Ragazzi falliti o persone in crescita?

Buon giorno Giuseppe,
ma precisamente con chi sto parlando?

Sono Giuseppe Fornari, della “fondazione aquilone” che lavora con e per ragazzi e adolescenti con meno fortune di altri. A Milano, quartiere Bovisa / Comasina.

Quindi svolgi un lavoro sociale. Come è percepito da tuoi coetanei? Nel senso che non è proprio un lavoro da … carriera.

La difficoltà più grossa e far capire che è un lavoro, non un tempo perso, ma anche le famiglie capiscono dopo il suo valore, quando vedono quello che frutta sui loro figli!

Come ci sei arrivato?

Attraverso percorsi di fede e di servizio civile e poi una formazione che non è solo improvvisazione.
Tu lavori con ragazzi, adolescenti e giovani che poi sono una invenzione della nostra società, perché una volta si passava da bambini ad adulti!

In breve chi sono questi ragazzi, adolescenti, giovani?

Vedi, una fase intermedia tra bambino e adulto è importante anche se oggi è troppo. Mio papà a 11 anni andò a lavorare!
Questi adolescenti sono persone in crescita, in cerca del proprio posto nel mondo. Si affacciano e cercano di capire la società di oggi, impresa non facile perché è una società confusa, senza modelli chiari.
Fino a qualche anno fa era più facile scegliere tra bianco e nero, oggi no; è importante
essere affiancati nelle scelte.

Perché esistono situazioni periferiche, dimenticate?

Forse perché uno dei modelli occidentali prevede solo il primo posto, non il secondo; talent show in cui si deve vincere perché chi arriva secondo non vale. Se non arrivo al massimo non valgo nulla. Non si capisce che ognuno ha un suo massimo!
Abbiamo percorsi con ragazzi normali e disabili, in cui i normali sono già esclusi dalla classe! Dai docenti stessi.
Se si è già esiliati alle medie come possono arrivare all’età adulta.
Se non si può avere il minimo, per esempio un pc per sé e non diviso tra uno o più fratelli, in un ambiente bello. Molti dei collegamenti erano solo audio per paura di far vedere la propria casa. A scuola almeno sei sullo stesso banco, c’è una maggiore uguaglianza.
Noi non possiamo aiutare in tutto, però almeno dare delle luci differenti, delle occasioni più umane.
La chiusura ha tenuto tutti sotto una pressione faticosa ingestibile anche senza volere.
Come hai trovato questi “tuoi” ragazzi dopo tanti mesi di lontananza?
Li abbiamo trovati desiderosi di riprendere a stare insieme. Non gli bastava più il cellulare per comunicare: ce ne siamo accorti sia durante la chiusura sia ora. Abbiamo bisogno di corpi.

Sai indicare alcuni valori, non dico irrinunciabili, ma quasi?

L’amicizia, persone cui poter confidarsi, coetanei o altri.
La famiglia.
Ma molti ragazzi di 3 media pensano solo ai soldi, a diventare ricco, per avere amici. Forse i più grandi ci pensano meno, ma in terza media…
Hanno una idea di Dio, di una fede in Gesù come possibile compagno di viaggio o le prospettive vanno altrove?
Quelli che seguiamo noi, come possono credere in Gesù se nessuno glielo annuncia? Nessuno parla più a loro di Dio. Io ci ho provato. Sono molto immanenti: chi se ne frega? Basta che me la cavo, perché Dio dovrebbe preoccuparsi di me e io di lui.
Forse gli abbiamo chiuso i cancelli come Chiesa, coltiviamo le pecore dentro ma quelle fuori…

Cosa condiziona, nel bene e nel male, maggiormente questi giovani?

Terribilmente il cellulare dal quale conoscono e pensano il mondo.
Il nostro lavoro è aiutarli a lasciarsi condizionare dalle persone che pensano a loro, non da degli estranei… Se trovano una persona che li ascolta si lasciano … condizionare. I giovani sono fantastici su questo capiscono la differenza…
L’orientamento scolastico poi li e ci massacra: prima c’era il gruppo adolescenti ora ci sono gli adolescenti uno per uno…
Un lavoro personale aiuta assai e fa vedere il meglio.

Questi ragazzi, adolescenti, giovani sanno di passare da una fase infantile a una adulta?

Sanno che devono passare, ma a quali condizioni? Cosa li aiuta? I genitori sono disponibili che i figli crescano?
Hanno il desiderio di autonomia e libertà di farsi una strada però oggi è più complesso, oggi fallire significa sentirsi un fallito, non uno che ha inciampato. Abbiamo bisogno far conoscere loro dei fallimenti.

Il loro idolo preferito

Sicuramente qualche rapper, ma è un modello da scardinare perché bisogna sbattersi in quello che si fa, non si può credere che tutto sia così semplice… il soldo facile, gli influencer.

Ti senti un poco loro idolo?

Si, ma non io, noi come educatori. Ti fanno capire che sei importante per loro. Che hanno bisogno di te, ma facciamo attenzione al rischio di sostituirsi a loro.
Se vuoi loro bene, loro lo capiscono. Sempre.
È una bella sensazione ma anche un grande peso!

Grazie Giuseppe, buon lavoro.

Ritratto della giovane in fiamme

Non ho intenzione di girarci troppo attorno: Ritratto della giovane in fiamme è un film che ho aspettato per molto, tanto tempo. Da quando ha vinto la Migliore sceneggiatura e il Queer Palm a Cannes nel maggio del 2019, la macchina dell’hype è entrata a pieno regime e tutto quello che ho potuto fare è stato aspettare pazientemente che questo gioiello raggiungesse i grandi schermi danesi. Fastforward a febbraio 2020 e molti premi e nomination più tardi, è stato finalmente il mio turno di vedere di cosa si trattasse.

Ambientato ai confini di una remota Bretagna alla fine del XVIII secolo, la storia si concentra su Marianne (Noémie Merlant), una pittrice incaricata di produrre segretamente un ritratto per un soggetto che non lo vuole, una giovane donna di nome Héloïse (Adèle Haenel). Con il ritratto destinato a un fidanzato indesiderato, Héloïse ha rifiutato i lavori dei pittori precedenti e Marianne ha il compito di crearne uno che possa andare bene questa volta. Impostata questa premessa nei primi 15 minuti, la narrazione esplode in una vetrina colma di tensione, di sguardi nascosti e rubati, di un’alchimia tra due donne che raggiunge un livello quasi insopportabile – in un’accezione estremamente positiva – prima che l’inevitabile esploda per alterare per sempre le loro vite.

Non riesco a ricordare l’ultima volta che sono stato così fortemente preso da un film. Una pellicola con appena cinque personaggi parlanti e estremamente minimalista nel suo approccio, si afferma assolutamente irresistibile. Dalle piccole dimostrazioni di amicizia e compagnia femminile ai dialoghi su interessanti questioni femministe rilevanti oggi come lo erano nel 1700, Ritratto ci va giù così pesante in maniera così garbata e tranquilla da lasciarmi parecchio sbalordito dal suo impatto. Un dramma queer reduce da Cannes di enorme successo e consensi, l’ultimo lavoro di Celine Sciamma si trasla sul grande schermo come un racconto parsimonioso e intenso, senza intaccare la sensualità e l’erotismo dell’immagine stessa. Sembra infinitamente più intimo e reale di ogni previo dramma lesbo, forse per le differenze che rimarca tra la sensibilità cinematografica e lo sguardo di un uomo etero (Abdellatif Kechiche) dietro la macchina da presa a fronte della regista omosessuale.

Proprio come un altro straordinario film in lingua straniera dell’anno scorso, Parasite, Ritratto sembra un’immagine che rivelerà qualcosa di nuovo di zecca a ogni singolo rewatch. Tutto ciò che riguarda la composizione e l’esecuzione di ogni fotogramma sembra stratificato, deliberato da menti esperte, e la passione trasuda da ogni fotogramma.
Da vedere!

Fabio Greg Cambielli, Copenaghen

Aborto?

L’aborto, ovvero l’interruzione della gravidanza attraverso la rimozione del feto, è una pratica molto discussa nel nostro Paese in quanto risente molto la presenza del Vaticano, da sempre contrario perché contro il pensiero cristiano. L’aborto è regolamentato dalla legge italiana dal 1978 purché avvenga entro i primi 90 giorni di gravidanza. Nonostante ciò, ciclicamente si continua a parlare di questo in TV, sui Social e ci si dimentica spesso che è un diritto del cittadino. Si ascolta sempre più frequentemente di donne e ragazze che vengono torturate psicologicamente prima di procedere con l’atto di aborto. Chi decide cosa è corretto o meno fare? Non penso che una persona abbia il diritto e il dovere di decidere per un’altra senza conoscere nemmeno la storia che ci sta dietro. Semmai l’unica cosa che può fare è ascoltarla e, solo dopo, dare un suo parere e consiglio personale.
Prendere la decisione di abortire non è mai facile. È una scelta che viene presa, in teoria, consultando il compagno e i propri parenti. Poi i medici. Se però una donna arriva a pensare di abortire vuol dire che il problema sta a monte. Come mai rifiuta di diventare mamma e non vedere mai quello che sarebbe suo figlio? Ci sono tanti motivi di gravidanze inattese. Tra questi possiamo suddividerli in 3 macroclassi: quelli che riguardano lo “stupro”, successivamente quelli che riguardano “l’inconsapevolezza della ragazza” e poi quelli della “casualità del fatto”.
Per quanto riguarda il primo, oggigiorno sono sempre più i casi di uomini (se si possono definire tali) che con la forza usano le donne per puri piaceri sessuali. In questo caso come non comprendere la giovane donna nel voler abortire? Che vita avrebbe il futuro figlio senza padre e nato da una relazione non voluta? Non si tratta di essere egoisti, bensì di pensare al prossimo per fargli vivere una vita più normale possibile. Lo stesso se si pensa a relazioni clandestine di ragazze che, dopo una serata allegra, rimangono incinte.
Infine, arriviamo all’ultimo punto, forse quello più delicato. Può succedere che pur avendo copulato in modo protetto la ragazza rimanga incinta. Lo dice la scienza. In questo caso cosa fare? Be’ come ho detto prima, non sono nessuno per dire quello che bisogna fare e la decisione che è corretta prendere. Penso che sia bene parlarsi tra coniugi e valutare le circostanze. Alcune domande che mi porrei riguardano l’aspetto economico oltre a quello sentimentale. Com’è la situazione economica della coppia? I due partner sarebbero in grado di crescere un figlio? Hanno abbastanza tempo da dedicare al futuro figlio o dovranno sempre richiedere favori ai futuri nonni? Che vita faranno fare al figlio? Si amano veramente o è una relazione che è in procinto di terminare?
Ho detto prima che questo è il caso di gravidanza più delicata appunto perché la coppia non cercava e non voleva il figlio. Però, dal momento che c’è la possibilità di averlo, bisogna valutare bene le cose. Non penso conti l’età della ragazza. Anzi, se esistono i presupposti detti prima, una coppia può avere un bambino anche a 20 anni. Contrariamente, se i possibili futuri genitori non hanno un lavoro stabile, hanno poco tempo da dedicare o se hanno altri mille problemi, è meglio che decidano per l’aborto della ragazza.
Penso che i medici, piuttosto che criticare o provare a far cambiare idea, debbano aiutare la donna a prendere la giusta decisione per lei e per il figlio. Soprattutto quando sono in sala operatoria non devono abbandonarla a sé stessa perché è sempre una donna che soffre sapendo di perdere quello che sarebbe potuto essere suo figlio.
Marco C. – Milano

Il modo migliore per formare delle coscienze e per coltivare dei valori è quello di saper discutere e dialogare non solo con chi la pensa come te, bensì con chi parte anche da altri presupposti. Questo vale specialmente quando si collabora con una persona giovane e in modo particolare quando in questa nostra società anche bella, i parametri sono differenti.
Per questo motivo ci piace pubblicare la riflessione di Marco C., ma anche rispondere.
Il tema della vita è un tema troppo importante per non essere ragionato e rielaborato continuamente, specialmente oggi dove la tecnica ci permette azioni prima impensabili e il soggettivismo – non ho scritto individualismo – prevale nel pensare e proporre le proprie idee.
La vita, anche la mia vita personale, seppure pensiamo di esserne gli unici responsabili, non è solo una mia proprietà, riguarda sempre anche gli altri, sempre.
Quando poi parlo di una vita che deve nascere tutto ciò vale ancora di più, specialmente perché questa vita non ha voce.
Allora se io sono un soggetto ragiono pensando anche l’altro come un soggetto, se io sono un individuo, l’altro che debba nascere o essere già vivo, non mi interessa perché ci sono io e basta.

Al di là dell’essere o no cristiani, la vita non è una mia proprietà, la vita è sempre altro da me, è sempre un dono che chiede di essere incontrato. Purtroppo chi attenta in vari modi alla vita questo non la fa, non è interessato a incontrare ma a sfruttare l’altro.
Anche la vita che una donna porta dentro di sé non è di esclusiva proprietà della donna (e purtroppo la tecnica attuale lo dimostra in modo evidente).
La vita va sempre accompagnata e custodita, specialmente nei momenti di fragilità.
Questi momenti sono quelli che ha elencato Marco, momenti che non solo il medico o chi per esso talvolta “violenta”, ma tutta la società dimentica.
Tralasciando il caso estremo di uno stupro sulla donna (qui consiglierei però la visione di: Venuto al mondo) negli altri casi mi domando se dobbiamo lasciare il neo concepito a semplice prodotto di errori, dimenticanze o questioni economiche.
Da maschio non posso dire se l’aborto lasci una traccia indelebile nel corpo di una donna; da uomo che si sente parte complementare di una donna voglio dire che di fronte a una vita che può nascere non possiamo agire semplicemente secondo il nostro sentire o il nostro portafoglio.
Da uomo, in quanto partner o società, non posso lasciare solo una donna nel momento delicato di una vita in grembo.
Ma anche il fatto di poter gestire da sola un aborto, come l’attuale legge prevede specialmente con la pillola dei giorni dopo, è una scelta che scaturisce da una idea di essere umano sempre più pensato come individuo piuttosto che come soggetto e / o persona.
Non voglio mettere i discussine la legge sull’aborto, ma l’incapacità della nostra società di sapere accompagnare una donna e talvolta una coppia nell’affrontare un momento così importante della vita non solo della donna e dell’embrione ma di tutta la società.

LA FUNZIONE SENO DI GENNY’a CAROGNA

Anche questa mattina dopo colazione ho sfogliato il giornale. Per me è un gesto abituale, al quale sono affezionato pur sapendo che un solo giornale non basta per una corretta informazione.
Oggi, leggendo con la coda dell’occhio un articolo di cronaca non particolarmente attraente, ho notato una parola che non mi è piaciuta: “parabola”. Ovviamente non per il suo significato (ogni termine matematico per me è misteriosamente magico) ma per il contesto nel quale era stata inserita.
L’articolo riguardava Gennaro De Tommaso, ex capo ultrà diventato “famoso” per le tristi vicende della finale di Coppa Italia 2014, all’interno delle quali fu ucciso un giovane tifoso napoletano. All’epoca De Tommaso era proprio capo ultrà della tifoseria partenopea ed eccolo quindi sulle pagine di tutti i giornali di quei giorni.
Notizie più recenti, invece, sono quelle riguardanti la sua condanna: 9 anni di arresti domiciliari per spaccio di stupefacenti.
Letto l’articolo a causa del titolo ancora indigesto ho scritto al Corriere della Sera.
Premetto però quattro punti.
1) Le parole sono importanti. Molto più di quanto pensiamo. Così affermano e spiegano 1984, il libro di Orwell e il film di Nanni Moretti Palombella Rossa;
2) Gli ultimi sono persone da proteggere;
3) Siate sempre critici e indignatevi quando ce n’è bisogno. Soprattutto FATE, è la cosa più decisiva che ognuno di noi può raggiungere. Troppo spesso ristagniamo nella tiepidezza tanto insultata da SAMZ e non agiamo.
Scrivere a un giornale è una mossa microscopica, ma mi sono messo in gioco come non facevo da troppo tempo ed è stato importante. Soprattutto siate critici con la Stampa, con i mezzi di informazione. Ricordo sempre molto volentieri un incontro al liceo con un grande giornalista, Antonangelo Pinna. Paragonò il suo mestiere a quello del cane da guardia, perché il giornalista deve essere un giornalista contro. Contro le ingiustizie, le repressioni ma specialmente contro il potere. Ora paragonerei i giornalisti a cani di compagnia, a Pastori Normanni improvvisamente ammansiti e coccolosi. È nostro compito riportarli al loro ruolo originario, perché, sempre citando il grande Pinna, il padrone di un giornale è il lettore.
4) Studiate la matematica che è una materia bellissima.

Buongiorno,
sono Luigi Cirillo, vent’anni.
Oggi ho letto sul Corriere un titolo che mi ha indispettito: La parabola di Genny’a carogna: Da capo ultrà a collaboratore rinnegato da amici e familiari, di Fulvio Bufi. Sono rimasto particolarmente colpito, in negativo, dal titolo: La parabola di Genny’a carogna.
Il termine che mi ha fatto storcere il naso, ma soprattutto mi ha provocato un forte dispiacere è “parabola”.
Per quanto il termine sia molto vago e impreciso (che tipo di parabola? Com’è orientata?), nel gergo comune, al contrario, applicato in un contesto di questo genere assume un significato specifico.
Si tratta di una parabola discendente, con un massimo e presumibilmente un minimo, in quanto la vita di una persona non è infinita e quindi si tratta di un dominio chiuso.
Con queste ipotesi, le quali mi auguro siano sbagliate si può arrivare facilmente a brutte conclusioni.
Ovvero che la vita di Gennaro De Tommaso abbia avuto un massimo, che va ricercato nel passato, in quanto se si parla di parabola ora vuol dire che il punto di massimo sia già stato raggiunto. Un passato macchiato da violenza e spaccio di droga, il quale credo sia orribile identificare come vertice della vita di un uomo.
In secondo luogo, l’altra conclusione, ancora peggiore, alla quale questo termine può portare, è che ora la vita del Signor De Tommaso si avvii verso una traiettoria discendente, simbolo di declino.
Questi ragionamenti, mai supportati ma nemmeno smentiti all’interno dell’articolo, mi trovano fortemente in disaccordo.
Sono convinto, al contrario, che la vita del Signor De Tommaso non abbia raggiunto un massimo nei suoi anni di maggiore potere criminale; al contrario, credo che questi possano essere paragonati a un minimo.
Soprattutto mi auguro, come cittadino e come uomo, che la sua vita possa invece ripartire proprio da ora, dal suo punto più buio e trovare finalmente il massimo in una vita onesta e dedita al rispetto del prossimo.
Credo sia nostro dovere, in quanto membri di una stessa comunità, credere in questo e credere nella giustizia, anche nella sua componente punitiva.
Dimentichiamo sempre che il carcere, così come l’arresto domiciliare, ha come primo scopo quello di riportare in società chi ne è stato allontanato.
Se non siamo noi i primi credere in questo, non saremo mai i primi a cambiare la schifosa realtà del sistema punitivo italiano (mi riferisco soprattutto alle condizioni inumane nelle carceri, ma anche al recupero dei condannati che spesso non avviene).
Cambiare si può, basta crederlo e FARLO.
Come sempre si parte dalle cose piccole, da un termine innocuo (parabola) che invece è il primo sintomo di un senso comune deficiente dei giusti obiettivi.
Le parole sono importanti, specialmente quando sono scritte su una delle testate italiane più prestigiose e storiche.
Scrivere parole giuste nel loro contesto, è questo è il ruolo molto delicato di Voi Giornalisti e una delle vostri enormi responsabilità.
Anche il pentimento non deve essere valutato come un minimo. Quale sia stato il motivo dietro ad esso, reale rimpianto o decisione finalizzata al proprio interesse, noi non possiamo saperlo ed è giusto che sia così.
Tuttavia sappiamo che è il primo fondamentale passo verso il riscatto di un uomo e come tale va considerato.
Concludo aggiungendo che non mi piace paragonare la vita di un uomo ad una funzione matematica, ma se proprio si vuole applicare questa forzatura ecco come avrei titolato: “La funzione goniometrica di Gennaro De Tommaso. Da capo ultrà a collaboratore rinnegato da amici e familiari”.
Una funzione con alti e bassi, che non sta a noi conoscere o giudicare.
Vi prego di far arrivare queste poche righe anche al Signor Fulvio Bufi, principale destinatario.

Cordiali saluti,
Luigi Cirillo