Nel 1970 veniva premiato col David di Donatello come “Miglior film” Il conformista di Bernardo Bertolucci. Vent’anni dopo, nel 1990, Porte aperte (Gianni Amelio).
E qualcosa nell’aria stava cambiando, dunque. In peggio.
Nel 2016 si aggiudica il Primo titolo nientemeno che Perfetti sconosciuti, l’ultimo lungometraggio di produzione italiana firmato Paolo Genovese – stiamo parlando del Paolo di Immaturi – Il viaggio (2012) e Questa notte è ancora nostra (2008). Proprio lui…
Quando un film ha qualcosa da raccontare, ovvero quando ha un messaggio da “consegnare”, è allora che la settima arte adempie alla sua funzione originale di medium. Ci si libera da ogni censura sociale e si va oltre, trattando di temi che possano in qualche modo arricchire lo spettatore.
Lo facevano Antonioni e Godard, Fellini e Rivette, Argento e Altman… lo facevano i registi che hanno sempre avuto qualcosa da “dire”, qualcosa da “raccontare”.
E lo facevano perché i tempi lo richiedevano: si parlava di “schizofrenia borghese” (Il deserto rosso, Michelangelo Antonioni, 1964) e di “presunzione marxista” (La chinoise, Jean-Luc Godard, 1967); si filmava di “dopoguerra giovanile” (I vitelloni, Fellini, 1953) e “magico realismo” (L’amour fou, Jacques Rivette, 1969); si arrivava perfino a “sfidare” le compagnie farmaceutiche (Il gatto a nove code, Dario Argento, 1971) e i sei gradi di separazione (Nashville, Robert Altman, 1975).
Fare un film era un “work in progress”, un’opera sulla quale si ragionava il più a lungo possibile perché le chances che venisse cassata dalla critica e dal pubblico erano parecchio più alte di adesso – sembra che si sia perso quello spirito critico necessario a rendere un film “memorabile”. E non mi rivolgo esclusivamente a lavori italiani.
Il trend che sembra più di moda oggi è quello di creare storie con il solo intento di stupire, divertire, intrattenere; di suscitare le emozioni e reazioni basiche che sembrano definire le masse. E non c’è nulla di male in questo, per carità, non sto dicendo che si debba solo trattare di marxismo o borghesia!
Penso però che mettere insieme sette attori – bravi e mediocri – attorno a un tavolo e farli blaterare su un qualsiasi stereotipato preconcetto passato poi per “nuovo” e “originale” sia un approccio sbagliato – un modo scorretto di raccontare una storia.
Il concetto cardine da cui parte Perfetti sconosciuti è: cosa succederebbe se una sera a cena con gli amici di sempre, si decidesse di scomodare gli smartphone dalla privacy delle tasche dei nostri pantaloni, metterli sul tavolo e fare outing leggendo i messaggi ricevuti – per tutta la durata del pasto – ad alta voce e rispondere alle chiamate con il vivavoce?
L’idea di per sé è carina, no? Voglio dire, non è per niente fresca e si sa dove voglia andare a parare sin dal primo minuto, ma incuriosisce.
In questa storia, però, ci si aspetta che i “segreti” siano qualcosa di più che quattro stupidaggini taciute per quieto vivere.
Posto che sia possibile in una coppia o fra amici tacere di tette finte, psicanalisi e ospizi, quello che rende due persone sconosciute fra di loro non sono corbellerie da adolescenti, ma veri e propri lati oscuri nascosti sotto la superficie di un’intimità che si dipinge come “normale”: sono manie morbose e inconfessabili che trasformano e trascendono la comprensione umana.
È quello su cui hanno sempre sperimentato Hitchcock o Haynes, etichettabili come i portavoce – odierni e di ieri – di storie dai personaggi fragili e impuri, schiacciati dal peso della società e costretti a crearsi alter ego adatti.
Genovese & Co., ahimè, ci propongono un’apparenza di film impegnato, ma in realtà ne tengono basso il profilo sociale. Fast food, ma senza scivolare nel cibo spazzatura.
Non mancano riferimenti a una società che il caro Paolo descrive come corrotta e corruttibile, edificata su tette finte e omosessualità repressa, padri emancipati, internet, social network… e ovviamente immancabili tradimenti. Tradimenti in lungo e in largo. Ma attenzione: guardandone solo il lato peccaminoso; mai le ragioni, le sofferenze, i disagi, quelli no!
Affidandosi a facili cliché, scontati e bacchettoni, Genovese racconta una storia distante dai problemi reali di oggi, piena di preconcetti e scene già viste, confenzionata in una fotografia abbastanza scarna ma un montaggio perlomeno ritmato.
Non condivido il consenso generale che è stato dato a questa pellicola.
Non ne condivido né la forma, tantomeno il contenuto.
Non ne condivido la recitazione, teatrale e asciutta (forse salverei le performance di Battiston e della Rohrwacher in extremis).
Perfetti sconosciuti è esattamente come certi cibi industriali che hanno la pretesa di ricordarci la cucina casalinga. Li compriamo ugualmente, ma li consumiamo scordando che sono precotti e congelati, e che assomigliano a qualcosa di commestibile grazie a coloranti, esaltatori di sapidità e conservanti, per niente sani e dannosi in fondo.
Fabio Gregg Cambielli