Un paio di settimane fa, per un esame universitario, mi sono trovato a dover girare un cortometraggio. Tralascio i dettagli sulla storia e sulle location in quanto non credo siano utili ai fini di questa recensione. Quello su cui però vorrei dare un hint è lo stile della regia: io e il mio compagno di classe abbiamo deciso di creare un prodotto in one-shot. Cos’è?
Nel gergo cinematografico, un one-shot movie è un film girato esclusivamente con una sola macchina da presa senza tagli di montaggio dall’inizio alla fine. Questo per dire che tutta la storia si svolge continuamente, senza interruzioni, e che per qualsiasi piccolo errore si deve ricominciare da capo.
Il nostro corto durava quattro minuti. Sapete quanto ci abbiamo messo per girarlo? Nove ore.
Ora, a fronte di questa piccola introduzione – tenendo anche conto che Nicklas e io non siamo professionisti e che l’abbiamo fatto in pieno giorno in una zona nemmeno troppo centrale di Copenhagen – provate a immaginare cosa possa aver significato per Schipper, Grøvlen e compagnia bella, dirigere un one-shot crime drama di 2 ore e 18 minuti all’alba in un quartiere di Berlino incentrato su una ragazza spagnola di nome Victoria che si trova semi-involontariamente coinvolta in un progetto portato avanti da quattro ragazzi del posto. (Non vi anticiperò altro).
Fatto?

Sono di parte, in quanto sfide fotografiche del genere mi fanno venire la pelle d’oca solo a sentirne parlare, lo ammetto.
Se dovessi essere anche un po’ critico direi che la storia non mi ha entusiasmato più di tanto, che ci sono un po’ di buchi narrativi qua e là, che a tratti non regge e alcuni personaggi sono poco credibili – certo, se Pirandello o Brecht fossero ancora vivi loro sì che saprebbero cosa fare!
Posso anche buttare giù un «Che finale improbabile».
Ma se penso alla fotografia… mi viene da rabbrividire.
Se penso alla musica, composta da nientemeno che Nils Frahm, musica che qui svolge una funzione archetipale di deus ex machina, quasi ritorno afono dall’emozione (Nils Frahm, un dio tedesco dell’elettronica che quando il sottoscritto ha visto/sentito live non è più riuscito a proferire parola dallo stupore per il paio d’ore successive).
Se penso alla recitazione (e qui salvo quasi solo Frederick Lau) mi ritornano i brividi.

Victoria è un film fatto e finito, con un potenziale immenso e l’unica sfortuna di aver avuto tre scrittori – lo stesso Schipper, Neergaard-Holm e Schulz, al loro primo copione – colpevoli di scarsa concentrazione nel riempire quelle lacune sceneggiatoriali che hanno degradato un prodotto potenzialmente ottimo a “must-see”. Purtroppo.
In ogni caso, lacune o non lacune, io consiglio di reperirlo e di vederlo.
Non sarà un’esperienza così intensa come quella che avreste potuto avere al cinema, perché Victoria è un film che va visto su grande schermo con Nils Frahm in Dolby Surround e Lau in 1080p. Su questo non si discute.
Tuttavia, Pirandello e Brecht non ci sono più.

Fabio Greg Cambielli

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