“Adolescenti sani!”: questo il titolo dell’articolo editoriale con il quale avevamo aperto il primo numero del 2025 della nostra rivista cartacea. Un articolo che parla di giovani, pandemia e cambiamenti, ma che principalmente interroga gli adulti e chi dei giovani si occupa.
Abbiamo quindi chiesto ad alcuni di questi “giovani” di darci dei brevi commenti su questo articolo, che riportiamo in seguito.
Valeria partendo dalla sua esperienza personale, ci racconta di come non solo i giovani sono cambiati durante il covid, ma anche gli adulti, e si sofferma sull’importanza di un ascolto sincero dei giovani, e scrive:
«Leggendo queste parole, mi sono sentita profondamente coinvolta, perché quando è scoppiata la pandemia avevo soltanto 11 anni. Mi trovavo in quel periodo di passaggio tra l’essere bambina e diventare una ragazza, proprio all’inizio dell’adolescenza. Un momento delicato, in cui tutto inizia a cambiare: il corpo, le emozioni, le relazioni. Ma invece di vivere queste trasformazioni con naturalezza, tutto si è bloccato. Ognuno di noi ha vissuto questo trauma collettivo in modo diverso, sfogando alla fine di esso reazioni differenti.
Ho notato anche io, come viene detto nell’articolo, un cambiamento repentino nei ragazzi poco più grandi o poco più giovani di me, i quali sono diventati molto più agitati, poco consapevoli delle loro azioni e riscontrano gravi difficoltà nel socializzare. É ovvio che le ripercussioni ci sono state anche sugli adulti, che sono diventati sempre più egoisti e impazienti, come se dovessero recuperare il tempo perso durante il lockdown.
Io ritengo, come anche affermato nel testo, che sia fondamentale che gli adulti aiutino noi giovani a ritrovare sé stessi, ad essere ascoltati e capiti anche se ciò potrebbe essere visto come una perdita di tempo a causa degli atteggiamenti discostanti o provocatori che a volte mostriamo. Secondo me, essendo una loro coetanea, penso sia l’unico modo per portare sulla retta via ragazzi agitati, sempre con il telefono tra le mani e con la testa altrove, poiché l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, in realtà, è un punto di riferimento stabile, adulti capaci di ascoltarci davvero, con pazienza, senza volerci subito correggere o “aggiustare”. Dunque, come conclude l’articolo, la vera sfida non è riportarci in chiesa o farci seguire regole, ma aiutarci a sentire che c’è qualcuno che ci chiama per nome, che crede in noi e nel nostro futuro e non ci consideri come dei “malati” o delle persone da “aggiustare”.»
Anche Giacomo ci racconta della sua esperienza personale durante la pandemia e di come, secondo lui, la pandemia abbia influito sui comportamenti dei giovani:
«Leggere questo articolo mi ha fatto tornare alla mente tante cose a cui spesso cerco di non pensare. Quando è iniziata la pandemia avevo 11 anni, ero alle medie, e sinceramente non avevo capito subito cosa stava succedendo. All’inizio sembrava quasi una vacanza, niente scuola, tutto chiuso, giornate infinite a casa. Ma poi è diventato pesante. Le lezioni online, la solitudine, la noia, il senso di smarrimento… sono cose che non si dimenticano.
L’articolo mi ha colpito perché, per una volta, qualcuno ha saputo descrivere bene quello che tanti della mia generazione hanno vissuto e stanno ancora vivendo. Non si tratta solo di “pigrizia” o “mancanza di voglia”, come spesso ci viene detto. È che ci siamo ritrovati a crescere in un momento strano, dove tutto era sospeso, dove le relazioni erano dietro a uno schermo e il futuro sembrava lontanissimo, quasi finto.
Ora ho 17 anni e a volte mi sento ancora un po’ perso. È come se ci mancassero dei pezzi, come se fossimo cresciuti in fretta ma senza tutti gli strumenti. Ed è frustrante sentirsi dire “ormai è passato”, come se tutto dovesse tornare normale automaticamente. Ma non è così semplice.
Quello che dice l’articolo sulla pazienza e sulla presenza degli adulti mi sembra verissimo. Non abbiamo bisogno di essere giudicati o corretti in continuazione. Abbiamo bisogno che qualcuno ci stia vicino davvero, che provi a capirci senza pretendere subito risultati o cambiamenti. A volte basta poco: uno sguardo, una domanda sincera, qualcuno che ascolta senza interrompere.
Mi ha fatto bene leggere queste parole, perché mi sono sentito capito. E penso che anche molti miei coetanei si ritroverebbero in questo. Non vogliamo fare le vittime, ma neanche essere trattati come se fossimo sbagliati o rotti. Abbiamo solo bisogno di tempo, e di qualcuno che creda in noi, anche quando facciamo fatica a crederci da soli.»
Sarah (adulta, con una esperienza di educatrice e di lavoro) ci spiega quali, secondo lei, sono le origini di questi cambiamenti dei comportamenti, legate ai social e all’iper performatività a cui i bambini sono sempre più sottoposti, e di come questi processi si siano intrecciato con la pandemia:
“Effettivamente sono d’accordo con te sul fatto che non si dedichi abbastanza “tempo” ai giovani. Da bambini imparano che devono fare mille attività organizzate e vedono i genitori giusto la sera prima di andare a dormire. attività in cui devono eccellere, in cui sono sempre considerati i migliori. Secondo me sono una generazione non abituata ai no che si è trovata ad affrontare un periodo (la pandemia) che li ha posti davanti ad un grandissimo no.
Una generazione (credo colpa anche dei social e dei ritmi frenetici che essi impongono) che non sa soffermarsi sulle cose, che fatica ad andare in profondità. Io personalmente avevo trovato negli scout un posto dove ti chiedono di fermarti, di capire chi sei non solo come essere unico e staccato dalla realtà ma soprattutto in relazione con l’altro e la comunità che ti circonda. ricordo che mi aveva molto aiutato e ha decisamente influenzato le mie scelte di vita future
Ovviamente sto molto generalizzando, sicuramente ci sono delle eccezioni, ma in un’epoca in cui vince chi grida più forte (il tutto amplificato da internet), individui che già attraversano un periodo difficile (quello dell’adolescenza) fanno sicuramente ancora più fatica.
E per concludere, durante la pandemia abbiamo estremamente sottovalutato l’impatto psicologico che essa ha avuto su certe fasce della popolazione (adolescenti e studenti in generale e anziani i primis, persone più povere che non avevano accesso a tutti gli strumenti informatici necessari a continuare a lavorare e studiare o che semplicemente vivevano in spazi ristretti in famiglie numerose).
Vincenzo sottolinea di nuovo, l’importanza dell’ascolto e della pazienza nel rapporto con i giovani, fondamentali per riconoscerli nelle loro forze e fragilità:
«Questo testo è molto toccante, perché parla in modo sincero delle difficoltà che i giovani stanno vivendo dopo la pandemia. Fa riflettere su quanto il COVID abbia lasciato segni profondi, anche se spesso invisibili. L’autore dice che oggi educare non significa solo dare regole, ma soprattutto ascoltare, stare vicino e avere tanta pazienza. I ragazzi hanno voglia di stare insieme, ma fanno fatica a costruire legami veri e duraturi. Si sente il bisogno di dare loro fiducia e tempo, anche solo per stare con loro senza fare nulla. Il testo invita a guardarli negli occhi, a riconoscerli per quello che sono, con le loro forze e le loro fragilità. Non serve riportarli solo in chiesa, ma aiutarli a scoprire chi sono e quale può essere il loro posto nel mondo. È un invito a seminare amore, accoglienza e speranza, anche se i risultati arriveranno piano piano.»
Anche Gianluigi, infine, sottolinea la necessità di un aiuto concreto nel riconoscere una chiamata alla vita vera:
«Questo articolo interpella fortemente chiunque abbia a che fare con i giovani (genitori, educatori, insegnanti, animatori). Il vero messaggio, però, è rivolto anche al mondo adulto nel suo insieme: non si può educare senza mettere in gioco sé stessi, senza rallentare, senza scegliere di esserci davvero.
La pandemia ci ha mostrato quanto fragile sia la nostra società, e quanto velocemente possiamo perdere l’essenziale. Ma ci ha anche mostrato che la relazione col prossimo è ciò che può farci ripartire.
Il messaggio finale è potente: più che riportarli in chiesa, aiutiamoli a riconoscere una chiamata. Che sia spirituale, personale, relazionale. In ogni caso, una chiamata alla vita vera.»
Month: Maggio 2025
Ballare, ballare, ballare
Luigi Peragine (22 anni) nostro amico da sempre, è un ballerino di danza classica, che ieri sera ha debuttato nel balletto Caravaggio, con Roberto Bolle a Firenze: approfittiamo per scambiare due parole con lui!
Cosa significa debuttare in uno spettacolo, come ti accadrà qs sera?
Debuttare significa finalmente mostrare al pubblico il frutto di tutto il lavoro svolto in sala prove. L’emozione di salire sul palco è un qualcosa di unico, magico, difficile da descrivere a parole. È il luogo nel quale riesco a essere completamente me stesso e a esprimermi al meglio attraverso la danza.
Quando hai scoperto che la danza classica non era solo un sogno da bambino ma la tua vita?
La danza vive dentro di me da sempre. Sin da bambino ero certo di quello che volevo diventare, ma solo crescendo sono diventato più consapevole di ciò che avrei dovuto affrontare per realizzare quel sogno.
Quali i sacrifici principali?
I sacrifici in questo percorso sono stati molti. Lasciare la mia famiglia all’età di 13 anni per perfezionare la tecnica in un’accademia in Germania è stato uno dei primi passi più difficili. Ogni giorno è una sfida costante, fisica ma soprattutto mentale, perché bisogna spingersi oltre i propri limiti per diventare la versione migliore di sé stessi.
E le gioie più … gioiose?
Ogni progresso tecnico, ogni miglioramento e ogni esibizione sono piccole vittorie che ripagano tutti i sacrifici e ci spingono, come ballerini, ad andare sempre oltre, a non arrenderci mai. La mia gioia più grande, finora, è stata sicuramente il diploma ottenuto nel 2022 all’Accademia del Teatro alla Scala e l’ingresso nel corpo di ballo del Teatro. Quel momento ha rappresentato la realizzazione concreta di anni di impegno, passione e determinazione.
Perché la danza è così di nicchia?
La danza, soprattutto in Italia, non è adeguatamente valorizzata. La progressiva scomparsa dei corpi di ballo e la mancanza di investimenti nel settore ne sono un chiaro segno. Molte persone crescono senza sviluppare una vera comprensione di quest’arte. Nonostante sia vista fuori dal comune, numerosi giovani sono animati dal desiderio di intraprendere questo percorso e andare oltre i pregiudizi. Tuttavia, le scarse opportunità lavorative e l’assenza di un reale sostegno istituzionale finiscono per scoraggiare l’interesse generale.
Quando parliamo di danza pensiamo solo ai ballerini famosi, ma c’è tutto il resto intorno: cosa significa fare parte di un corpo di ballo? cosa insegna alla vita?
Il corpo di ballo è un insieme di danzatori che creano scene corali di grande impatto visivo e costruiscono atmosfere che valorizzano la presenza in scena dei ballerini principali. Senza di esso il balletto risulterebbe vuoto. Farne parte è il sogno di ogni ballerino perché insegna a saper lavorare in gruppo con disciplina e attenzione per creare la magia dell’insieme. Oggi debutterò nel balletto “Caravaggio” di Mauro Bigonzetti al Teatro Maggio Fiorentino di Firenze, nel quale il corpo di ballo ha una grande importanza perché presenterà al pubblicò molteplici danze caratterizzate da grande rigore tecnico e musicale.
L’opera più bella che vorresti ballare?
Vorrei… vorrei ballare nel ruolo principale del balletto “La bella addormentata”!
In bocca al lupo Luigi.
Quale politica per le foreste?
Il nostro percorso di riflessione in preparazione alla COP30 (10/21 Novembre 2025 a Belem, in Brasile), prosegue oggi con un’intervista a Maurizio Martina, vicedirettore generale della FAO, la “Food and Agriculture Organization” delle Nazioni Unite, con il quale abbiamo avuto modo di parlare dello stato delle foreste, degli effetti del cambiamento climatico e dell’attività umana su di esse, degli impatti sociali dei danni forestali, ma anche di possibili soluzioni di policy e di piccole attività quotidiane, necessarie per preservare il patrimonio forestale.
Prima di tutto cos’è la FAO? Poiché molti dei nostri giovani non lo sanno.
La FAO, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura è una delle agenzie specializzate dell’ONU con sede centrale a Roma e uffici dislocati in oltre 130 paesi del mondo. Ha preso vita in un contesto storico caotico, a seguito della fine della Seconda Guerra Mondiale, per ridare la giusta luce a temi cruciali che erano passati in secondo piano e facendosi portavoce di un ambizioso ma necessario obiettivo: eliminare la fame nel mondo costruendo sistemi alimentari sostenibili, equi e resilienti. È importante sottolineare che lo spettro su cui la FAO lavora attivamente ogni giorno è molto vasto, ed include cibo, terra, acqua, foreste e pesca. Per essere più concreti, la FAO si propone di migliorare notevolmente l’allarmante dato conoscitivo secondo il quale, ancora oggi, 733 milioni di persone soffrono la fame (rapporto SOFI 2024). Ma non si tratta meramente di una “lotta alla fame” in senso stretto, ma anche di declinare politiche mirate di sviluppo economico, sociale, culturale e protezione ambientale, attraverso un approccio sistemico ed integrato.
Per fare questo la FAO adotta una strategia a 360 gradi, che include ad esempio: il supporto degli agricoltori nella produzione, la promozione di un’alimentazione sana e sostenibile, la tutela della biodiversità, l’intervento in caso di emergenze naturali o innescate da conflitti a stretto contatto con i Governi e altri stakeholder. La nostra bussola ed il nostro motto sono chiari: “Una produzione migliore, un’alimentazione migliore, un ambiente migliore ed una vita migliore per tutti, senza lasciare nessuno indietro”.
La collaborazione con realtà come la vostra (Giovani Barnabiti, progetto “Esta è a Floresta”), per noi risulta vitale per raggiungere questi obbiettivi, in quanto siamo fermamente convinti che la trasformazione nasca dal territorio, attraverso il dialogo continuo e lo scambio di conoscenze ed esperienze.
Quale è l’attuale stato delle foreste a livello globale e quali sono le principali minacce che colpiscono le foreste?
Secondo il nostro più recente rapporto della FAO “The state of the World’s Forests” (SOFO) del 2024, le foreste ricoprono circa il 31% dell’intera superficie terrestre, estendendosi per 4,1 miliardi di ettari, ospitando più del 80% della biodiversità del nostro pianeta. Questi dati rendono quindi chiaro che le foreste siano uno dei pilastri vitali della Terra, in quanto svolgono funzioni cruciali per il suolo, per l’acqua, per il clima e conseguentemente per la sicurezza alimentare. Secondo il rapporto citato in precedenza lo stato attuale di questa risorsa è motivo di enorme preoccupazione per via della forte pressione a cui è sottoposta. Infatti, i dati segnalano che nel lasso temporale dal 1990 al 2020, abbiamo assistito ad una perdita complessiva di 420 milioni di ettari di foreste, rappresentando analogicamente un’estensione superiore a quella del territorio dell’India. Nonostante il dato sensibile, è però bene segnalare anche gli elementi che dimostrano un cambio positivo di rotta. Infatti, paragonando i dati dello stesso periodo, la deforestazione globale dimostra un calo di più di 5,6 milioni di ettari rispetto ai principi degli anni 90.
I dati postivi raccolti non sono però sufficienti per ribaltare il critico bilancio globale, che testimonia una perdita annua di milioni di ettari di foresta, dimostrando che il motore del miglioramento è ancora troppo lento.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, le minacce concrete alle foreste risultano essere molteplici. Prima tra tutte il cambiamento climatico, che porta con sé svariati “effetti collaterali”, rendendo le foreste più inclini a stress ambientali, come parassiti e malattie, incendi e siccità, che risultano in una sostanziale perdita di biodiversità e frammentazione degli habitat, alterando l’equilibrio degli ecosistemi e la sopravvivenza di specie vegetali ed animali.
Risulta critico, nell’ottica di preservare gli ecosistemi forestali anche il tema dell’intensificazione della domanda di prodotti, sia di derivazione del legno che da piante e frutti, la cui produzione ha toccato il livello record di quattro miliardi di metri cubi all’anno, dato di cui si prevede un ulteriore incremento.
Ultimo elemento, ma non per importanza, concerne la minaccia sostanziale delle crescenti e continue disuguaglianze sociali, che marginalizzano le comunità che vivono nelle foreste, impedendo loro di essere partecipi nei processi decisionali ed escludendoli dalla suddivisione dei benefici della gestione delle risorse.
Queste minacce sono strettamente interconnesse l’una con l’altra, e la loro sovrapposizione risulta inevitabilmente deleteria e non mitigabile dai progressi raggiunti in questo campo fino a questo momento.
Qual è il legame tra il cambiamento climatico e la deforestazione?
Il cambiamento climatico e la deforestazione sono essenzialmente due facce della stessa crisi ambientale globale, che, alimentandosi vicendevolmente, creano un circolo vizioso pericolosamente nocivo. Infatti, la deforestazione contribuisce notevolmente ad incrementare gli effetti del cambiamento climatico. E, se consideriamo che le foreste sono dei veri e propri serbatoi naturali di carbonio, e quindi fondamentali per assorbire anidride carbonica (CO₂), la deforestazione danneggia questa funzione benefica cruciale. Secondo il SOFO 2024, le foreste hanno assorbito dal 2000 al 2018 circa 2 miliardi di tonnellate di CO₂ ogni anno, contribuendo dunque a raffreddare il clima. Questo dato è importante per comprendere che quando le foreste vengono distrutte, non solo si riduce la capacità di assorbimento di anidride carbonica, ma, vengono anche rilasciati gas serra nell’atmosfera, generando dunque un duplice rischio, accelerando di conseguenza il cambiamento climatico.
Dall’altra parte, è lo stesso cambiamento climatico a contribuire pericolosamente all’indebolimento delle foreste, favorendo la creazione di condizioni climatiche proficue per incendi e per la diffusione di parassiti e malattie.
Si tratta dunque di un instancabile effetto domino che va categoricamente arrestato.
In che modo le foreste sono importanti per contrastare il cambiamento climatico?
Le foreste sono lo strumento naturale più potente che abbiamo a disposizione nella lotta al cambiamento climatico, sono da intendere infatti come parte integrante della soluzione, e non come un dettaglio marginale.
Infatti, le foreste contribuiscono in modo efficace e diretto all’assorbimento di carbonio, che è uno dei principali motori del riscaldamento globale, contribuendo quindi a mitigare in modo sostanziale questa problematica rallentando l’accumulo di gas serra nell’atmosfera. Risulta quindi logico comprendere che, quando una foresta viene distrutta, l’equilibrio climatico vacilla, e proteggerle è una forma di giustizia sociale e climatica.
Inoltre, le foreste sono fondamentali strumenti per la regolazione dei microclimi, in grado di limitare l’impatto di eventi climatici estremi – come ondate di calore, siccità ed inondazioni – grazie alla loro intrinseca capacità di rinfrescare l’aria, di mantenere umidità, di contribuire alla generazione di piogge e di proteggere il suolo (altra risorsa naturale fondamentale per la vita) dall’erosione.
É evidente quindi che preservare le foreste sia imprescindibile per la salvaguardia climatica. La FAO lavora attivamente su questo fronte, comprendendo la centralità del ruolo delle foreste, ed elevandole quindi come uno dei pilastri della nostra strategia climatica 2022-2031, in linea con l’obbiettivo SDG13 (Climate Action).
Quali sono gli impatti sociali della deforestazione?
I dati del nostro rapporto SOFO 2024 dimostrano che al giorno d’oggi il sostentamento di oltre 1,6 miliardi di persone dipende direttamente alle foreste, tra cui 350 milioni che vivono all’interno di aree forestali.
Inoltre, se prendiamo in considerazione la quantità di persone che fa utilizzo di prodotti di derivazione forestale – legnosi e non – i dati salgono esponenzialmente, segnalando che oltre i 3/4 della popolazione mondiale sarebbe colpita dalla problematica in modo sia diretto che indiretto.
Chiaramente, gli effetti su quella fetta di popolazione per cui le foreste sono fonte primaria di sostentamento, sia in termini di cibo e acqua ma anche di reddito, sono pericolosamente più catastrofici. Basti considerare che, nella maggior parte dei casi, gli individui che hanno questo tipo di relazione diretta con le foreste vivono già in condizioni vulnerabili, soprattutto nelle aree del Sud Globale.
La deforestazione estremizza le marginalizzazioni sociali in quelle aree. In primo luogo, funge come amplificatore delle disuguaglianze sociali già esistenti, in particolare di genere e giovanili, in quanto sono queste categorie a pagarne per prime l’altissimo prezzo.
Inoltre, una tematica rilevante è quella delle popolazioni indigene, che più di tutte conoscono e custodiscono i saperi tradizionali della preservazione di quelle aree geografiche. Sembrerebbe quindi logica una loro inclusione nei processi decisionali inerenti alle loro terre, mentre invece, è comune assitere ad una esclusione delle popolazioni indigene da questi importanti processi.
Un ulteriore elemento da considerare è anche quello dei flussi migratori delle comunità che risiedono nelle foreste, spinte dalla deforestazione, ed un potenziale rischio per la materializzazione di un ciclo ulteriore di marginalizzazione.
Nel suo ultimo articolo pubblicato su Avvenire il 5 marzo, parla di “miglioramento di processi di gestione forestale, sociale, politica e istituzionale, come nuovi sforzi per coinvolgere meglio donne, giovani e popolazioni indigene nello sviluppo di soluzioni guidate a livello locale”: in che modo il coinvolgimento di questi gruppi sociali, spesso esclusi o marginalizzati nel dibattito pubblico, può migliorare e contrastare la deforestazione e salvaguardare l’ambiente?
Come spesso accade per quanto concerne le sfide ambientali attuali, le soluzioni più efficaci nascono anche dal territorio, perché è bene tenere a mente che, in questo caso la deforestazione non è esclusivamente una questione tecnica, ma una problematica di carattere profondamente sociale e politico. Non includere i gruppi sociali più esposti e più fragili nei processi decisionali della governance forestale non è solo ingiusto, ma anche controproducente, come dimostrato dai dati riportati dal nostro rapporto SOFO 2024.
Infatti, l’inclusione dei gruppi vulnerabili – come donne, giovani e comunità indigene – viene spesso considerata una componente residuale, mentre invece costituiscono sia un bagaglio nozionistico, culturale e sociale dal valore inestimabile.
Diversi studi indicano che una governance femminile in queste aree, ad esempio, consentirebbe una gestione più consapevole dei prodotti forestali, in quanto sono le donne a svolgere un ruolo cruciale nella loro raccolta e nella trasmissione del sapere. Il potenziale ruolo dei giovani invece, porterebbe idee ed energie nuove, e soprattutto innovazioni tecnologiche e scientifiche. I giovani, infatti, non vanno considerati esclusivamente dei futuri beneficiari, ma soprattutto una forza motrice di cambiamento duraturo ed immediato. Allo stesso modo, le conoscenze tradizionali detenute dalle comunità indigene sono da considerare una risorsa preziosa. Queste comunità, infatti, più di chiunque altro hanno piena consapevolezza di quale sia il migliore approccio per preservare gli ecosistemi forestali, avendo come strumento una tradizione secolare che ha già dimostrato in passato di essere vincente per un corretto mantenimento delle foreste.
La FAO propone come soluzione ottimale a questa problematica una forma di governance condivisa, che risulta essere senza alcun dubbio una sintesi efficacie tra sapere tradizionale ed innovazione scientifica, consentendo una gestione sostenibile dal punto di vista economico, sociale e culturale.
Cosa possiamo fare come singoli individui per contribuire alla protezione delle foreste?
Nonostante sia evidente che molte delle strategie mirate nella lotta alla deforestazione derivino da decisioni prese a livelli istituzionali ed aziendali, il ruolo diretto di cittadini e consumatori rimane comunque cruciale nell’ottica di un impatto reale globale.
Infatti, il nostro rapporto SOFO 2024 segnala come causa principale della deforestazione la conversione in uso agricolo delle foreste.
Tradotto in termini pratici e concreti, quello che possiamo fare noi in qualità di cittadini, è rimodellare il nostro consumo e il nostro stile alimentare ai fini di renderlo più sostenibile e consapevole. Possiamo contribuire nel nostro piccolo a ridurre sprechi selezionando prodotti locali e di stagione, evitare lo spreco di carta, legno e cibo, selezionare prodotti certificati sostenibili, e preferendo aziende che siano trasparenti in merito alle pratiche adottate e sull’origine delle materie prime, e che agiscano nel pieno rispetto della copertura forestale e del suolo in generale.
Il consiglio è, dunque, quello di non essere dei cittadini passivi, ma di dare il giusto peso all’educazione ambientale, approfondendo il tema della deforestazione e condividendone le buone pratiche, sostenendo iniziative e progetti concreti di riforestazione, e supportando leggi e politiche che diano il giusto peso alla sostenibilità ambientale.
Giulia C. – Bologna / Firenze