si rivolge (pensiamo alla pubblicità o alla moda). Secondo te i giovani di oggi sono capaci di comprendere l’essere segno della vita religiosa? O  meglio: noi religiosi siamo capaci di farci intendere, comprendere dai giovani di oggi?

Su questo occorre riflettere bene: la pubblicità propone segni fortemente “seduttivi” che tendono a produrre una reazione compulsiva di consumo e a rendere il desiderio della persona sempre più superficiale. In tal modo la libertà della persona è ridotta alla semplice reazione di soddisfare nel più veloce tempo possibile un bisogno, per lo più indotto dall’esterno. La vita religiosa non deve in nessun modo essere un segno di questo tipo; piuttosto deve indurre a riflettere, a pensare al proprio vero desiderio e capire la propria responsabilità nella vita e a scoprire dove sia la vera gioia. Occorre che la vita religiosa dia a pensare al giovane sul senso da dare ai propri giorni.

Perché molte esperienze di vita più radicali, penso alla Clausura ma anche a nuove forme di vita comune secondo il Vangelo, sembrano attirare, suscitare più vocazioni che altre forme più classiche e storiche della Chiesa?

È un discorso molto complesso. Il mondo è cambiato in modo vertiginoso in questi ultimi sessant’anni ed è normale che le antiche forme di vita consacrata abbiano bisogno di ripensarsi e di riflettere su come vivere la propria vocazione nel presente. Le realtà di vita contemplativa, come la clausura, e le grandi tradizioni di vita spirituale sono più solide perché riescono ad essere se stesse integrando nuove sensibilità. Sono in crisi soprattutto le realtà sorte 100/200 anni fa, molto legate a opere particolari. I cambiamenti sociali fanno sentire molto il loro peso su queste realtà legate a situazioni contingenti.

Quanto vale come segno essere religioso in maniera “normale”?

Direi che la cosa migliore sia essere religiosi “normali”; è bene essere creativi sviluppando il dna presente nella propria storia spirituale, lasciandosi fecondare dal presente; mentre non mi sembra che abbiano dato grande esito i tentativi di cercare di essere religiosi “strani” o “diversi” dal passato, forzando degli adattamenti che rischiano di snaturare la propria esperienza.

La vita religiosa è chiamata anche a essere profetica, cioè a portare speranza e progettualità per il futuro: quali segni di speranza e di futuro offriamo ai giovani?

Innanzitutto bisogna capire che cosa vuol dire essere profeti. Il profeta è l’amico di Dio e l’amico degli uomini; è tanto amico di Dio da poter ascoltare intimamente la sua parola e dirla al mondo; ed è tanto amico degli uomini da avere il coraggio di denunciare la falsità dei cuori e di rilanciare la speranza per un cambiamento possibile. Inoltre, per me l’urgenza più grande oggi è quella di fare vedere che seguire Gesù Cristo rende le persone più umane. La Chiesa italiana parla giustamente di nuovo umanesimo in Cristo. Occorre lavorare per questo nuovo umanesimo. Occorre riportare l’uomo al centro con le sue relazioni costitutive. Seguire Gesù fa vivere intensamente gli affetti, il proprio essere uomo e donna, il lavoro, il riposo, la gioia, il dolore, la vita e la morte. Essere profeti del regno oggi vuol dire essere profeti dell’umano: mostrare in questo tempo, dove si sogna un transumanesimo o postumanesimo, la bellezza di essere se stessi come creature amate e come figli di Dio.

Un’ultima domanda, fra Paolo: da pochi mesi sei stato ordinato vescovo nella e per la chiesa di Milano: cosa significa tutto ciò? Quale missione pensi ti sia chiesta dal Vangelo, dalla Chiesa in questo nuovo millennio?

Mi è stato dato l’incarico di vicario episcopale per la vita consacrata e sono molto contento di questo. Mi sembra che la cosa più importante sia proporre – come dice papa Francesco – la cultura dell’incontro contro la cultura dello scarto, proporre il cristianesimo come incontro; incontrare Cristo e andare agli altri portando l’incontro con Cristo. I consacrati e le consacrate sono proprio persone dell’incontro. Occorre lavorare per costruire forme di testimonianza evangelica semplici e incisive in cui mostrare la bellezza e la gioia del Vangelo. Il cristianesimo non si diffonde per propaganda ma per l’attrazione della testimonianza di uomini veri e autentici. I consacrati e le consacrate devono essere in prima linea su questo.

Quindi, fra Paolo, posso concludere richiamando quanto diceva Paolo VI: per l’uomo di oggi abbiamo bisogno non di maestri, ma di testimoni. Il segno di cui l’umanità non può assolutamente fare a meno e per il quale la vita religiosa è impegnata in prima linea è proprio quello della testimonianza, non dell’effimero, ma dell’incontro con Gesù!

Grazie di cuore per il tempo dedicato ai nostri GiovaniBarnabiti e buon lavoro da pastore.

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