Cari amici di GiovaniBarnabiti,
non ne avrà male Enzo Bianchi se pubblico il suo articolo, I giovani non sono il futuro, ma il presente, alla conclusione della scorsa GMG, credo sia un ottimo spunto di riflessione per tutti noi.
Da anni i più attenti conoscitori del mondo giovanile vanno ripetendo che siamo di fronte a un cambiamento radicale nella difficile arte di trasmettere alla generazione successiva i principi ritenuti fondamentali per affrontare il duro mestiere di vivere e di vivere in società. Non solo perché sono crollate le ideologie e i sistemi sociali che ad esse si ispiravano, ma ancor più perché alla consueta diffidenza che ogni generazione nutre per il patrimonio di valori che quella precedente ha da trasmettere, si è aggiunta la convinzione che non c’è più nemmeno un patrimonio da ricevere: la cultura globalizzata dominante sembra affermare che il mondo inizi sempre da capo, che l’umanità non possieda capisaldi condivisi, che una scelta equivalga all’altra e che domani si possa «rottamare» quello che abbiamo acquisito oggi.
Del resto è significativo che alla consueta e magari stantia domanda rivolta ai ragazzi – «cosa vorresti fare da grande?» – la risposta non consista ormai più nell’uno o nell’altro mestiere o professione bensì in un sempre più maggioritario e tragicamente uniforme: «Vorrei avere molti soldi per fare ciò che mi piace».
In questo contesto, cosa dire alle decine di migliaia di giovani cristiani che si ritrovano in questi giorni in Polonia all’indomani di un’impressionante serie di stragi in tutto il mondo culminate, per noi in Europa, con il brutale assassinio di un anziano prete da parte di due loro coetanei?
Cosa rispondere a quanti di loro di fronte al male nel mondo si chiedono, come ha fatto papa Francesco ad Auschwitz, «dov’è Dio?» «Dio abita dove lo facciamo entrare», risponde un detto chassidico, ed è una verità che per i cristiani ha preso carne in Gesù di Nazareth, venuto tra i suoi e accolto solo dagli ultimi. D’altro canto, la domanda lancinante ne genera da sempre un’altra, ancor più decisiva per noi: «Dov’è l’uomo?». Dov’è l’umanità quando altri esseri umani la calpestano e la negano? Dov’è l’uomo quando il grido del povero è soffocato nel sangue?
Allora ai giovani si potrebbero suggerire alcune indicazioni di senso o, meglio, qualche traccia che loro stessi dovrebbero trasformare in sentiero verso una pienezza di vita.
La prima, forse decisiva, è che, a prescindere dagli entusiasmanti raduni oceanici, non esistono «i giovani», esiste ciascuno e ciascuna di loro e, accanto a loro, quella rete reale e non virtuale di rapporti umani intessuti tra coetanei e non, affini o meno. E che in questo tessuto – che possiamo chiamare società o comunità umana – ogni persona è lì, con la sua unicità che, se non è messa e custodita in una relazione di solidarietà e comunione, muore per asfissia. Ciascuno è lì con la propria responsabilità, la capacità di rispondere alle sollecitazioni che l’altro gli pone, con la consapevolezza che da ogni gesto, parola, azione può derivare la vita o la morte di chi ci sta accanto. La seconda, a prima vista deludente, è che non è vero che ai giovani appartiene il futuro, essi non sono «il futuro» della società o della chiesa: sono parte attiva del presente che appartiene a loro come a tutti. Sta anche a loro far sì che, a partire da questo presente, si creino le condizioni affinché ciascuno abbia la possibilità di vivere con dignità, già ora e poi anche in futuro.
Pensavamo che per far questo potessimo lasciar perdere i grandi sistemi di pensiero, religiosi o no, e rifugiarci in un quotidiano plasmabile e riplasmabile a nostro piacimento, ma da anni la violenza qui in Occidente mira a colpire lo scontato delle nostre esistenze, i nostri piccoli o grandi interessi personali.
Va quindi recuperata la grandezza dello stare insieme per libera scelta consapevole, la difficile bellezza della convivenza stabile, la durata dei rapporti, la fedeltà che implica fiducia, la volontà di edificare insieme la casa comune.
Non sono impegni solo per i giovani, sono sfide che attendono tutti e che anzi richiedono una forte fraternità intergenerazionale: abbiamo tanto insistito in questi ultimi decenni sul valore della libertà – isolandolo da ogni altra istanza etica e declinandolo come licenza arbitraria priva di ogni limite – e siamo così giunti a non saper più che farcene perché abbiamo dimenticato l’uguaglianza vissuta non come livellamento al basso ma come autentica fraternità, come legame tra persone che non si sono scelte eppure condividono l’origine, la casa, il cibo e magari anche i sogni e il futuro. Sapremo, adulti, anziani e giovani, ricominciare insieme la meravigliosa, esigente avventura dell’umanità riconciliata?
La Stampa, 31 luglio 2016