Estate 1983: tra le province di Brescia e Bergamo, Elio Perlman, un diciassettenne italoamericano di origine ebraica, trascorre le giornate con i genitori nell’ereditata villa del XVII secolo leggendo Stendhal, suonando Bach e nuotando nel fiume sotto il soffocante sole di Agosto. Gli ispiratori lontani sembrano Jean Renoir e Éric Rohmer e più che La regola del gioco, La scampagnata e Pauline alla spiaggia sono l’archetipo dell’ultimo lungometraggio del regista, con la natura che diventa metafora di una modernità fatta di attimi fuggenti.
L’atmosfera bucolica cambia quando li raggiunge Oliver, un dottorando ventiquattrenne che lavora con il padre di Elio, docente universitario; e dal primo sguardo, da quel primo: “Dopo.”, Elio ne rimane turbato, non osa corteggiarlo, pur rimanendone attratto. Ma dal momento in cui Oliver si fermerà per solo sei settimane le ore sono contate, dovendo volente o nolente abbandonare al futuro ciò che verrà costruito dai due durante la loro vicinanza. E nonostante sia un tema relegato ai minuti finali del film, quello della perdita è il fil rouge di Chiamami col tuo nome, più lampante e tangibile che in ogni altra pellicola di Guadagnino anche perché, diciamocelo fuori dai denti, mai film di Guadagnino fu degno di recensione… Che si parli di morte, di cordoglio, o di abbandono – spesso sottostimato rispetto ai primi due, ma catalizzatore di un malessere interiore pari a quello provocato dalla morte stessa –, il dolore lacera i tessuti e apre piaghe a volte impossibili da risanare: prosciuga la ricchezza del sangue, il congegno degli organi, la corona dei sogni, chiude le ali alle chimere della fantasia…
C’è un “però”, tuttavia, e quel però non potrebbe essere chiarito meglio che da D’Annunzio ne Il piacere – seguitemi un attimo, non è uno show-off, non sto citando a caso, prometto:
«La convalescenza è una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male; e non mai l’anima umana [è] più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della morte. Comprende l’uomo, nel guarire, che il pensiero, il desiderio, la volontà, la coscienza della vita non sono la vita. Qualche cosa è in lui più vigile del pensiero, […] ed è la sostanza, la natura dell’essere suo. Comprende egli che la sua vita reale è […] il complesso delle sensazioni involontarie, spontanee, incoscienti, istintive; […] è l’impercettibile sviluppo di tutte le metamorfosi e di tutte le rinnovellazioni.»
È questo il miracolo della convalescenza: la maturazione attraverso il dolore, la purificazione grazie alla perdita. La perdita di un parente, di un amico; la perdita di Elio e Oliver. E, come Andrea Sperelli esattamente un secolo prima, il vero problema sta nel fatto che Elio questo amore lo ha perso esattamente prima di aver realizzato quanto fosse autentico, provocando dunque un dolore così profondo che solo la fine di «amori naturali» possono causare.
«Chiamami col tuo nome e io ti chiamerò col mio…» rappresenta anche una vera e propria dichiarazione di volontà di fusione con l’altro: l’“altro” che diventa “io”, l’“altro” di Merleau-Ponty nel quale ci si riconosce a tal punto da diventare una cosa sola. E in una cosa sola si trasformano i due lentamente, seguendo i pacati ritmi dell’afosa campagna lombarda, scanditi da giri in bicicletta, musica e pagine di libri. Tanti libri.
Il loro avvicinarsi prende forma in maniera naturale e spontanea, come il lungo scorrere dell’acqua che dopo numerose deviazioni e ostacoli all’improvviso si fa cascata e si manifesta in tutta la sua forza e bellezza. Questo è l’amore tra Elio e Oliver, una forza della natura che nulla può davanti alla paura se non sbocciare delicatamente, irrimediabilmente. Un amore non contro natura, ma formato dalla natura stessa.
Le loro menti si innamorano prima dei loro corpi e questo fa si che un semplice tocco di mano, una carezza sfiorata, una frase soffocata, e infine un abbraccio possano diventare la massima espressione del desiderio e della passione.
E dove il sesso e l’orientamento sessuale passano in secondo piano davanti a un sentimento che sfida e vince ogni tipo di pregiudizio e paura. E che sceglie di parlare e di non morire.
Se siano meritate le quattro nomination agli Oscar o meno rimando a pareri più esperti del mio. Ma di certo c’è che Chiamami col tuo nome ha lasciato un segno, se non indelebile, nel panorama LGBTQ cinematografico contemporaneo, dettando un nuovo modo di raccontare una storia, scevro da ogni pregiudizio o stereotipata rappresentazione di una naturalità alla quale ognuno di noi si approccia dai tempi dell’adolescenza.
«Raramente sappiamo ciò che possiamo diventare per gli altri attraverso il nostro essere. Dobbiamo rassegnarci a questo. […] Tra due persone accade che talvolta, assai raramente, nasca un mondo. Questo mondo è poi la loro patria, era comunque l’unica patria che [Elio ed Oliver] era[no] disposti a riconoscere. Un minuscolo microcosmo, in cui ci si può sempre salvare dal mondo che crolla.»
Fabrio Greg Cambielli