Il Regno del Pianeta delle Scimmie: un buon inizio
La serie de Il Pianeta delle Scimmie è iniziata con il romanzo La Planète des Singes dello scrittore francese Pierre Boulle del 1963, rivelandosi uno dei franchise più di successo dell’ultimo periodo. Questo nono capitolo Il Regno del Pianeta delle Scimmie è un collegamento tra la “nuova” trilogia e il romanzo originale, focalizzandosi di nuovo sul concetto di evoluzione. Dopo l’ottima trilogia reboot del Pianeta delle Scimmie, per questo nuovo capitolo intitolato Il Regno del Pianeta delle Scimmie avevo aspettative molto alte. Eppure, mi sarebbe bastato che fosse bello almeno la metà dell’ultimo diretto da Matt Reeves, che personalmente reputo il migliore della trilogia. Diciamolo subito: non è andata così; ma neanche come leggo su molti blog o articoli di giornale. Innanzitutto, bisogna dire che questo nuovo corso riparte 300 anni dopo gli avvenimenti del suo predecessore e vede le scimmie, ormai padroni della Terra, vivere la propria vita divisi in clan, seguendo le proprie leggi, usi e costumi in un mondo dove la leggenda di Cesare viene ricordata e interpretata in maniere differenti. Subito però si vede un’involuzione da parte delle stesse scimmie, molto più vicine al concetto di vivibilità in piena sintonia con Madre Terra, ma con un pizzico di razionalità perduta: non sanno più leggere e hanno dimenticato a parlare correntemente.
Le vicende della trama seguono la storia dello scimpanzè Noa che, dopo aver visto rapito il suo intero clan, intraprende un viaggio insieme all’orango Raka e l’umana Mae verso il villaggio di Proximus Cesare, deciso a liberare i suoi compagni. Dal punto di vista narrativo, la trama, essendo il primo film della nuova trilogia, è molto semplice, ma spesso anche lenta. Infatti, la prima mezz’ora abbondante di pellicola viene dedicata all’organizzazione del clan di Noa nella propria quotidianità e specialmente il loro legame con le aquile, opportunamente addestrate. Non a caso, i problemi di questo capitolo della saga risiedono, dal mio punto di vista, nella durata di un film che poteva fare a meno di una quarantina di minuti (circa 1/5 del film). Alla fine, il film non risulta mai noioso, ma soffre di momenti troppo blandi e discontinui, spesso con dilungazioni non necessarie. La qualità visiva è spettacolare, le location e il motion capture hanno fatto progressi visibili e ben notevoli rispetto anche solo al titolo del 2017; musiche, fotografia e regia invece potevano fare di meglio.
Per quanto riguarda i personaggi, nonostante un evidente sforzo per far affezionare il pubblico ad essi, alla fine risultano effimeri. Lo stesso Noa viene proposto un po’ come il “nuovo Cesare” di questa ipotetica nuova trilogia, ma non è paragonabile nemmeno al Cesare del primo film. Discorso analogo per Proximus Cesare, presentato in pompa magna attraverso poster e trailer come se dovesse essere un nuovo Thanos, si rivela invece che una piatta figurina e come villain vale veramente poco. Ho trovato molto interessante Raka, un anziano orangotango che si può dire interpreti il ruolo del Virgilio per Noa. È qui che lo scimpanzè scopre Cesare ed è grazie a Raka che impara ad empatizzare la temuta Mae. Il rapporto tra i due protagonisti, Noa e Mae, ci fa però intendere che la vita nella selva riesce a portare armonia e invece il continuo ricercare il progresso porta alla disunità; tema ecologista di molto effetto nell’epoca dominata dall’AI. E qui mi ricollego ad un tema importante e ricorrente, quello dell’evoluzione della specie. Il film sembra voglia far intendere che il passaggio degli anni può donare una diversa accezione di cambiamento.
Il fatto che le scimmie si riapproprino della terra, ascoltino il cielo e le aquile, li riporta ad una linearità spirituale distante dall’idea da cui Boulle intendeva la società delle scimmie, ovvero una società tecnologicamente avanzata e razionale. Sempre legato al tempo dell’evoluzione, interessante è anche il binomio schiavo-padrone, e quindi involuzione della specie, che si può riscontrare in Proximus Cesare; il quale utilizzando una propria chiave di lettura decontestualizza i testi di Cesare promuovendosi dittatore delle scimmie, uccidendo poi tutti i suoi oppositori. A conti fatti Il Regno del Pianeta delle Scimmie perde sì il confronto con i suoi predecessori abbassando forse anche gli standard a cui la saga ci aveva abituati, ma non bisogna dimenticarsi di come i film giochino a far finta di essere “schiavi” della saga originale per poi mostrarsi perfettamente padrone degli eventi. E penso che questo verrà rivalutato non poco quando usciranno i nuovi titoli.
Author: Giovani Barnabiti
PIT-STOP
PIT STOP!
Se proviamo a tapparci naso, bocca, orecchie, occhi… nel giro di poco tempo moriamo per mancanza di ossigeno.
L’ossigeno è necessario per vivere; ma non è così scontato che ne siamo consapevoli. Areare una classe tra una lezione e l’altra è spesso un’impresa. Impegnarsi per avere una aria migliore è più delle volte demandato ad altri soliti ignoti. Cercare di inquinare di meno sembra quasi impossibile. Tanto l’aria non si vede.
Eppure senza ossigeno nessuno può vivere.
Ma non di clima o ambiente voglio scrivere, bensì di quel soffio vitale, di quel vento che soffia dove e come vuole, di quell’altro ossigeno indispensabile che è lo Spirito santo.
Tutti voi sapete che sono un grande fan dello Spirito santo, non so perché, ma lo sono, a maggior ragione vicino alla sua festa, la Pentecoste, non posso starmene quieto quieto.
Lo Spirito santo è come l’ossigeno, senza non si vive, ma poiché non si vede perché preoccuparsene più di tanto?
Tutti noi siamo distratti da questo e quello, oppure sempre in corsa per gestire le giornate che ci tocca (ci tocca!) vivere, quindi fermarsi a “cambiare l’aria”, a riprendere ossigeno per ascoltare la voce dello Spirito non se ne parla.
Molti cristiani sanno che senza Spirito santo non si può vivere eppure fanno ben poco per preparare la sua venuta, per tenerselo stretto stretto così da poter correre con Lui la fantasia della vita. Tanto non si vede!
Non c’è bisogno di molto per ricaricarsi di Spirito santo, “cambiare” aria eppure poco si fa! Un pit stop dello Spirito santo non è cosa gravosa, ma necessaria. Eppure?
S. mi diceva che oggi non ci si può fermare, perché bisogna essere sempre “on line”, semmai per ricaricarsi ci si rivolge a un esperto della psiche! Sai, lo psicologo si vede (e si paga), lo Spirito santo no!
Nulla da eccepire sugli psicologi, su questi nuovi satrapi della nostra mente che cercano e anche riescono a preoccuparsi di mente e corpo, ma non possono fare altrettanto dello spirito di ognuno di noi.
La psicologia si occupa di sostenere la “materia”, lo Spirito di dare senso e fine alla materia. Lo Spirito santo non è come l’amore, è l’Amore: senza amore tutto muore, tutto diventa interconnessione, ma non incontro, relazione; mistero dell’esistere. Non ci si può voler bene solo per una serie di alchimie, è necessario il mistero dell’Amore.
Noi soffriamo oggi di assenza di mistero, di mistero dell’esistenza, per questo il corpo e la mente oggi soffrono di più che ieri. Non coltiviamo il mistero dello Spirito santo. Non facciamo quel tanto che basta di pit stop per ricaricare i polmoni di Spirito santo così da poter ossigenare mente e corpo.
Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito. E chi dallo Spirito è nato, e chi lo Spirito coltiva, sa che non sarà mai solo nel suo crescere e nel suo affrontare le situazioni della vita.
In questi giorni verso la Pentecoste, qualche pit spot per ricaricare lo Spirito santo è la cura migliore che possiamo regalarci senza nulla togliere a chi si occupa di corpo e mente. È il modo più semplice e bello per scoprire non come vivere la vita, ma a cosa e a Chi la vita ci chiama!
Gestire la violenza
Passando per Pisa qualche giorno fa non potevo non ripensare a quanto accaduto un paio di mesi fa a degli studenti come me.
Le notizie legate alle violente cariche della polizia contro gli studenti a Pisa accadute il 23 febbraio scorso, sembrano essere state definitivamente archiviate dalle redazioni di quotidiani o Tg. Tutto nella norma, verrebbe da pensare, in un’epoca in cui l’informazione sembra essere legata a un’ostinata ricerca del maggior numero di click e le notizie che suscitano un duraturo interesse nell’opinione pubblica si contano sulle dita di una mano. Se questa cosa sia effettivamente normale o giusta non sta a me dirlo, né vuole essere l’oggetto di queste poche righe.
Come studente però, credo che sia doveroso, oltre che necessario, tornare a riflettere su quanto accaduto, affinché lo stupore e l’indignazione suscitati nelle prime ore dalla notizia diventino un monito che ci ricordi come, in un mondo in cui i principi democratici risultano minacciati, fatti come questo, che minano le fondamenta del nostro Paese, non possono essere minimizzati, giustificati o, ancora peggio, dimenticati.
Condannare l’azione della polizia non significa condividere i motivi per cui era stata organizzata la manifestazione, che, come ognuno di noi ricorderà, era stata indetta per esprimere solidarietà e vicinanza al popolo palestinese. Condannare l’azione della polizia, che non ha fatto nulla per prevenire le violenze, non ha seguito i passaggi graduali previsti in materia di tutela della sicurezza e ha reagito in modo sproporzionato rispetto alla manifestazione pacifica causando 18 feriti, significa far presente a gran voce che la nostra libertà è un principio inviolabile, non negoziabile su cui nessuno di noi sarà mai disposto a scendere a compromessi. E invito chi dà questa cosa per scontata a riguardare le immagini di queste violenze, o a rileggere le recenti notizie di persone che sono state identificate dalla Digos: chi per aver deposto fiori in memoria di Alexei Navalny, sotto la targa in ricordo di Anna Politkovskaya o chi per aver gridato “Viva l’Italia antifascista” durante la Prima della Scala. Tutti questi fatti non possono essere ritenuti casi isolati o normali “falle nel sistema”. Si tratta di veri e propri “schiaffi” a chi ha combattuto e dato la propria vita per la nostra libertà e per tutti quei principi che sono i cardini della nostra Costituzione e che, proprio per questo motivo, non possono essere sottovalutati o normalizzati.
“L’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”: con questa nota ufficiale il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come sempre provvidenziale, ha voluto condannare la violenza della polizia.
Dopo questo comunicato qualcuno di noi si aspettava delle scuse o quantomeno un’autocritica da parte di altre cariche dello Stato che purtroppo, forse non inaspettatamente, non sono arrivate.
Di fronte a questo vero e proprio fallimento non ci resta dunque che fare nostre le parole del Presidente Mattarella e imprimerle nella nostra mente. Solo così questa violenza non sarà mai “archiviata” e saremo sempre consapevoli che per difendere libertà e democrazia non dovremo mai tollerare o minimizzare fatti di questo tipo.
Riccardo S. – Lodi
Lobbisti dell’ambiente
Il fenomeno del riscaldamento globale, come suggerisce il nome stesso, non può riguardare esclusivamente le singole nazioni e neppure singoli continenti. Proprio perché globale necessita di una visione comune, una visione a partire dalla quale scegliere le azioni da compiere affinché gli uomini possano vivere bene sulla Terra.
Per far fronte a questa necessità sono state inventate le COP, le Conferenze annuali delle Parti sul clima, alle quali oggi partecipano 197 paesi (su 205) più l’Unione Europea. Questi furono infatti i paesi firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), il risultato del Summit della Terra del 1992 a Rio De Janeiro.
A partire dal 1995 le COP vengono organizzate ogni anno e oggi, che siamo vicini alla ventinovesima conferenza che si terrà a novembre a Baku, dobbiamo chiederci quali siano stati i risultati ottenuti e quale sia la situazione attuale.
Nel 1995 la Germania, con l’allora ministro dell’ambiente Angela Merkel, ospita la prima COP nella quale i firmatari accettano di incontrarsi ogni anno.
Da questa data ad oggi due sono state le COP più importanti. La COP3, durante la quale venne stilato il protocollo di Kyoto che promette di ridurre del 5,2% le emissioni globali rispetto ai livelli del 1990. Gli Stati Uniti, il paese che allora era il più inquinante al mondo, firmò l’accordo ma non lo ratificò.
La seconda è stata la COP21 di Parigi, in cui è stato trovato l’accordo per contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C e l’obbiettivo emissioni zero per il 2050. Come? Attraverso piani nazionali volontari.
Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, si ritirano dall’accordo nel 2019, per poi rientrare due anni dopo sotto la presidenza di Joe Biden.
La Cina e la Russia dovranno invece raggiungere l’obbiettivo entro il 2060, l’India (che ha da poco superato la Cina ed è diventato lo stato più popoloso del mondo) nel 2070.
E l’ultima COP? Com’è andata?
Il fatto che si sarebbe tenuta a Dubai, capitale di uno stato che fonda la propria economia sulla produzione e il commercio dei combustibili fossili nonché sesto esportatore al mondo di petrolio, non aveva fatto ben sperare sin dall’inizio.
Così come non aveva fatto ben sperare che fosse stato designato presidente della conferenza Sultan Al Jaber, ministro dell’industria e dell’avanzamento tecnologico nonché magnate del petrolio in quanto capo della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC). Queste premesse non hanno tradito le aspettative.
Durante la COP28, Al Jaber ha affermato in un’intervista al The Guardian che “nessuna scienza dimostra che abbandonare i combustibili fossili manterrà l’aumento delle temperature entro 1,5°C”, ignorando decenni di studi dell’impatto antropico sulla temperatura terrestre.
Fatto ancor più grave sarebbe che, secondo un’inchiesta della BBC, Al Jaber avrebbe approfittato del suo ruolo per negoziare accordi in materia di combustibili fossili durante le riunioni preparatorie e ciò sarebbe emerso dall’analisi dei documenti raccolti dai giornalisti del Centre for climate reporting (Ccr).
Altro dato preoccupante della COP di Dubai è stato il numero di lobbisti accreditati delle aziende di combustibili fossili, un’enormità: 2456, quasi cinque volte quelli della COP precedente.
Il risultato? Dopo lunghe trattative, è stata ottenuta la promessa di “allontanamento” dai combustibili fossili entro il 2050, con una formulazione vaga e poco chiara.
Per fortuna, alcuni passi positivi sono stati fatti. La diplomazia climatica esiste ed è anche molto importante che ci siano degli spazi dove essa possa agire. Questo permette inoltre visibilità a chi altrimenti non avrebbe modo di far sentire la propria voce.
Ne è un esempio l’assegnazione della COP23 (2017) alle isole Figi, in rappresentanza dell’alleanza AOSIS (Alliance Of Small Island States) composta da 42 stati che rischiano di ritrovarsi sommersi nei prossimi anni a causa dell’innalzamento dei mari.
Ciò che invece non fa ben sperare è la lentezza di questa macchina diplomatica, poiché a un compito già non facile si aggiungono interessi che ogni stato vuole proteggere.
Luigi C. – Roma
Anche un leone ferito può riaccendere il bello
Qualche domenica fa nella nostra parrocchia della Divina Provvidenza in Firenze, per chiudere un ciclo di conferenze sulla sfida educativa abbiamo ospitato la professoressa e preside dell’Istituto Tecnico e Alberghiero di Caivano, Eugenia Carfora. Nonostante l’orario desueto, quasi mezzogiorno, la sala era gremita ed evidentemente l’interesse per il tema e per l’ospite era molto alto. Carfora, infatti, è diventata celebre, con il nome di Preside Coraggio, già da diversi anni, grazie alla sua lotta e al suo impegno profuso nel rendere le scuole di Caivano un luogo non solo di aggregazione ma di speranza e riscatto per i ragazzi e le ragazze del Comune del Napoletano.
La Preside ci ha parlato della sua esperienza, del suo modo di percepire l’educazione sollecitandoci a essere vivaci, nel nostro piccolo: infatti, in quanto cristiani la nostra missione passa anche dal valorizzare gli altri e investire per il prossimo.
Chi è la professoressa Carfora?
«Sono da sempre abituata a realizzare i miei tuffi insieme ai ragazzi, nella mia vita non mi sono mai allontanata dal contesto giovanile e dalla scuola. Mi sono sempre impegnata nel sociale: quando ebbi l’occasione di andare a lavorare e Castelvolturno mi sono fatta carico di quei bambini che “venivano al mondo comunque”, figli di quelle donne, molte delle quali sfruttate, che quando avevano figli avevano bisogno della scuola e la ricercavano, mi dicevano che avevano bisogno di aiuto per i loro figli, che per loro era importante che andassero a scuola.
Mi pare che li abbia realizzato una consapevolezza importante.
È stato allora che ho realizzato che non per tutti la scuola è vicina, non per tutti la scuola è scontata. In quel momento ho capito che volevo fare questo nella mia vita: iniziai a occuparmi dei problemi della dispersione scolastica, perché mi resi conto che nessuno ne parlava. Mi accorsi che spesso ci si perdeva dietro la burocrazia, e che fra quello che mi dicevano ai convegni e ai corsi, e quello che poi accadeva nella realtà, c’era un abisso.
Poi venne il concorso del 2007!
Quando ho vinto il concorso da dirigente scolastica, nel 2007, emerse un elenco di scuole in cui c’era troppa dispersione scolastica. Venni, quindi, assegnata alla Raffaele Viviani, nel Parco Verde di Caivano, che era considerata la peggiore scuola d’Italia.
Nel parco Verde vivono poche persone, poco più di 3800. In questo pezzetto di terra il contesto è complesso: ci sono molte case che avrebbero dovuto essere temporanee, ma cui, poi, nessuno ha pensato più. Il problema, a mio parere, non è tanto della gente che ci abita, ma della dirigenza che non viene esercitata e dell’amministrazione che sfrutta la povera gente.
Ci sono due scuole, di cui una delle due è la Viviani. Quando arrivai per la prima volta a vedere la sede, mi trovai davanti a quella che non poteva essere davvero una scuola: un edificio abbandonato, chiuso catenacci davanti ai cancelli, materassi accatastati all’ingresso e una signora con una scopa che puliva il viale. Andai allora in succursale, ma una volta arrivata, non mi presentai come futura preside. Chiesi se ci fosse qualcun con cui poter parlare, mi dissero che erano tutti in ferie. Ovunque c’era disordine e confusione. Chiesi informazioni e mi spiegarono la situazione: nella sede centrale al Parco Verde nessuno voleva andare, c’erano molti studenti iscritti, ma la maggior parte non andava a scuola, i professori facevano tardi e i pochi ragazzi che si presentavano a lezione erano spesso lasciati soli in aula.
La mia sfida educativa, in quel primo periodo, è stata principalmente fare le pulizie, ripulire tutta la scuola e gli ambienti. Finita la parte di pulizia e riordino, sistemati gli spazi, mi aspettavo che i ragazzi sarebbero venuti a scuola, ma così non accadde, e capii che, in realtà, la mia nuova sfida educativa era far venire i ragazzi a scuola con gioia. Una mattina decisi di scendere in strada e andare per le vie a cercare i miei studenti. Camminando vedevo le persone su balconi delle case. Quando mi vedevano a loro volta, molti mi chiamavano, mi invitavano nelle loro case, mi offrivano il caffè: in questi gesti, in quei silenzi, vidi una disperata richiesta di aiuto. I ragazzi continuavano a non venire a scuola e mi chiedevo perché. Capii che questi giovani spesso sono partoriti con atti, non so se di amore, perché nella solitudine ci si incontra e si vivono le pulsioni.
Scoprii qualcosa nel Parco Verde: tutto lì era già predestinato. C’era bisogno di cambiare molte cose, così decisi di introdurre il tempo prolungato per tenere più tempo i ragazzi scuola, la stavo trasformando in un istituto di eccellenza. Volevo anche introdurre la possibilità di crescere i bambini fin dall’infanzia, ampliare i gradi di istruzione per evitare la dispersione scolastica. Il mio progetto, però, è stato bloccato dai colletti bianchi che detenevano il potere nel territorio, che mi hanno costretto ad andare via.
Alla fine, fui spostata in una scuola che, secondo i piani, doveva sparire dalla mappa di Caivano. Si diceva che mancassero le aule, ma io ne trovai 30 vuote, utilizzabili, mentre tutti dicevano che era necessario costruire altre scuole. Ricordo che, in quei mesi, ci fu un ragazzo che venne a dirmi che ero come un leone ferito: soffrivo, ma non ero morta. Anche grazie a queste parole decisi di accettare il posto e buttarmi in questa impresa. Non so se ho svolto bene il mio lavoro di preside, ma sicuramente ho fatto una scelta: per metà sono una preside, per l’altra metà sono ciò che mi passa per la testa. Iniziai a sistemare tutto anche nella nuova scuola, mi sono messa a lavorare con altre persone per creare la bellezza interna, fatta di sacrifici e pulizia. Sfida educativa vuol dire anche prendersi le responsabilità, agire attivamente, senza scorciatoie.
Cosa vuol dire, quindi, sfida educativa?
Credo che si possa fare n paragone fra la Scuola e la Chiesa: la Chiesa cerca di curare le anime, ma non ha la responsabilità di certificare i risultati delle persone, cosa che invece deve fare la Scuola. La Chiesa ha l’obbligo morale di dare una carezza a chi sbaglia e a chi si perde. La Scuola ha mezzi diversi, ma ha scopi, secondo me, comuni: dare alla famiglia umana dei valori, non solo predicandoli, ma praticandoli attivamente. La Scuola si divide in semi e germogli: entrambi cadono nel terreno. Se il terreno è inquinato, va pulito con le nostre mani. Gli educatori devono riuscire ad essere di fianco ai ragazzi e alle ragazze, devono essere modelli, non devono portare nella direzione che vogliono loro ma devono riuscire ad instaurare un colloquio, un ascolto: da questo il concetto di rigenerazione. Per contare bisogna esserci: è importante come ci comportiamo in tutti i giorni, dobbiamo scegliere fin dall’origine cosa fare nella nostra vita, altrimenti si corre il rischio di perdere tutto. Non importa se abbiamo l’approvazione degli altri, perché può venire meno da un momento all’altro. L’importante nella vita è condividere una missione e una visione. Io al Parco Verde ho immaginato di portare la bellezza e ho cercato di rendere visibile all’altro il bello, impegnandoci per superare giudizi e pregiudizi, per evitare di creare un ghetto. Dobbiamo riuscire a far nascere nei giovani la volontà di ricreare il bello e il benessere anche nelle periferie.
È importante che i ragazzi imparino che niente arriva per caso, che è necessario impegnarsi e coltivare i propri talenti, ricordando che niente è dato per scontato. Gli educatori, però, hanno come sfida educativa quella di aiutare i ragazzi a far emergere i propri talenti, investire nei ragazzi là dove gli altri non investono, aiutandoli a scoprire le proprie passioni e ambizioni. I miei studenti sono esemplari in questo, perché senza avere niente, sono riusciti a creare la bellezza: ognuno di noi sta lavorando per ricucire la coesione sociale e la responsabilità in questi luoghi, ma è un percorso lungo, che passa attraverso la responsabilità di tutti, come singoli e come collettività.
Sfida educativa è utilizzare ogni attimo di vita che abbiamo, ricordando che ciò che conta non è l’apparenza ma la sostanza.
Quali ricchezze si sente di trovare nei luoghi in cui lavora quotidianamente? Sono ricchezze che in altri contesti non si riesce a cogliere?
Ci sono tanti sguardi, tante parole. Un semplice saluto, un buongiorno, per me quella è ricchezza. Spesso in città la gente non si saluta più, mentre io nel mio lavoro trovo gente che mi saluta, gente che mi chiede aiuto. Tutto questo mi da la forza di credere ancora nell’umanità e nello stare insieme.
Secondo lei, quanto il benessere economico e sociale incide sulla ricettività degli studenti e su come i ragazzi si approcciano alla scuola?
Io credo che la cosa veramente importante sia stimolare a creare e far emergere il bello e la creatività nei ragazzi, affinché diventino orme e tracce su cui progettare il proprio percorso in futuro. Per questo credo che non sempre il benessere economico sia la vera ricchezza, il vero benessere è tutelare i valori.
L’educazione non riguarda solo i ragazzi e la scuola, ma anche gli adulti. Anche questi dovrebbero essere in qualche modo rieducati all’ascolto e a piccole attenzioni nel modo in cui si rapportano con i giovani?
Gli adulti hanno smesso di essere modelli, e questo è un pericolo, perché se i giovani vedono che i genitori non parlano più, che gli adulti fanno finta di niente e si lamentano e basta, non è più un ruolo di guida positiva. Gli adulti dovrebbero imparare a mettersi accanto e a rimodulare il loro modo di approcciarsi, per evitare di creare un muro fra loro e i giovani. Forse noi adulti dovremmo diventare un po’ invisibili e renderci capaci di ascoltare i giovani, mettendo a disposizione la nostra esperienza.
Cosa la sostiene in queste sue scelte così coraggiose e faticosa?
Quando ti rendi conto che c’è da fare, non ti chiedi se ce la farai. In questi luoghi, la forza emerge senza che tu te ne accorga. Mi immagino la vita come una consegna di testimone, dove creo qualcosa di bello per ciò che verrà in futuro.
Secondo lei quale è il problema principale della scuola?
Ci siamo innamorati di ciò che abbiamo costruito in passato, ma siamo rimasti fermi lì. Dobbiamo trovare il coraggio di far diventare la professione di docente la più bella del mondo, ma io vedo sempre meno persone appassionate. Vorrei una scuola che faccia innamorare i ragazzi della cultura, che li incanti in aula e che li faccia innamorare della materia. Bisogna stimolare la cultura e lasciare spazio ai ragazzi di emergere con le loro idee. Credo che dovrebbero essere introdotte tre discipline fondamentali nella scuola: la filosofia, il diritto e l’economia sana.
C’è stato un momento dove ha capito che ciò che stava facendo si stava davvero concretizzando?
C’è un episodio che vorrei raccontare. C’era una ragazza che non riusciva proprio a stare a scuola, aveva molte difficoltà a studiare. Era già stata non ammessa due anni consecutivi alla classe successiva, però mi ero accorta che ogni cosa che toccava, la faceva brillare, puliva tutto alla perfezione, riordinava gli ambienti e sistemava le cose. Una volta le chiesi cosa le piacesse davvero fare, lei mi rispose che le piaceva fare e pulizie e tenere la casa pulita. Facemmo un accordo: lei mi promise che avrebbe seguito tutte le prime ore di lezione, e io in cambio le promisi che avrebbe potuto ripulire e sistemare tutto il mio ufficio come meglio credeva. In questo modo, riuscii a farle seguire le lezioni a cui non era mai andata.
Giulia C. – Firenze
Gioia e speranza della Quaresima 2024
Diciamo che la lettera di papa Francesco per la Quaresima 2024 affronta temi profondi e universali che vanno al di là delle divisioni religiose. Innanzitutto, il richiamo alla libertà come dono divino e la necessità di uscire dalle schiavitù interiori e esteriori risuona in modo potente. Anche se non si condivide la fede cattolica, il concetto di liberazione e di ricerca di una vita piena e autentica è qualcosa a cui molti possono aspirare.
Inoltre, il messaggio mette in luce la responsabilità individuale e collettiva nel riconoscere e rispondere alle sofferenze degli altri. L’invito a non essere indifferenti di fronte alle ingiustizie e alle oppressioni richiama alla nostra comune umanità e alla necessità di solidarietà e compassione. Questo è particolarmente rilevante in un’epoca segnata da conflitti, disuguaglianze e crisi umanitarie su scala globale (ahimè).
La lettera sottolinea anche l’importanza di agire concretamente per il bene degli altri e per la cura del creato. Questo richiamo all’impegno sociale e ambientale ci spinge a considerare le nostre azioni quotidiane e le loro implicazioni sul pianeta e sulla vita degli altri esseri umani. È un appello a una maggiore consapevolezza e responsabilità nell’utilizzo delle risorse e nella gestione dei rapporti interpersonali.
Anche se il mondo può sembrare segnato da divisioni e conflitti, il richiamo alla conversione personale e collettiva verso un modo più autentico e inclusivo di vivere offre una prospettiva luminosa per il futuro. In definitiva, la lettera invita tutti, indipendentemente dalle proprie credenze, a riflettere sulle proprie azioni e a impegnarsi per un mondo migliore fondato sull’amore e sulla giustizia.
Per realizzare questa novità è necessario però liberarci dalle nostre schiavitù, dai nostri idoli. A questo proposito mi pare interessante e utile sottolineare il parallelismo che il papa pone tra il percorso, la vita di Gesù e il percorso dell’Esodo, della liberazione degli ebrei dal Faraone d’Egitto. Gesù è colui che ci insegna a vivere nel deserto, a ri-conoscere noi stessi, a liberarci dal “faraone” che ci opprime.
Il deserto dei 40 giorni di quaresima è il luogo dove operare un maquillage del nostro volto, ma non solo una estetica di facciata, bensì del pensare, dell’amare, del decidere. Nel deserto il credente ri-trova il suo volto nel volto di Gesù, non un volto fotocopia, ma un volto, una storia che ritrova nella storia di Gesù la matrice sulla quale costruire la propria vicenda di uomo e di credente libero.
Non la malinconia. «Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.»
Papa Francesco ci racconta quella ventata di speranza che in questo periodo serve a tutti per sperare e per risollevarsi, una ventata che spesso ci dimentichiamo di avere per poter vivere una vita che possa rendere felici e speranzosi gli altri oltre che noi stessi.
Infine, «Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività.» La creatività è uno dei doni più belli che l’umanità possa avere. È bello capire che la Quaresima può essere il periodo in cui l’umanità smarrita può sempre trovare la strada per fare cose nuove.
Vincenzo, Gianluigi, Andrea
Cocciuti nel seguire il vangelo
Milano, 25 gennaio, festa della Conversione di san Paolo; in questo giorno così importante per i Barnabiti, siamo a Milano comunità di san Barnaba per incontrare tre persone che il prossimo 18 febbraio diventeranno barnabiti per sempre. Sylvan, Luca, Isaac.
Sylvan (NKONGOLO Wa Mutombo di Kinshasa RDCongo), 33 anni.
La gioia è la parola che di più usa per parlarci di sé. La gioia invocata per lui dai suoi genitori prima di entrare in seminario a 2000km di distanza da loro!
La gioia di sentirsi per questo mondo, che spesso oggi sembra lontano dai valor cristiani, utile e significativo nonostante le proprie imperfezioni.
La gioia di conoscere sant’Antonio Maria Zaccaria che si fida molto di me, che mi incita a crescere continuamente nel fare il bene, nel superare la tiepidezza.
Per questo chiedo ai giovani di non avere paura di ma di rischiare la vita non solo con le parole, ma con azioni concrete. Mentre agli anziani chiedo di avere fiducia in noi e sostenerci.
Un po’ diversa la storia di Luca (Spreafico di Eupilio), età 37, laureato in scienze agrarie.
Infanzia e giovinezza in oratorio dove ha incontrato i Barnabiti, il loro impegno per i giovani e la fraternità e il costante buon umore di p. Albino Dutto.
Per questo anche in futuro vorrebbe trovare il medesimo clima sereno e fraterno, peraltro già vissuto durante l’anno di noviziato in Chile.
E se hai barnabiti anziani chiede di essere meno cocciuti ed egocentrici! ai giovani dice di prendere sul serio la vita di fede con la sua bellezza e provocazioni.
Infine, Don Isaac (Segovia, Choré/Paraguay), 40 anni, laureato in diritto canonico.
E una vocazione adulta, per questo ha avuto modo di girare diverse comunità barnabitiche del Brasile dal Sud al Nord, scoprendo i differenti modi di vivere la fede. «Prima della vocazione ho lavorato nel Congresso nazionale del Paraguay, quindi con i bambini di strada a Sao Paulo. In tutti questi giri, ma anche oggi, il ricordo che mi sostiene è la famiglia. Di questa nuova famiglia barnabitica invece voglio percepire continuamente il desiderio di una riforma continua: non siamo mai santi abbastanza. Per questo chiedo ai padri più anziani chiedo di stare insieme ai più giovani per illuminarli, per crescere con la loro storia viva da condividere. Infine, un desiderio: mi piacerebbe lavorare come barnabita nell’Università.»
Poche righe per tracciare il profilo di grandi storie di oggi per il futuro, radicato in una famiglia religiosa che proprio oggi (era il 18 febbraio 1533 a Bologna) festeggia il proprio compleanno. Quale regalo più bello che la professione solenne, cioè la scelta di seguire per sempre la strada del vangelo secondo la via tracciata da S. Antonio M. Zaccaria ?
Belém 2025 – COP30
Belém não é apenas o destino desta minha viagem, Belém, porta de entrada para a Amazônia, é a cidade escolhida para sediar a COP30 (conferência das partes organizada pela ONU sobre problemas climáticos) em novembro de 2025.
O que tenho a ver com a COP30?
O que os Barnabitas têm a ver com isso?
Não sou um cidadão deste mundo?
Os Barnabitas não são chamados a servir este mundo, a reconhecer os seus gemidos e dores, a trazer esperança e justiça?
A questão climática não é apenas ideologia ou moda atual: para um crente significa cuidar da criação na qual Deus nos colocou. A ecologia diz respeito ao clima e ao ambiente, mas antes de tudo ao próprio homem, à forma como o homem e a mulher se reconhecem para além ou antes de reconhecerem o ambiente.
Os Barnabitas estão presentes em Belém há 110 anos. Quem vive mais as alterações climáticas e as consequências para a natureza e para os homens e mulheres do que eles? Quem mais do que eles, pode nos ajudar a construir caminhos de verdade e justiça?
Faz sentido que um homem simples e desconhecido vá perturbá-los vindo da Itália?
Somos cidadãos deste mundo, responsáveis pelos danos causados e pelas soluções a oferecer e construir.
Devemos isso, em primeiro lugar, aos jovens e às crianças com quem trabalhamos, se não quisermos ser hipócritas. Devemos isso à Verdade. Devemos isso a Deus!
Talvez os nossos jovens consigam intervir diretamente na COP30, mas este não é o objetivo final.
Belém não é apenas o destino da minha viagem, Belém é a oportunidade para exortar a nós, Barnabitas, a uma pastoral renovada para uma ecologia integral.
Giannicola M. prete
29 janeiro 2024
In viaggio verso Belém do Parà
Belem non è solo la meta di questo mio viaggio, Belem, la porta dell’Amazzonia, è la città scelta per ospitare nel novembre 2025 la COP30 (conferenza delle parti organizzata dall’ONU riguardo i problemi del clima).
Che c’entro io con la COP30?
Che c’entrano i Barnabiti?
Non sono forse io un cittadino di questo mondo?
Non sono forse i Barnabiti chiamati a servire questo mondo, a riconoscerne i gemiti e i dolori, a portare speranza e giustizia?
La questione climatica non è solo ideologia o moda del momento: per un credente è prendersi cura del creato in cui Dio ci ha posti. L’ecologia riguarda il clima e l’ambiente ma prima di tutto l’uomo in sé, il modo in cui l’uomo e la donna si ri-conoscono oltre o prima di ri-conoscere l’ambiente.
A Belem i Barnabiti sono presenti da 110 anni, chi più di loro sperimenta i cambiamenti climatici e le conseguenze sulla natura e sugli uomini e le donne?
Chi più di loro può aiutarci a costruire dei percorsi di verità e giustizia?
A senso che un semplice e sconosciuto uomo vada a disturbarli dall’Italia?
Siamo cittadini di questo mondo, responsabili dei danni operati e delle soluzioni da offrire e costruire.
Lo dobbiamo prima di tutto ai giovani e bambini con cui lavoriamo, se non vogliamo essere ipocriti.
Lo dobbiamo alla Verità. Lo dobbiamo a Dio!
Forse i nostri giovani potranno intervenire direttamente alla COP30, ma non è questa la meta finale.
Belem non è solo la meta del mio viaggio, Belem è l’occasione per sollecitare noi Barnabiti a una rinnovata pastorale per una ecologia integrale.
Giannicola M. prete
29 gennaio 2024
SANTOCIELO
«Se qualcuno ci ascolta o no è secondario, ma mi sento meno solo quando prego.»
Dal 14 dicembre è nelle sale il nuovo film di Ficarra e Picone, Santocielo, diretto da Francesco Amato; già regista di 18 regali.
Personalmente, il loro cinema non mi ha quasi mai convinto a differenza di quando li vedo in televisione. Nonostante il trailer non mi abbia fatto suscitare nulla, ero curioso di vederlo perché in primis il duo comico ritornava a parlare di religione dopo Il primo Natale e di cose legate all’ambiente cattolico, ma anche perché la nuova pellicola verteva su un argomento tanto interessante quanto delicato: un uomo che resta incinto per uno sbaglio commesso dall’Angelo mandato dal Padre Eterno con lo scopo di far nascere un nuovo Messia. Come si può capire, la premessa è fantasiosa e surreale. Ero quindi curioso di vedere se la coppia riusciva nell’intento di far riflettere gli spettatori e la critica circa un tema difficile da trattare e molto facile da far sfuggire di mano se non si riesce ad amalgamare bene con la trama, la durata e il racconto che vuole essere pure comico.
Il primo tempo può risultare anche carino da guardare, nonostante non si fosse prestato subito a rispettare le mie attese. La trama è molto banale e anche certi passaggi nel film non sono da meno. Ci sono diversi difetti: troviamo Giovanni Storti nei panni di Dio, uno dei ruoli più funzionali del film, ma lo si vede soltanto pochi minuti in circa due ore di pellicola. Inoltre, la durata è troppo lunga perché le commedie simili a questa dovrebbero durare sui 90-100 minuti. È un film che tratta l’inversione dei sessi in modo molto leggero, confuso nei suoi intenti e poco incisivo con l’umorismo. Tutto sembra spento, anche le gag non sembrano divertenti e spesso forzate.
Nel secondo tempo invece troviamo problemi legati alla Bibbia che possono essere orientati verso una mancanza di coraggio nell’affrontare certe tematiche. Santocielo sembra voler parlare della Chiesa che, come nella realtà, non accetta l’unione tra due persone dello stesso stesso, figuriamoci doversi trovar di fronte ad un uomo che deve partorire suo figlio. Da questo pretesto sarebbero potute nascere cose interessanti e stimolanti che avrebbero portato il pubblico a ridere, ma anche e soprattutto a pensare e riflettere su ciò appena visto. Mi è sembrato che il film non volesse aprire alcune porte, bensì tenersi nella “safe zone”.
Si va verso un finale accomodante, per niente incisivo dove forzatamente regnano i buoni sentimenti, ma dove anche non si ha il coraggio di criticare nessuno. Tutto quello che potrebbe essere devastante viene trattato come una piccola notazione irrilevante, macchiettistico e caricaturale. Come, ad esempio, la storia d’amore parallela tra l’Angelo e la suora. Essa è esterna al tema del film, ma condotta con una banalità che lo spunto non avrebbe. Pensiamo infatti a come una suora si sentirebbe e cosa proverebbe qualora si dovesse mai innamorare di una persona. Probabilmente le susciterebbero pensieri lontani dal percorso che ha scelto per la sua vita, e quindi di star perdendo la propria fede.
In Santocielo però ci sono proprio in ballo questioni cristiani come l’aborto o la tendenza degli umani a invocare l’aiuto divino per questioni triviali o altre situazioni scherzose che solitamente il cinema cristiano non fa. Quindi anche qui, non si capisce molto bene il taglio che hanno voluto dare all’opera. Avrei preferito e mi sarebbe piaciuto vedere uno spettacolo che, tra una risata e l’altra, denunciasse anche l’aspetto più bigotto della Chiesa (che non significa essere anticlericali) circa le unioni omosessuali, in quanto, lo ripeto, avrebbe fatto riflettere su una piaga che coinvolge la Chiesa da anni.
Marco C. – Milano