Che Lars von Trier sia una delle menti cinematografiche più geniale e sofisticate del panorama contemporaneo, non c’è dubbio.
Che in poco meno di vent’anni abbia sfornato alcune tra le più premiate, contestate e discusse pellicole dell’ultimo secolo, non c’è dubbio (anche perché sta nero su bianco).
A mo’ di sillogismo aristotelico si potrebbe affiancare Lars von Trier al cinema, come Albert Einstein alla fisica o Natalia Ginzburg alla letteratura italiana del secondo ‘900. E di accostamenti simili se ne potrebbero fare ancora molti: ma certamente sarebbero pochi quelli pronti a reggere il confronto.
Lars von Trier è una cometa, un bagliore di ghiaccio e metallo che vaga nel Sistema Solare rischiarando attorno a sé il buio artistico di cui è circondato. Tuttavia una cometa non è altro che una stella morente, che ha inizio nella sua fine, pronta a spegnersi a poco a poco, e ritornare buia nella vastità della materia di cui è prigioniera.
Paragonare von Trier a una cometa mi sembra adatto più che mai, specie in luce del suo ultimo lavoro cinematografico: La casa di Jack (The House That Jack Built per i cinefili esterofili).
Visto in un cinema della capitale danese insieme a un amico, ne sono uscito due ore dopo con lo stomaco in subbuglio, una grande quantità di domande in testa e parecchi ripensamenti tra le mani – sì, ripensamenti tangibili.
USA Anni ’70: la storia parte con-e-da Jack, un uomo sulla quarantina, che seguiamo nel corso di quelli che lui definisce cinque “incidenti”: cinque dei suoi omicidi. Eh sì, perché Jack è un serial killer.
La storia viene raccontata omodiegeticamente (in prima persona dal regista) a focalizzazione interna, dal punto di vista di Jack, frenetico e bipolare, e si dipana tra le teorie del perché e del per-come gli omicidi vadano ritenuti opere d’arte concluse in se stesse, e sgozzamenti vari. E qui spezzo una lancia in favore di von Trier che, anche se con qualche sbavatura qua e là, scrive un soggetto e una sceneggiatura in maniera ineccepibile.
Jack espone queste teorie a un acousmêtre, una figura fuori campo di nome Verge (che sia il verge = “limitare” tra la sanità mentale e la pazzia? Molto probabile), che non sentiamo né vediamo, ma che sappiamo essere una figura (im)portante nella mente di Jack. Quell’acousmêtre siamo essenzialmente noi, il pubblico; senza che però la quarta parete venga mai sfondata. E questo è il tocco di classe del regista: la sospensione del dubbio viene attuata laddove lo sguardo in camera non avviene mai, nemmeno una volta (guarda e impara, Bradley Cooper!, che con A Star is Born ti sei guadagnato il titolo di regista meno capace di Hollywood).
Per dare una lettura a questo film, però, è necessario fare un salto indietro di circa dieci anni, al 2007, quando a Von Trier e a una trentina di altri suoi colleghi venne chiesto di girare un cortometraggio in occasione del 60esimo del Festival di Cannes legato all’idea di cinema.
Il regista danese immaginò se stesso a una prima del Festival di un suo film con accanto uno spettatore americano che, dopo aver continuamente disturbato la visione con suoi commenti ad alta voce, gli chiedeva che lavoro facesse e Lars, imperturbabile, rispondeva: “Uccido!”. Estraeva un’ascia e gli spaccava la testa per poi riprendere a vedere il suo film.
E “Io uccido” è la stessa frase che pronuncia il nostro Jack a un certo punto del film, in un’esternazione che vorrebbe essere liberatoria ma che si dissolve nei gangli nervosi del suo cervello, contribuendo a definire l’immagine nevrotica di sé stesso, un ingegnere che avrebbe voluto essere architetto, fallito e apatico – e qui la lancia in favore del caro Lars non la spezzo, perché reitera uno dei cliché più gettonati della storia del cinema horror.
Von Trier, come Jack, qui si sdoppia, desideroso di essere architetto e ingegnere dell’esistenza al tempo stesso – così come in Melancholia finiva con il riconoscersi nelle due protagoniste (una razionale e l’altra umorale), qui si va a cercare in entrambi. Ahimè, però, fallendo.
Come il negativo della pellicola rappresenta per lui il lato oscuro della luce (chi ha visto il film capisce a cosa ci si sta riferendo), così da sempre con i suoi film ci si spinge a scandagliare quell’oscurità che si nasconde nell’animo umano, e che a volte si ammanta di quella razionalità perversa pròdroma dei crimini di massa più efferati dell’umanità – rimangono ovvi senza citarli.
L’arte può esprimersi nella sensibilità di un Glenn Gould come nell’estetica delle rovine di Albert Speer, ma quando si traduce in corpi in decomposizione non c’è paragone con la vanificazione che tenga; Von Trier, come sempre, non ha mezze misure: ci mette davanti all’orrore, al sangue, alla putrefazione della carne. Fa uccidere donne da un Jack-Matt Dillon spaventosamente bravo, per poter ironicamente rispondere ai commenti di chi lo legge come un misogino all’ennesima potenza; facendo propria la lettura sartriana dell’esistenza, implicitamente, citando il finale di A porte chiuse con quel “L’inferno sono gli altri” che viene esplicitato nella sequenza in cui Jack chiede esplicitamente a una sua vittima di gridare per ricevere aiuto.
C’è questo e molto altro (finale compreso) in un film che però fa risuonare un campanello d’allarme: Von Trier rischia di diventare il manierista di se stesso; le citazioni colte, il divertissement con i cartelli sorretti da Dillon e lo stesso uso della camera a mano ricalcano, senza davvero innovarlo, il già visto. Le pur sempre stimolanti ‘case’ che Lars costruisce sullo schermo abbisognano di materiali nuovi e vivi per poter sopravvivere e non spegnersi, come una cometa nel Sistema Solare.
Fabio Greg Cambielli, Coopenaghen