Ieri, la giornata della memoria.

Pare che per presunti ovvi motivi la “giornata della memoria” di ieri sia passata un po’ in sordina, in qualche angolo della prima pagina, rispetto gli anni passati.
Con la sola pretesa di opinioni personali, per quanto ho cercato di ragionare, credo che non ci si possa esimere dal tenere viva la memoria.
Capisco non sia facile ragionare su questa necessaria giornata in questo tempo in cui si denuncia Israele, l’Israele attuale, per i misfatti nei confronti dei palestinesi. Non posso però mischiare la “memoria” con la situazione attuale di Israele, perché la ferita di Israele (anche per quanti non sostengono l’attuale governo) subita il 7 ottobre è troppo grande nonostante la sproporzione della ferita inferta al popolo palestinese.
80 anni fa è accaduto un fatto, un fatto che non si può dimenticare perché è storia della nostra umanità, è storia per formare l’umanità. Non è facile ricordare, spesso non si vuole ricordare, sembra inutile ricordare. Ricordare per conoscere e imparare, non per piaggeria o per fare un piacere a… Ricordare e conoscere per continuare a vivere con rispetto della vita anche e specialmente quando la vita sembra essere in pericolo. Non è mai stato facile celebrare questa giornata “imposta” dall’alto, ma nata dalla storia di chi l’ha vissuta. La storia di chi l’ha vissuta credo sia il motivo principale per cui rispettare questa giornata. Il venire meno dei testimoni diretti di questa tragedia sia ancora di più il motivo principale per cui celebrare questa Memoria.
Non è facile dilatare questa memoria oltre il 27 gennaio, ma si deve. Lo si deve per le generazioni successive, lo si deve per combattere l’antisemitismo, lo si deve per mantenere viva la memoria di tutte le tragedie del passato (penso solo agli Armeni) e del futuro.
Lo si deve per combattere l’indifferenza di chi ieri abitava e viveva come su nulla fosse accanto ad Auschwitz, di chi pensava di non essere direttamente responsabile, l’indifferenza di chi oggi pensa ci siano questioni più importanti.
Ho approfittato ieri nell’ascoltare e leggere alcune riflessioni in più, è vero, ne evidenzio solo due:
«Fanni (morta a 102 anni, sposa di Mik ucciso a 34 anni) si sarà chiesta tante volte, dove fosse finito il Dio in cui credeva durante quegli anni. Ma non si servì mai di quella domanda per giustificarne l’inesistenza, perché conosceva la risposta: «Ero dove era l’amore, ero dove era il dolore. Ero dove era tuo marito, ero dove eri tu. Sono dove siete voi. E lì sarò sempre». (CorSera)
«Bisognerebbe spiegare ai bambini che agli ebrei venivano invertite le mani e che può succedere anche a loro.
Mi è stato chiesto come parlerò a mio figlio della Shoah. Gli farò leggere In quelle tenebre di Gitta Sereny e gli farò vedere Bastardi senza gloria: bisogna sempre conoscere quello che è stato per saperlo riconoscere se te lo trovi davanti, e sapere cosa fare nel caso qualcuno volesse invertirti le mani». (LaSt).
Giannicola M. Simone

Il sabato santo del cristianesimo

C’è un grande scrivere e leggere su come pensare e ri-pensare la Chiesa oggi, in questa situazione di scristianizzazione e indifferenza verso la questione Dio, indifferenza che è più drammatica delle riflessioni ateistiche.
Tutte le analisi che la Chiesa pensante sta producendo in questi ultimi anni sono sicuramente stimolanti. Non che prima non pensasse e/o producesse, però ultimamente le riflessioni giocano sul fatto dell’indifferenza verso le cose di Dio.
Quando parlo con i giovani dico sempre loro che sono bravi, buoni e sanamente egoisti, ma non hanno più il senso del mistero o del sacro, quindi le loro doti restano doti e non diventano virtù. La scristianizzazione li tocca in prima persona. Se poi si cerca di riflettere su ciò l’impresa è più che ardua, forse impossibile. Usano un altro linguaggio. Ma la riflessione è difficile anche con gli adulti.
Come poter ripensare la fede, come poter superare (per usare la bella sintesi di papa Francesco) il si è sempre fatto così?
Se il giubileo di Paolo Vi e Giovanni Paolo II si sono aperti in tempi felici e stimolanti il germogliare di cose nuove, questo giubileo si apre in un mondo a pezzi: forse per questo la scelta della virtù della speranza come stella polare del pellegrinaggio giubilare.
Molti non hanno la consapevolezza del non dovere sempre fare così, molti ritengono che si debba continuare a fare sempre così, perché è più rassicurante, ma anche perché non è facile capire cosa si dovrebbe fare di nuovo.
L’evolversi della Tradizione nel passato è avvenuto in modo chiaro o lo si è scoperto solo dopo? Perché il problema oggi è proprio capire come far crescere la Tradizione. Uso coscientemente “crescere la Tradizione” perché sappiamo che la Tradizione è tale solo quando è capace di crescere, altrimenti muore.
I fedeli laici, ma non solo loro, possono anche leggere questo o quel documento, ma poi si fermano, perché non c’è la forza e il tempo di affrontare “il crescere della Tradizione”. Sanno che la maggior parte dei propri figli frequenta un mondo non cristiano, sanno che la maggior parte dei propri figli non frequenta la messa domenicale, sanno… ma non sanno come reagire.
La realtà che si deve affrontare, talvolta combattere, la realtà dalla quale si può trarre anche del bene è una realtà troppo grande e troppo disinteressata per i fondamentali della fede e quindi ci si ferma. Non in modo apatico o scoraggiato, semplicemente ci si ferma, forse come ci si fermò in Quel sabato santo.
Probabilmente dobbiamo imparare a vivere con maggiore cura il sabato santo della fede di oggi, se vogliamo che si possa risorgere con il Risorto.
San Giovanni Crisostomo scriveva: I magi non si misero in cammino perché avevano visto la stella ma videro la stella perché si erano messi in cammino.