In occasione della giornata della terra, leggiamo e riproponiamo da Avvenire del 18 aprile 2014 la riflessione di di Melchior Sànchez De Toca (Sottosegretario del Pontificio Consiglio della Cultura).
La Bibbia, il grande codice della cultura occidentale, quel grande alfabeto colorato dove, secondo Chagall, i pittori per secoli hanno intinto i loro pennelli, descrive con tratti essenziali il rapporto tra l’uomo e la Terra: “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse” (Gn 2,15). La terra, un giardino da coltivare, da custodire – peraltro uno dei grandi nuclei tematici su cui è imperniato il padiglione della Santa Sede all’Expo 2015 – esprime il giusto rapporto tra l’uomo e l’universo, forse in un modo più vicino alla nostra sensibilità moderna che non il “riempite la terra e soggiogatela” della Genesi (1,28).
Coltivare la terra rimanda, già nella stessa radice latina, a due dimensioni fondamentali dell’esistenza umana: il culto e la cultura. E non è un caso se in molte altre lingue, a cominciare dall’ebraico biblico, il lavoro (‘abd) è strettamente collegato al servizio divino (‘abodah). La cura della terra è così intimamente legata a quel “prendersi cura” di sé che è all’origine della cultura e al rapporto con Dio, che si esprime nel rito, nei simboli, nei racconti.
La giornata mondiale della Terra, l’Earth Day, celebrato in tutto il mondo, ci ricorda queste verità essenziali.
Prendersi cura del pianeta non è un lusso, non è una concessione alla moda del momento. È prendere coscienza di una responsabilità comune a tutti, di un’urgenza impellente. Per decenni abbiamo sfruttato il pianeta che ci ospita, di cui siamo parte, e lo abbiamo saccheggiato, ben lontano da quel “prendersi cura” che Dio aveva ordinato all’uomo.
Curare il pianeta è un dovere di solidarietà nei confronti delle generazioni successive; ma comincia ad essere anche un atto di semplice sopravvivenza. E anche una forma di cultura, sia in senso etimologico, sia in quello comune.