Benvenuti a Pandora, mondo nuovo dove le montagne fluttuano, effetto Magritte e Miyazaki, anno 2154, più che un «paradiso terrestre», una terra promessa per un pianeta che si è autodivorato. Avatar è una seconda Genesi piuttosto che la contrapposizione fra l’isola dell’armonia, del «buon selvaggio», e la civiltà atrofizzata delle macchine. Non c’è paradosso in un film che esibisce la massima potenza tecnologica e contemporaneamente prende le parti di un universo «primitivo»: la luna della costellazione Alfa Centauri è un luogo post-umano, sapiente sintesi di corpo e mente, rete neurale che interconnette la vita. Il panteismo new age, sconvolgente per i devoti, è solo un’apparenza, i filamenti luminescenti dell’«albero sacro» del popolo Na’ equivalgono a un sistema nervoso collettivo, la conoscenza che corre su cavi elettronici.
Avatar corrisponde alla sua ambizione transepocale, è la forma stessa della fusione tra analogico e digitale, si costituisce come superamento dell’uno e dell’altro, è un pianeta-film ibrido per corpi ibridi. Né umani né alieni.
La forza di gravità del kolossal di James Cameron ha già attratto milioni di abitanti virtuali, spettatori sull’orlo del suicidio pur di dematerializzarsi e assumere il dna degli abitanti di Pandora. Il successo del film dice la follia politico-esistenziale degli orfani di questa Terra, e il radicale e spasmodico desiderio di cambiare mondo, se il nostro non è più riformabile. Ansia di metamorfosi.
Un successo che suona l’allarme per i columnist intergalattici, i «moderatori» dell’immaginario, scesi numerosi sulle colonne dei giornali per imbrigliare le pulsioni violente del pubblico di massa, e pronti a denunciare l’estremismo infantile di Avatar. Per ristabilire l’ordine (ir)reale costituito e riconfermare il loro status di sentinelle della cultura, ricorrono a concetti come “stereotipo”, “favola”, “manicheo”, che detto per il cinema, con disprezzo, fa ridere. Decodificata da almeno un secolo di visioni, la narrazione simbolica ha i suoi linguaggi ed eroi, i suoi rimandi alla memoria collettiva. Le armi spuntate dei centristi non avranno la meglio, ma se è giusto «spaventarsi» davanti ad Avatar, è meglio recuperare la capacità di «vedere». Anche con i molesti occhialetti 3D.
Gli «stereotipi» dichiarati del film compongono un’opera che cambia la percezione sensoriale, e fa di ogni spettatore un perfetto avatar, un «doppio», oltre il processo di identificazione, proprio come accade a Jake Sully (l’australiano Sam Worthington), mix di cellule umane/aliene, trasformato da marine paraplegico in na’vi, creatura gigantesca e azzurra, per entrare in contatto con gli aliens e convincerli a sgomberare dall’albero-casa, sotto cui si nasconde il prezioso unobtanio. Essere l’altro e rimanere se stessi.
Apocalypse Now, Un uomo chiamato cavallo, Balla coi lupi, New World… l’epoca stellare fa appello alla mitologia americana ma l’incontro di Neytiri alias Pocahontas, l’amazzone extraterrestre dagli occhi gialli felini, con John Smith alias Jake Sully, il colonizzatore, cambia segno. Non è l’innocenza a incontrare il saccheggiatore, il bianco avido del minerale marziano per la terra a secco di energia, non la nostalgia della natura incontaminata, ma un’istanza fondante di una nuova civiltà. La velocità dell’impalpabile, alberi e rocce bioluminescenti, superfici inanimate scosse da fremiti e luci cangianti, un territorio mobile, i semi del salice piangente, anima di Pandora, che volteggiano nell’aria, trasparenti meduse informatiche… Ogni cosa è un ingranaggio di un congegno complesso, preistoria futuribile con i giganteschi animali modificati da organismi conosciuti, pantere «grandi come motrici di tir», Thanator; cavalli con la criniera d’osso e le antenne vibranti da falena, Direhorse; il cane nero dalle striature vermiglie modellato sugli incubi di Francis Bacon, Viperwolf, tutti a sei zampe. Si vedrà come le frecce e gli archi dei nativi, a cavallo del manta-pipistrello Banshee, saranno potenziati dalla scesa in campo del pianeta stesso, cervello unico in movimento, «bomba intelligente» e superiore all’archeologia robotica dei colonizzatori che trascina gli uomini in una precedente guerra asimmetrica.
Molto disneyano l’inchino docile del mega-rinoceronte distrutto davanti alla svettante Neytiri, mentre anche il «drago» Leonopteryx, un uccellaio predatore dai colori sgargianti, ispirato all’aquila simbolo degli Usa, mai montato se non da semidei, si presta a far da cavalcatura al marine traditore della sua specie.
Comprensibilmente, la destra Usa se n’è lamentata e ha bollato il film come un-american. Sì, perché Jake Sully, infiltrato tra gli alieni alti tre metri, capelli rasta, abiti piumosi imperlati, un po’ Apache un po’ Maori, sceglierà il suo avatar per lottare contro il colonnello Miles Quaritch, feroce e pazzo come il Robert Duvall di Coppola, quello che al suono della Cavalcata delle Valchirie (il modulo di Quaritch si chiama Valchiria) sganciava napalm sulle foreste vietnamite.
La tridimensionalità del film crea una spazialità da vertigine, ma non è il cielo, è l’acqua che avvolge lo sguardo, Pandora è Atlantide, un pianeta liquido, abissale come il cinema di James Cameron, sempre attratto dalle profondità oceaniche di Titanic. E se nel kolossal di tutti i tempi (mai battuto al box office, forse da Avatar stesso), diretto dodici anni fa dal regista, si affondava con tutto il bagaglio del vecchio mondo, qui si rinasce nelle sembianze disumane di Jake Sully. La performance capture (sensori applicati al volto e al corpo) permette agli attori di recitare come a teatro e mantenere gesti ed emozioni nella figura trasfigurata dell’avatar.
Jake incontra Neytiri, materia e antimateria, perversione di carne e pixel, e il bacio contronatura segnerà alla fine l’azione del trasmutare, che dà, usciti dalla sala, la stessa sensazione espressa del marine quando, tornato umano, si sveglia nella sua capsula di collegamento.
Avatar è la realtà, e questo è il sogno.
Fabio Greg C.