AUGURI DA PHOTOVOGUE FESTIVAL

Oggi compiamo 11 anni e li festeggiamo con una intervista a Alessia Glaviano Head of Globla PhotoVogue che ringraziamo per il tempo e l’attenzione dedicataci.

L’ultima Edizione del PhotoVogue Festival, “The Tree of Life: A Love Letter to Nature”, è stata dedicata, come suggerisce il nome, ad esplorare la natura e il rapporto che l’essere umano ha con essa. Da cosa è nata la scelta di dedicare un’edizione proprio a questo tema?
Ogni edizione del PhotoVogue Festival nasce da una mia riflessione personale, da una domanda che mi pongo sul mondo che abitiamo e su ciò che ritengo urgente esplorare attraverso le immagini. In passato abbiamo affrontato temi come il female gaze, l’inclusività, la necessità di riscrivere la storia da nuovi punti di vista; abbiamo dedicato un’intera edizione a Susan Sontag per interrogarci sull’effetto dell’ubiquità delle immagini sulla nostra capacità di sentire, o ci siamo confrontati con le questioni etiche sollevate dall’intelligenza artificiale nella produzione visiva.
Nel concepire The Tree of Life: A Love Letter to Nature, riflettevo su l’assurdità della violenza sistemica che infliggiamo agli animali — sull’ipocrisia che ci porta a considerare degni di amore e rispetto un cane o un gatto, ma non un maiale o una mucca. Da lì, mi sono imbattuta nel concetto di kinship, l’idea di una parentela estesa a tutte le forme di vita. Studiando questo approccio, ho trovato nelle visioni delle culture indigene una consapevolezza profonda e rivoluzionaria: una comprensione relazionale dell’esistenza che noi, moderni, abbiamo in gran parte smarrito. Da questa scintilla è nato il desiderio di costruire un’edizione che fosse, appunto, una lettera d’amore alla natura e alla nostra interconnessione con ogni forma vivente.
Quali temi legati all’ambiente sono stati esplorati nelle fotografie di questa edizione?
Abbiamo voluto esplorare la relazione tra essere umano e natura in tutta la sua complessità, evitando rappresentazioni univoche o semplicistiche. I progetti selezionati attraversano temi che spaziano dalla crisi climatica alla giustizia ambientale, dalla sacralità del mondo animale fino alla possibilità di un’ecologia affettiva, interspecie, capace di restituire dignità anche a ciò che abbiamo storicamente marginalizzato.
Abbiamo parlato di attivismo e santuari, ma anche di riciclo creativo nella moda, di comunità indigene che custodiscono visioni cosmologiche dove la terra è soggetto e non risorsa, e di artisti che reinventano il linguaggio visivo per restituire meraviglia alla materia naturale. Il nostro intento non era tanto “documentare” l’ambiente, quanto costruire immaginari alternativi, capaci di far emergere nuove forme di empatia, consapevolezza e responsabilità.
La fotografia come può sensibilizzare le persone su tematiche ambientali?
La fotografia ha la capacità unica di generare un contatto immediato e viscerale. Non si limita a “mostrare” ma può far sentire, creare legami emotivi che rendono impossibile restare indifferenti. In un’epoca in cui la parola “crisi” è diventata quasi un rumore di fondo, le immagini possono rompere la saturazione informativa e aprire fessure di consapevolezza.
Credo profondamente che un’immagine potente possa modificare il nostro sguardo — e cambiare lo sguardo è il primo passo per cambiare il mondo. A volte, la fotografia riesce a smuovere coscienze più di una legge, proprio perché agisce in quel territorio ambiguo tra etica ed estetica, tra intelletto e corpo. E quando tocca entrambi, accade qualcosa: si attiva una possibilità di trasformazione.
In che modo la fotografia racconta il cambiamento climatico?
Il cambiamento climatico non è solo un fenomeno scientifico, ma anche un’esperienza vissuta, un trauma collettivo, una crisi di senso. La fotografia può raccontarlo su molteplici livelli: documentando le sue conseguenze tangibili — desertificazione, inondazioni, incendi — ma anche rendendo visibili le connessioni invisibili tra sistemi, storie e soggettività.
Molti artisti oggi si interrogano non solo su cosa fotografare, ma su come rappresentare l’emergenza climatica senza cadere nel voyeurismo del disastro. Alcuni scelgono l’astrazione, altri il simbolismo, altri ancora il linguaggio del corpo o della performance per suggerire la fragilità dell’ecosistema e la nostra complicità.
Altri ancora, invece, scelgono di raccontare le storie di chi resiste, protegge, rigenera: comunità indigene, attivisti, agricoltori, artigiani, progetti collettivi che incarnano un altro modo di vivere sulla Terra. Perché è importante mostrare non solo ciò che si perde, ma anche ciò che può essere salvato, imparato, trasformato. In questo senso, la fotografia diventa un linguaggio stratificato: al tempo stesso archivio, denuncia, elegia e atto di resistenza.
Una sezione intera della mostra era dedicata a fotografie dall’America Latina, area geografica su cui anche noi ci stiamo concentrando in vista della Cop30 che si terrà a Belem, in Brasile, il prossimo novembre. Perché avete deciso di dedicare una sezione specifica a questa area geografica e cosa ci raccontano di diverso le foto che provengono da questa regione?
La sezione latinoamericana era già prevista all’interno del festival, perché avevamo lanciato un’open call per celebrare un anniversario di Vogue Mexico and Latin America. Ma non potevo immaginare quanto i lavori che avremmo ricevuto sarebbero stati straordinari. Sono rimasta profondamente colpita dalla qualità, dalla varietà e dalla forza delle proposte: una tale concentrazione di talento non l’avevo mai vista.
La sorpresa più grande è stata accorgermi di quanto fossero in perfetta sintonia con il tema del festival The Tree of Life, pur essendo nati in un altro contesto. Tantissimi progetti affrontavano con profondità il rapporto con la natura, le cosmovisioni indigene, l’eredità del colonialismo, la spiritualità legata alla terra, l’idea di kinship — quella parentela estesa a tutte le forme di vita che è stata per me il punto di partenza curatoriale. È come se, da due lati diversi del mondo, stessimo cercando di dire la stessa cosa.
Ma non è solo una questione di contenuto: c’è anche un’estetica potente e coerente che attraversa molti dei lavori ricevuti. Una tensione tra corporeità e paesaggio, un uso del colore viscerale, una capacità di fondere l’intimo e il politico, il personale e il collettivo. Molti artisti attingono alle tradizioni visive locali, ma con un linguaggio estremamente contemporaneo, visionario, spesso sperimentale. In alcune immagini si percepisce una carica quasi mistica, in altre un’urgenza militante, ma tutte contribuiscono a costruire un immaginario alternativo, radicale e necessario.
Per questo abbiamo voluto dare alla regione uno spazio centrale. Perché non si tratta solo di ascoltare nuove voci, ma di riconoscere nuove visioni capaci di influenzare e arricchire il discorso globale.
Cosa ne pensa lei di Cop30 e quale può essere il ruolo della fotografia in contesti di questo tipo?
La COP30 sarà una tappa storica, anche solo per il fatto che, per la prima volta, si terrà nel cuore dell’Amazzonia. È una scelta altamente simbolica, che pone al centro uno degli ecosistemi più vitali e vulnerabili del pianeta, ma anche un territorio carico di tensioni storiche, economiche e culturali.
Mi auguro che questa edizione rappresenti un vero momento di svolta e non solo una dichiarazione d’intenti. In particolare, spero in un coinvolgimento autentico e paritario delle popolazioni indigene, che da secoli custodiscono conoscenze ecologiche profonde e visioni del mondo fondate sulla reciprocità e sul rispetto. Qualsiasi strategia ambientale seria non può più prescindere dalla loro voce e dal riconoscimento dei loro diritti.
In questo scenario, la fotografia può avere un ruolo chiave: non solo come strumento di denuncia o documentazione, ma come spazio di ascolto e rappresentazione etica. Può dare visibilità a chi spesso viene escluso dai tavoli decisionali, può restituire emozione e complessità a questioni troppo spesso ridotte a cifre. E, forse soprattutto, può contribuire a immaginare — e a far immaginare — futuri diversi.
Lei è a conoscenza del nostro progetto “dalla Quercia alla Foresta” in cui alcuni nostri volontari collaboreranno con dei giovani di Benevides alle porte dell’Amazzonia. Pensa che progetti di questo tipo possono aiutare anche le popolazioni locali dei luoghi fotografati e afflitti dal cambiamento climatico?
Sì, conosco il vostro progetto e lo trovo estremamente importante, anche perché risponde a un’urgenza che sento profondamente. Per troppo tempo, molte iniziative — anche quelle mosse da buone intenzioni — si sono rivelate, di fatto, neocoloniali: calate dall’alto, incapaci di riconoscere la complessità dei territori, e spesso più interessate alla narrazione che alla realtà.
Oggi è fondamentale rovesciare questa dinamica: le culture indigene devono avere voce, ma soprattutto controllo. Devono essere protagoniste attive, non comparse nel racconto di qualcun altro. È bello e incoraggiante vedere che anche voi siete mossi da questa stessa consapevolezza, e che cercate di costruire progetti fondati sullo scambio, sull’ascolto, sulla co-creazione.
Solo così la fotografia — e più in generale la narrazione visiva — può davvero diventare uno strumento etico, relazionale, trasformativo. Non si tratta solo di rappresentare il cambiamento, ma di contribuire, con rispetto e responsabilità, a immaginarlo insieme.

Giulia C. – Bologna

ADOLESCENTI SANI LE RISPOSTE

Ballare, ballare, ballare

Luigi Peragine (22 anni) nostro amico da sempre, è un ballerino di danza classica, che ieri sera ha debuttato nel balletto Caravaggio, con Roberto Bolle a Firenze: approfittiamo per scambiare due parole con lui!
Cosa significa debuttare in uno spettacolo, come ti accadrà qs sera?
Debuttare significa finalmente mostrare al pubblico il frutto di tutto il lavoro svolto in sala prove. L’emozione di salire sul palco è un qualcosa di unico, magico, difficile da descrivere a parole. È il luogo nel quale riesco a essere completamente me stesso e a esprimermi al meglio attraverso la danza.
Quando hai scoperto che la danza classica non era solo un sogno da bambino ma la tua vita?
La danza vive dentro di me da sempre. Sin da bambino ero certo di quello che volevo diventare, ma solo crescendo sono diventato più consapevole di ciò che avrei dovuto affrontare per realizzare quel sogno.
Quali i sacrifici principali?
I sacrifici in questo percorso sono stati molti. Lasciare la mia famiglia all’età di 13 anni per perfezionare la tecnica in un’accademia in Germania è stato uno dei primi passi più difficili. Ogni giorno è una sfida costante, fisica ma soprattutto mentale, perché bisogna spingersi oltre i propri limiti per diventare la versione migliore di sé stessi.
E le gioie più … gioiose?
Ogni progresso tecnico, ogni miglioramento e ogni esibizione sono piccole vittorie che ripagano tutti i sacrifici e ci spingono, come ballerini, ad andare sempre oltre, a non arrenderci mai. La mia gioia più grande, finora, è stata sicuramente il diploma ottenuto nel 2022 all’Accademia del Teatro alla Scala e l’ingresso nel corpo di ballo del Teatro. Quel momento ha rappresentato la realizzazione concreta di anni di impegno, passione e determinazione.
Perché la danza è così di nicchia?
La danza, soprattutto in Italia, non è adeguatamente valorizzata. La progressiva scomparsa dei corpi di ballo e la mancanza di investimenti nel settore ne sono un chiaro segno. Molte persone crescono senza sviluppare una vera comprensione di quest’arte. Nonostante sia vista fuori dal comune, numerosi giovani sono animati dal desiderio di intraprendere questo percorso e andare oltre i pregiudizi. Tuttavia, le scarse opportunità lavorative e l’assenza di un reale sostegno istituzionale finiscono per scoraggiare l’interesse generale.
Quando parliamo di danza pensiamo solo ai ballerini famosi, ma c’è tutto il resto intorno: cosa significa fare parte di un corpo di ballo? cosa insegna alla vita?
Il corpo di ballo è un insieme di danzatori che creano scene corali di grande impatto visivo e costruiscono atmosfere che valorizzano la presenza in scena dei ballerini principali. Senza di esso il balletto risulterebbe vuoto. Farne parte è il sogno di ogni ballerino perché insegna a saper lavorare in gruppo con disciplina e attenzione per creare la magia dell’insieme. Oggi debutterò nel balletto “Caravaggio” di Mauro Bigonzetti al Teatro Maggio Fiorentino di Firenze, nel quale il corpo di ballo ha una grande importanza perché presenterà al pubblicò molteplici danze caratterizzate da grande rigore tecnico e musicale.

L’opera più bella che vorresti ballare?
Vorrei… vorrei ballare nel ruolo principale del balletto “La bella addormentata”!
In bocca al lupo Luigi.

Quale politica per le foreste?

Il nostro percorso di riflessione in preparazione alla COP30 (10/21 Novembre 2025 a Belem, in Brasile), prosegue oggi con un’intervista a Maurizio Martina, vicedirettore generale della FAO, la “Food and Agriculture Organization” delle Nazioni Unite, con il quale abbiamo avuto modo di parlare dello stato delle foreste, degli effetti del cambiamento climatico e dell’attività umana su di esse, degli impatti sociali dei danni forestali, ma anche di possibili soluzioni di policy e di piccole attività quotidiane, necessarie per preservare il patrimonio forestale.

Prima di tutto cos’è la FAO? Poiché molti dei nostri giovani non lo sanno.

La FAO, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura è una delle agenzie specializzate dell’ONU con sede centrale a Roma e uffici dislocati in oltre 130 paesi del mondo. Ha preso vita in un contesto storico caotico, a seguito della fine della Seconda Guerra Mondiale, per ridare la giusta luce a temi cruciali che erano passati in secondo piano e facendosi portavoce di un ambizioso ma necessario obiettivo: eliminare la fame nel mondo costruendo sistemi alimentari sostenibili, equi e resilienti. È importante sottolineare che lo spettro su cui la FAO lavora attivamente ogni giorno è molto vasto, ed include cibo, terra, acqua, foreste e pesca. Per essere più concreti, la FAO si propone di migliorare notevolmente l’allarmante dato conoscitivo secondo il quale, ancora oggi, 733 milioni di persone soffrono la fame (rapporto SOFI 2024). Ma non si tratta meramente di una “lotta alla fame” in senso stretto, ma anche di declinare politiche mirate di sviluppo economico, sociale, culturale e protezione ambientale, attraverso un approccio sistemico ed integrato.
Per fare questo la FAO adotta una strategia a 360 gradi, che include ad esempio: il supporto degli agricoltori nella produzione, la promozione di un’alimentazione sana e sostenibile, la tutela della biodiversità, l’intervento in caso di emergenze naturali o innescate da conflitti a stretto contatto con i Governi e altri stakeholder. La nostra bussola ed il nostro motto sono chiari: “Una produzione migliore, un’alimentazione migliore, un ambiente migliore ed una vita migliore per tutti, senza lasciare nessuno indietro”.
La collaborazione con realtà come la vostra (Giovani Barnabiti, progetto “Esta è a Floresta”), per noi risulta vitale per raggiungere questi obbiettivi, in quanto siamo fermamente convinti che la trasformazione nasca dal territorio, attraverso il dialogo continuo e lo scambio di conoscenze ed esperienze.
Quale è l’attuale stato delle foreste a livello globale e quali sono le principali minacce che colpiscono le foreste?
Secondo il nostro più recente rapporto della FAO “The state of the World’s Forests” (SOFO) del 2024, le foreste ricoprono circa il 31% dell’intera superficie terrestre, estendendosi per 4,1 miliardi di ettari, ospitando più del 80% della biodiversità del nostro pianeta. Questi dati rendono quindi chiaro che le foreste siano uno dei pilastri vitali della Terra, in quanto svolgono funzioni cruciali per il suolo, per l’acqua, per il clima e conseguentemente per la sicurezza alimentare. Secondo il rapporto citato in precedenza lo stato attuale di questa risorsa è motivo di enorme preoccupazione per via della forte pressione a cui è sottoposta. Infatti, i dati segnalano che nel lasso temporale dal 1990 al 2020, abbiamo assistito ad una perdita complessiva di 420 milioni di ettari di foreste, rappresentando analogicamente un’estensione superiore a quella del territorio dell’India. Nonostante il dato sensibile, è però bene segnalare anche gli elementi che dimostrano un cambio positivo di rotta. Infatti, paragonando i dati dello stesso periodo, la deforestazione globale dimostra un calo di più di 5,6 milioni di ettari rispetto ai principi degli anni 90.
I dati postivi raccolti non sono però sufficienti per ribaltare il critico bilancio globale, che testimonia una perdita annua di milioni di ettari di foresta, dimostrando che il motore del miglioramento è ancora troppo lento.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, le minacce concrete alle foreste risultano essere molteplici. Prima tra tutte il cambiamento climatico, che porta con sé svariati “effetti collaterali”, rendendo le foreste più inclini a stress ambientali, come parassiti e malattie, incendi e siccità, che risultano in una sostanziale perdita di biodiversità e frammentazione degli habitat, alterando l’equilibrio degli ecosistemi e la sopravvivenza di specie vegetali ed animali.
Risulta critico, nell’ottica di preservare gli ecosistemi forestali anche il tema dell’intensificazione della domanda di prodotti, sia di derivazione del legno che da piante e frutti, la cui produzione ha toccato il livello record di quattro miliardi di metri cubi all’anno, dato di cui si prevede un ulteriore incremento.
Ultimo elemento, ma non per importanza, concerne la minaccia sostanziale delle crescenti e continue disuguaglianze sociali, che marginalizzano le comunità che vivono nelle foreste, impedendo loro di essere partecipi nei processi decisionali ed escludendoli dalla suddivisione dei benefici della gestione delle risorse.
Queste minacce sono strettamente interconnesse l’una con l’altra, e la loro sovrapposizione risulta inevitabilmente deleteria e non mitigabile dai progressi raggiunti in questo campo fino a questo momento.
Qual è il legame tra il cambiamento climatico e la deforestazione?
Il cambiamento climatico e la deforestazione sono essenzialmente due facce della stessa crisi ambientale globale, che, alimentandosi vicendevolmente, creano un circolo vizioso pericolosamente nocivo. Infatti, la deforestazione contribuisce notevolmente ad incrementare gli effetti del cambiamento climatico. E, se consideriamo che le foreste sono dei veri e propri serbatoi naturali di carbonio, e quindi fondamentali per assorbire anidride carbonica (CO₂), la deforestazione danneggia questa funzione benefica cruciale. Secondo il SOFO 2024, le foreste hanno assorbito dal 2000 al 2018 circa 2 miliardi di tonnellate di CO₂ ogni anno, contribuendo dunque a raffreddare il clima. Questo dato è importante per comprendere che quando le foreste vengono distrutte, non solo si riduce la capacità di assorbimento di anidride carbonica, ma, vengono anche rilasciati gas serra nell’atmosfera, generando dunque un duplice rischio, accelerando di conseguenza il cambiamento climatico.
Dall’altra parte, è lo stesso cambiamento climatico a contribuire pericolosamente all’indebolimento delle foreste, favorendo la creazione di condizioni climatiche proficue per incendi e per la diffusione di parassiti e malattie.
Si tratta dunque di un instancabile effetto domino che va categoricamente arrestato.
In che modo le foreste sono importanti per contrastare il cambiamento climatico?
Le foreste sono lo strumento naturale più potente che abbiamo a disposizione nella lotta al cambiamento climatico, sono da intendere infatti come parte integrante della soluzione, e non come un dettaglio marginale.
Infatti, le foreste contribuiscono in modo efficace e diretto all’assorbimento di carbonio, che è uno dei principali motori del riscaldamento globale, contribuendo quindi a mitigare in modo sostanziale questa problematica rallentando l’accumulo di gas serra nell’atmosfera. Risulta quindi logico comprendere che, quando una foresta viene distrutta, l’equilibrio climatico vacilla, e proteggerle è una forma di giustizia sociale e climatica.
Inoltre, le foreste sono fondamentali strumenti per la regolazione dei microclimi, in grado di limitare l’impatto di eventi climatici estremi – come ondate di calore, siccità ed inondazioni – grazie alla loro intrinseca capacità di rinfrescare l’aria, di mantenere umidità, di contribuire alla generazione di piogge e di proteggere il suolo (altra risorsa naturale fondamentale per la vita) dall’erosione.
É evidente quindi che preservare le foreste sia imprescindibile per la salvaguardia climatica. La FAO lavora attivamente su questo fronte, comprendendo la centralità del ruolo delle foreste, ed elevandole quindi come uno dei pilastri della nostra strategia climatica 2022-2031, in linea con l’obbiettivo SDG13 (Climate Action).
Quali sono gli impatti sociali della deforestazione?
I dati del nostro rapporto SOFO 2024 dimostrano che al giorno d’oggi il sostentamento di oltre 1,6 miliardi di persone dipende direttamente alle foreste, tra cui 350 milioni che vivono all’interno di aree forestali.
Inoltre, se prendiamo in considerazione la quantità di persone che fa utilizzo di prodotti di derivazione forestale – legnosi e non – i dati salgono esponenzialmente, segnalando che oltre i 3/4 della popolazione mondiale sarebbe colpita dalla problematica in modo sia diretto che indiretto.
Chiaramente, gli effetti su quella fetta di popolazione per cui le foreste sono fonte primaria di sostentamento, sia in termini di cibo e acqua ma anche di reddito, sono pericolosamente più catastrofici. Basti considerare che, nella maggior parte dei casi, gli individui che hanno questo tipo di relazione diretta con le foreste vivono già in condizioni vulnerabili, soprattutto nelle aree del Sud Globale.
La deforestazione estremizza le marginalizzazioni sociali in quelle aree. In primo luogo, funge come amplificatore delle disuguaglianze sociali già esistenti, in particolare di genere e giovanili, in quanto sono queste categorie a pagarne per prime l’altissimo prezzo.
Inoltre, una tematica rilevante è quella delle popolazioni indigene, che più di tutte conoscono e custodiscono i saperi tradizionali della preservazione di quelle aree geografiche. Sembrerebbe quindi logica una loro inclusione nei processi decisionali inerenti alle loro terre, mentre invece, è comune assitere ad una esclusione delle popolazioni indigene da questi importanti processi.
Un ulteriore elemento da considerare è anche quello dei flussi migratori delle comunità che risiedono nelle foreste, spinte dalla deforestazione, ed un potenziale rischio per la materializzazione di un ciclo ulteriore di marginalizzazione.
Nel suo ultimo articolo pubblicato su Avvenire il 5 marzo, parla di “miglioramento di processi di gestione forestale, sociale, politica e istituzionale, come nuovi sforzi per coinvolgere meglio donne, giovani e popolazioni indigene nello sviluppo di soluzioni guidate a livello locale”: in che modo il coinvolgimento di questi gruppi sociali, spesso esclusi o marginalizzati nel dibattito pubblico, può migliorare e contrastare la deforestazione e salvaguardare l’ambiente?
Come spesso accade per quanto concerne le sfide ambientali attuali, le soluzioni più efficaci nascono anche dal territorio, perché è bene tenere a mente che, in questo caso la deforestazione non è esclusivamente una questione tecnica, ma una problematica di carattere profondamente sociale e politico. Non includere i gruppi sociali più esposti e più fragili nei processi decisionali della governance forestale non è solo ingiusto, ma anche controproducente, come dimostrato dai dati riportati dal nostro rapporto SOFO 2024.
Infatti, l’inclusione dei gruppi vulnerabili – come donne, giovani e comunità indigene – viene spesso considerata una componente residuale, mentre invece costituiscono sia un bagaglio nozionistico, culturale e sociale dal valore inestimabile.
Diversi studi indicano che una governance femminile in queste aree, ad esempio, consentirebbe una gestione più consapevole dei prodotti forestali, in quanto sono le donne a svolgere un ruolo cruciale nella loro raccolta e nella trasmissione del sapere. Il potenziale ruolo dei giovani invece, porterebbe idee ed energie nuove, e soprattutto innovazioni tecnologiche e scientifiche. I giovani, infatti, non vanno considerati esclusivamente dei futuri beneficiari, ma soprattutto una forza motrice di cambiamento duraturo ed immediato. Allo stesso modo, le conoscenze tradizionali detenute dalle comunità indigene sono da considerare una risorsa preziosa. Queste comunità, infatti, più di chiunque altro hanno piena consapevolezza di quale sia il migliore approccio per preservare gli ecosistemi forestali, avendo come strumento una tradizione secolare che ha già dimostrato in passato di essere vincente per un corretto mantenimento delle foreste.
La FAO propone come soluzione ottimale a questa problematica una forma di governance condivisa, che risulta essere senza alcun dubbio una sintesi efficacie tra sapere tradizionale ed innovazione scientifica, consentendo una gestione sostenibile dal punto di vista economico, sociale e culturale.
Cosa possiamo fare come singoli individui per contribuire alla protezione delle foreste?
Nonostante sia evidente che molte delle strategie mirate nella lotta alla deforestazione derivino da decisioni prese a livelli istituzionali ed aziendali, il ruolo diretto di cittadini e consumatori rimane comunque cruciale nell’ottica di un impatto reale globale.
Infatti, il nostro rapporto SOFO 2024 segnala come causa principale della deforestazione la conversione in uso agricolo delle foreste.
Tradotto in termini pratici e concreti, quello che possiamo fare noi in qualità di cittadini, è rimodellare il nostro consumo e il nostro stile alimentare ai fini di renderlo più sostenibile e consapevole. Possiamo contribuire nel nostro piccolo a ridurre sprechi selezionando prodotti locali e di stagione, evitare lo spreco di carta, legno e cibo, selezionare prodotti certificati sostenibili, e preferendo aziende che siano trasparenti in merito alle pratiche adottate e sull’origine delle materie prime, e che agiscano nel pieno rispetto della copertura forestale e del suolo in generale.
Il consiglio è, dunque, quello di non essere dei cittadini passivi, ma di dare il giusto peso all’educazione ambientale, approfondendo il tema della deforestazione e condividendone le buone pratiche, sostenendo iniziative e progetti concreti di riforestazione, e supportando leggi e politiche che diano il giusto peso alla sostenibilità ambientale.
Giulia C. – Bologna / Firenze