Cari amici, con ritardo per ovvie questioni d’impegni di lavoro!
Non è facile celebrare la Pasqua oggi.
Non è facile perché abbiamo nel cuore e negli occhi i nostri fratelli cristiani uccisi da una violenza inaudita e inumana, solo perché cristiani, solo perché ogni domenica ancora frequentano le proprie chiese nonostante il pericolo della persecuzione, in beffa alla nostra accidia religiosa occidentale!
Non è stato facile celebrare la Pasqua per i primi amici di Gesù, per quelle donne amiche di Gesù, vere protagoniste della Risurrezione: la speranza nata dall’amicizia con questo uomo di nome Gesù era morta.
L’uomo in cui avevano creduto, forse il Dio che avevano cominciato a riconoscere in Gesù, era oramai chiuso in un sepolcro, schiacciato da una grande pietra.
Le donne vanno al sepolcro, più per pietà che per speranza e portano oli e aromi per il corpo, il corpo morto di Gesù. Non c’è più nulla da fare, c’è solo il problema di spostare una grande pietra!
Non è facile oggi celebrare la Pasqua se siamo solidali con tutti i nostri fratelli cristiani che stanno rischiando la vita a causa del Vangelo.
Come celebrare la Pasqua sapendo che il sepolcro non può nemmeno contenere tutti i 147 giovani keniani, i 50 pakistani, i 21 copti, i … e quanti altri insieme sono periti.
Chi toglierà la pietra del dolore, la pietra della nostra incomprensione?
Chi toglierà la pietra di questa violenza inaudita e inumana?
Scriveva ieri sul Corriere della Sera uno scrittore, non un teologo, un filosofo o un tecnico, ma uno scrittore, perché certe cose solo la letteratura sa scriverle:
«Siamo in buona parte educati e terzomondisti, ma resiste in noi un nocciolo di apatia, ed esso non conosce evoluzione, ragiona in maniera istintiva o non ragiona affatto. Cambiare colore alla pelle dei ragazzi riversi fra le sedie e le chiazze di sangue rappreso cambia ancora qualcosa nella nostra reazione. … Se azzeriamo per un istante la distanza dal Kenya e l’alterità rispetto a quel luogo, Garissa, che fino a giovedì non avevamo sentito nominare; se ignoriamo il fatalismo irriducibile che ci coglie quando i flagelli si abbattono sull’Africa, riconoscere nei cadaveri della fotografia degli studenti in tutto simili a quello che siamo o siamo stati – riconosceremo noi stessi. Perché questo è il punto: i ragazzi dell’università di Garissa sono stati trucidati perché ci assomigliavano, perché cristiani e attratti dalla stessa cultura universale sulla quale si fonda ogni nostro atto quotidiano. Il loro peccato imperdonabile era di essere come noi. … Se potevamo sentirci solo tiepidamente partecipi davanti alle immagini affini dei massacri in Rwanda, stavolta l’esercizio di immedesimazione è un obbligo. Sapremmo tollerare la stessa impietosa prospettiva aerea nei cortili della Sapienza, della Sorbonne, della Federico II?, che una qualunque delle nostre università venisse trasformata per un giorno in una fossa comune? Io non riesco neppure a immaginarlo. Eppure, a quanto pare, è già successo. (Paolo Giordano)
Non è facile celebrare la Pasqua oggi e noi ancora vogliamo andare al sepolcro, ma quali oli e aromi vogliamo portare a questi nostri fratelli perseguitati?
Possiamo portare solo gli aromi della preghiera, vera e unica radice della pace.
Possiamo portare solo gli oli della mitezza, l’unica e vera virtù del cristiano capace di scardinare la pietra del male e dell’apatia dell’Occidente illuminista.
Questi sono gli oli che possiamo portare quest’oggi insieme alle donne dei Vangeli, se vogliamo ancora cantare: Cristo è risorto, è veramente risorto! Alleluia!
5 aprile 2015