CADERE

Nelle nostre vite può accadere di tutto e tutti ovviamente speriamo in avvenimenti felici e opportunità che ci permettono di avere una vita facile e di cui vantarci con gli amici davanti a una tazza di caffè o a una buona pizza e birra. Ma è tutta speranza e apparenza perché la realtà dei fatti è che ognuno di noi cade per motivi diversi e ci ritroviamo a dover affrontare eventi che segneranno a vita il nostro percorso.
Riuscire ad alzarsi e “sopravvivere” ai traumi che comportano molte volte queste cadute, sia fisiche che psicologiche, è faticoso e non sempre si riesce a dimenticare o a perdonare il motivo di tale sofferenza ma la perseveranza e il lavorare su se stessi sono molte volte l’inizio della guarigione.
Una delle cadute peggiori che una persona deve affrontare è la violenza, che sia su donne uomini o bambini.
Le vittime di violenza perdono la speranza, si chiudono in se stesse domandandosi “perché proprio io?” oppure “dov’è Dio?”. In queste situazioni si tende a percorrere due strade: il rifiuto e il disprezzo nella fede o la scoperta di amore che va al di sopra di quello carnale; quello di Dio.
Il rifiuto verso Dio è dovuto alla sofferenza e alla sensazione di abbandono che si prova nelle situazioni dolorose; mentre la scoperta della fede è un’ancora alla quale le persone si attaccano con tutta la loro forza per riuscire a superare tutto quello che hanno passato. Come hanno fatto dei giovani ragazzi di Kinshasa, che davanti al Papa hanno avuto la forza di raccontare le loro drammatiche esperienze per dare esempio ad altre persone che hanno affrontato o stanno ancora affrontando tali torture.
Credo che in ogni caso il primo passo verso l’inizio di una nuova vita debba partire dall’accettare e perdonare. Non per forza dal perdonare il proprio carnefice, ma dal perdonare e dall’accettare noi stessi per come siamo; le nostre debolezze e le nostre forze che ci aiutano a proseguire il nostro percorso di vita.
Martina C. – Bologna 3 les

490 anni!

«È proprio dei grandi cuori mettersi al servizio degli altri senza ricompensa e combattere non in vista della paga»

Era il 18 febbraio 1533 quando a Bologna Papa Clemente VII concedeva, al cremonese Sant’Antonio Maria Zaccaria, il Breve di Approvazione dei Chierici Regolari di S. Paolo, che i milanesi chiameranno poi Barnabiti dal nome della loro prima sede, la chiesa milanese di S. Barnaba. È uno dei più antichi ordini di chierici regolari nella storia della Chiesa e ad esso partecipano anche l’istituto religioso delle Suore Angeliche di San Paolo, congregazione parallela a quella maschile dei Barnabiti, e i Laici di S. Paolo. L’Ordine ha quindi anticipato e, in un certo senso, anche preannunciato la Riforma cattolica nei confronti della Riforma protestante in Europa.
I primi gruppi erano assiduamente dediti a poveri, ammalati e ai giovani. Nei decenni successivi, la continua ricerca della santità e il notevole altruismo con il quale i gruppi barnabitici erano conosciuti, ha coinvolto ed affascinato le aristocrazie, nonché il ceto medio borghese, delle cittadine lombarde. Ad oggi, son passati 490 anni da quel giorno e si può affermare con certezza che “qualcosina” è stato fatto. Ad esempio, il prefetto dell’Archivio Segreto del Vaticano è il barnabita padre Sergio Pagano. Preferisco però soffermarmi maggiormente su ciò che i Chierici Regolari lasciano a chi li conosce da vicino piuttosto che sulle figure politiche-religiose.
I Barnabiti si trovano difatti in tutto il mondo, anche dove l’intolleranza religiosa e la violenza sono la normalità per gli abitanti del posto: dalle Americhe (USA, Messico, Brasile, Argentina e Cile) fino all’Asia (Filippine, India, Indonesia e Afghanistan) passando per l’Africa (RD Congo e Ruanda e Tanzania) con numerose comunità nonché case religiose. Come allora, la missione dei Padri è quella di prendersi cura della gioventù negli oratori e nelle scuole. Contribuiscono infatti alla formazione umana, insegnando ai ragazzi non soltanto conoscenze teoriche, ma anche valori spirituali e cristiani. E questo perché la scuola, come voleva il Fondatore, è vista da sempre come uno strumento prezioso di evangelizzazione e promozione umana.
Come ha rilasciato in molte interviste padre Pasquale Riillo, si può pensare che parte del successo, e aggiungerei anche dell’umiltà, di Parini, Manzoni e Montale sia avvenuto sì grazie alla loro genialità, ma anche per una educazione basata sulle nozioni scolastiche, ma quasi sicuramente anche su valori come il rispetto, l’educazione e la disciplina, fondamentali per la vita di tutti i giorni.
Insieme a mio fratello ho avuto la fortuna di essere cresciuto in un ambiente barnabitico. In realtà, è una situazione che si ripete da diverse generazioni perché molti nostri parenti hanno studiato dai Barnabiti presso il Collegio San Francesco di Lodi. Ai tempi di padre Fiore e padre Mancini, quando mia madre e mio zio erano dei giovani adolescenti, il Collegio registrava molti iscritti ed era molto rinomato nell’ambiente Lombardo. Erano circa 700 alunni, per lo più convittori e cioè studenti che vivevano nella struttura ecclesiastica, che frequentavano. Il ricordo che si portano dietro di quegli anni è molto positivo, spesso ci raccontano di storie che succedevano a scuola oppure nel convitto e nei chiostri. Ne accadevano di ogni colore, erano altri tempi e tutti ci ridevano sopra per quello che veniva commesso. Questo faceva sì che si creasse anche uno spirito di appartenenza e di grande famiglia allargata, oggi parleremmo di teambuilding, tra gli studenti che prima di essere compagni di scuola o di camera erano amici nella vita quotidiana. Per Lodi giravano sempre insieme, tutta la città li riconosceva ed era un po’ come quello che adesso vediamo nelle serie tv ambientate nei college americani. Molti di loro sono rimasti tutt’ora amici, altri invece si sono persi, ma quando ci sono gli incontri degli ex alunni, si riconoscono e ridono ancora insieme raccontandosi le vicende del SanFra. Le generazioni successive, come la mia o quella di mio fratello, non hanno potuto purtroppo godere gli anni migliori per via della crisi religiosa che ha colpito la Chiesa e di conseguenza anche il Collegio. Gli iscritti sono drasticamente calati per diversi motivi sui quali non mi voglio tanto soffermare, ma tra i quali possiamo annoverare un corpo docente laico che non ha la stessa passione e grinta posseduta dai sacerdoti, un disinteresse generale verso la cultura e anche una società meno religiosa. Tutto questo porta una famiglia a non investire tanto economicamente in una scuola paritaria e per una educazione ecclesiastica. Nonostante ciò, posso lo stesso dire che i principi e i sani valori non si sono persi con il tempo e, seppur in un numero più ristretto, le persone cercano e portano ancora avanti le opere apostoliche dei Barnabiti. Il volontariato, ricordiamo l’affermazione con la quale
«È proprio dei grandi cuori mettersi al servizio degli altri senza ricompensa e combattere non in vista della paga», così Sant’Antonio Maria Zaccaria ha voluto spiegare la visione del suo Ordine. Qui attinge anche l’attuale volontariato zaccariano che grazie al dialogo tra vecchie e nuove leve i Padri riescono ad avere iniziative più smart per raccogliere fondi e raggiungere lo stesso tutte le classi della società attuale. Ne è un esempio l’iniziativa pasquale che trovate sul nostro Blog www.giovanibarnabiti.it, con la quale attraverso l’offerta di colombe artigianali si cerca di raccogliere dei fondi per il progetto “dona un futuro” per bambini di Merida in Messico, attività estiva dei giovani volontari zaccariani con i Padri e i giovani del posto.
I tempi cambiano e di conseguenza anche le persone devono evolversi e adattarsi. Posso affermare, con il consenso anche di alcuni miei ex compagni nonché amici, che i padri si sono adattati bene e riescono a tenere unite le persone sotto un unico grande tetto senza distinzioni tra gli Ordini o tra le città di provenienza. Quando ci si vede sembra di conoscersi da molto tempo e nessun altro istituto lo può insegnare, anzi tantissimi compagni di classe finita la scuola non si cercano più. Qui addirittura studenti di diverse età e diverse strutture barnabitiche chiacchierano insieme come se nulla fosse. Pensate, sembra scontato, ma con l’avvento di Internet la comunità giovanile è ancora più unita e coesa anche al di fuori dei propri confini nazionali. Come se prima di essere italiani, brasiliani o indiani fossimo barnabiti; penso fosse stata proprio questa la volontà del Fondatore.
Marco C. – Milano

SUICIDI IN CARCERE

Il tema dei suicidi è molto delicato, sia che si tratti di persone detenute che di persone in libertà. Riguarda la salute mentale e la salute dell’anima.
In questa sede affrontiamo un incremento dei suicidi in carcere e una brevissima riflessione sull’esecuzione delle pene.
Il dato dei suicidi di persone detenute in carcere è il più alto mai registrato nella storia, tanto da attirare attenzione mediatica a livello nazionale su un tema che è sempre stato presente ma poco trattato.
Sicuramente il carcere è un luogo che, per sua natura, chiude, isola e deprime, ma recentemente la situazione, visto anche il collasso del sistema penitenziario italiano, sembra essersi aggravata ulteriormente.
Perché una persona preferisce porre fine alla propria vita piuttosto che scontare una condanna?
Partendo dall’analisi di ciò che è la pena, si potrà evincere la pluralità di funzioni che questa mira, in primis la sicurezza della società, andando a bloccare chi ha commesso reati, in secundis la rieducazione dei condannati e il loro reinserimento sociale.
Queste funzioni sono opposte tra loro e pare che lo Stato non abbia mai davvero trovato un equilibrio.
Come posso proteggere i cittadini dai criminali e allo stesso tempo rendere questi ultimi persone migliori e dedite al rispetto della legge?!
Questa domanda retorica è fondamentale per vedere dall’alto ciò che è l’ordinamento penitenziario, di quanto difficoltoso sia farlo funzionare e di quanta confusione si sia creata in questo settore.
Bisogna accorgersi, infatti, che questa duplice funzione sia un’utopia e non basta scrivere dei bei principi in Costituzione e aspettarsi che la realtà segua la poesia.
È la poesia che descrive la realtà, non viceversa.
L’applicazione pratica del nostro ordinamento penitenziario si traduce in una generale disfunzione dell’apparato sanzionatorio, non solo da un punto di vista strutturale, ma soprattutto da un punto di vista giuridico.
Ad esempio è noto come l’opinione pubblica si lamenti di pene troppo tenui per i criminali, avendo peraltro ben ragione di farlo, poiché il processo ha una struttura volta a favorire l’imputato e ha dei meccanismi che vengono abusati e che portano a una impunità dei reati.
Dall’altro lato non ci si rende conto di quanto invasiva e disturbante possa essere la giustizia penale, di come certe garanzie siano necessarie per proteggere le persone, anche colpevoli, dall’inquisizione statale e, infine, di cosa significhi realmente essere detenuti.
Il carcere ti rende inutile, ti rinchiude in una vita che ti vuole punire ma non ti da speranza.
Basterebbe iniziare a immedesimarsi nei detenuti per rendersi conto, per poter migliorare il sistema e salvare vite.
Il suicidio di un detenuto in carcere non solo è una sconfitta per l’ordinamento, ma è anche una complicità colposa da parte dello Stato.
Eccezioni alla generale regola sono tanti esempi positivi di persone che sono riuscite a migliorare e a rinascere in carcere grazie alla fede che è intervenuta e ha cambiato le loro vite nel momento più buio.

Paolo P. – Pavia

Le fatiche del femminismo cristiano

Gli anni a cavallo tra il XIX e il XX secolo furono anni di grande cambiamento e fermento, in cui movimenti culturali e femministi iniziarono a reclamare a gran voce il riconoscimento dei diritti per le donne.
Oltre ai noti movimenti suffragisti inglesi e americani, ne esistevano diversi anche in Italia, portati avanti da studiose, filosofe e giornaliste. In molti casi, si trattò di associazioni definite di “femminismo cristiano”: le affiliate, infatti, aspiravano ad unire temi di denuncia sociale a principi e valori di ispirazione evangelica.
Tra le madri fondatrici di tali movimenti, vi fu Adelaide Coari, maestra cattolica che proponeva la costruzione di un programma minimo femminista, sulla scia delle rivendicazioni Socialiste di inizio secolo.
Tra le figure più importanti troviamo Elisa Salerno. Nata e vissuta a Vicenza, si interessò in particolare allo studio e alla denuncia delle condizioni operaie delle lavoratrici e dei lavoratori veneti. Formatasi da autodidatta, imparando il latino, il francese e il tedesco, la filosofia e la teologia, impiegò tali conoscenze per fondare, all’inizio del ‘900, il suo giornale dal titolo “La donna e il Lavoro”.
All’interno dell’editoriale, l’attenzione è posta in particolare su studi, ricerche e interviste alle donne della classe operaia vicentina, mettendo in luce, nel dettaglio, aspetti quali il divario salariale fra uomini e donne, le precarie e insalubri condizioni di lavoro, le continue sopraffazioni morali e sessuali a cui venivano sottoposte. L’idea di fondo di tale ricerca era che, oltre alla giusta battaglia sindacale e sociale, fosse soprattutto necessario una battaglia culturale e ideale, che partisse dall’istruzione, nel tentativo di avviare un radicale cambiamento ideologico.
In tale contesto, Salerno accusò pubblicamente la Chiesa e le sue istituzioni, che nonostante professassero la necessità di difendere e proteggere i deboli e gli ultimi, di fatto perpetravano la situazione di subalternità delle donne, a causa di un intrinseco antifemminismo nella patristica e nella scolastica.
Per tali coraggiose affermazioni, la studiosa fu prima condannata dalla Chiesa Locale, poi dalle Curia Romana e infine fu scomunicata, nel 1927, anno in cui interruppe definitivamente la sua produzione editoriale.
Giulia C. – Firenze

QUANDO IN UN MONDIALE DI CALCIO NON CI SI INTERESSA DEL CALCIO

Il campionato mondiale di calcio 2022 sarà la ventiduesima edizione della massima competizione per le rappresentative di calcio maschili delle federazioni sportive affiliate alla FIFA. Il Mondiale si svolgerà in Qatar dal 20 novembre al 18 dicembre 2022 e fin da subito risaltano all’occhio le date anomale nelle quali si svolge il torneo. Seppur poco tradizionali, esse sono comprensibili per via delle temperature proibitive del Paese ospitante. Oltre a ciò, sarà l’ultima edizione con sole 32 nazionali partecipanti, ma verrà ricordata quasi sicuramente anche per essere la prima in quasi 100 anni di storia a disputarsi in uno Stato del Medio Oriente.
Nel 2010 la FIFA, attraverso le consuete elezioni, ha infatti scelto di premiare la candidatura qatariota rispetto ad altre più ricorrenti come quella americana, australiana o giapponese. Fin da subito, però, la scelta della sede del Mondiale ha destato non poche polemiche. In quei giorni, è stato raccontato successivamente, c’è stato un pranzo all’Eliseo che ha visto come ospiti l’allora Presidente francese Nicolas Sarkozy con i presidenti di FIFA, UEFA e il principe ereditario del Qatar, che sarebbe diventato poi emiro tre anni dopo. Da quel momento, la strada spianata per un Paese ricco che poteva economicamente offrire tanto ai partner europei si era spianata.
In una costante affermazione di soft power, l’assegnazione dei Mondiali 2022 è stata seguita dall’acquisizione del PSG e da altri investimenti dal valore di centinaia di milioni di euro, che, secondo alcuni, avrebbero portato la Francia prima e l’Occidente poi a chiudere un occhio su molti aspetti etici. Tra i più noti, i modi con i quali sarebbero state costruite le infrastrutture.
Nell’ultimo decennio il Paese ha conosciuto un boom edilizio: 7 stadi, hotel, grattacieli, tram, metropolitane, strade e addirittura un aeroporto, i quali sorgono in mezzo al nulla. In occasione della competizione calcistica si sono persino costruite città nuove. L’investimento per l’emirato guidato dal 2013 da Tamim bin Hamad al-Thani è stato enorme: 229 miliardi di dollari, 15 volte in più del budget utilizzato per finanziare i Mondiali in Russia nel 2018 (all’epoca record per una competizione calcistica).
Ma perché tutte queste polemiche? Durante questi anni, ci sono state svariate indagini condotte da giornalisti e organizzazioni (tra le più note la Human Rights Watch) che hanno denunciato le numerose violazioni dei diritti umani nei confronti dei lavoratori migranti da paesi africani e asiatici, i quali lavoravano in condizioni disumane cercando di rispettare le scadenze della road map che prevede, come già accennato precedentemente, la costruzione di un numero di strutture senza precedenti in un’area geografica che ne era completamente sprovvista.
Recentemente, in Germania, i tifosi del Bayern Monaco e del Borussia Dortmund hanno criticato all’unisono il Mondiale sottolineando come per la costruzione delle infrastrutture siano morte migliaia di persone. Lo striscione recitava proprio così “15000 morti per 5760 minuti” (15000 tote für 5760 minuten fussball scham buch). Oltre a questi decessi, purtroppo, ve ne sono altrettanti che non vengono contati per via di una poca trasparenza delle informazioni diffuse dalle autorità locali. Tutte le morti per infarto, eccesso di stress fisico, asfissia e patologie derivanti dal lavoro estenuante nei cantieri, ma non avvenute sul posto di lavoro, rientrano tra le morti naturali e di conseguenza non conteggiate. Oltre a ciò, in questa decade vi sono state anche diverse morti per suicidio o derivanti dalle condizioni igieniche e climatiche precarie; ricordiamo che la competizione viene giocata d’inverno proprio perché d’estate si raggiungono facilmente 50°.
Il disappunto non proviene soltanto dai tifosi, bensì anche la Danimarca, squadra partecipante al torneo, si è schierata al coro della gente comune attraverso l’ideazione e la presentazione di divise ad hoc per il torneo nelle quali lo stemma e lo sponsor tecnico non si vedono. Come se non bastasse, a pochi giorni dalla gara inaugurale, il Qatar è di nuovamente accusato per il mancato rispetto dei diritti civili. L’ambasciatore dei Mondiali 2022, l’ex calciatore qatariota Khalid Salman, nel corso di un’intervista all’emittente televisiva tedesca Zdf ha definito l’omosessualità “una malattia mentale”, suscitando lo sdegno del ministro degli Esteri tedesco. Il Qatar, infatti, non vuole che le persone omosessuali manifestino il proprio orientamento sessuale o il sostegno ai diritti LGBT. Salman ha continuato dicendo che le persone gay saranno accettate, ma dovranno rispettare le regole del Paese; quindi evitare di manifestare la propria omosessualità.
Da qualche giorno, infine, girano notizie riguardanti una possibile assunzione di lavoratori migranti da parte del Qatar per fingere di essere supporters delle nazionali che disputano la partita. Essa è una notizia uscita già qualche anno fa, quando si parlò anche del fatto che per la prima volta una nazione ospitante un evento pagava gruppi di tifosi per riempire gli stadi. L’obiettivo è infatti quello di simulare arene, negozi, aree urbane e sportive piene in modo tale da avere uno spettacolo televisivo migliore e da qui tutto l’indotto diretto e indiretto dei diritti tv ed eventuali nuove possibilità di ospitare futuri eventi sportivi come le Olimpiadi.
Insomma, che dire, questi Mondiali non sono ancora iniziati e già non si fa altro che parlarne. Sicuramente, sotto questo punto di vista, il Qatar ha già vinto in quanto ha creato un hype dietro a un evento mondiale che raramente si è in grado di riscuotere.
Marco C. – Milano

COP27 – Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici

In occasione della prossima COP27, la Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici iniziata il 7 novembre in Egitto, abbiamo raccolto i pareri di alcuni giovani che si occupano in prima persona di questi temi.
Andrea Grieco, Head of Impact di Aworld (ONU), vive a Milano; Giorgio Brizio è un esponente dei Friday for Future, autore di Non siamo tutti sulla stessa barca, attualmente in Erasmus a Instabul; Angelo Bruscino (meno giovane, ma solo di età non di spirito) è un imprenditore impegnato nella greeneconomy ma anche scrittore affermato, vive a Napoli; Sarah Maria Truzzi, si occupa di sviluppo nei paesi emergenti per l’ONG VIVA don Bosco, vive a Brussel.
In particolare abbiamo posto loro cinque domande.
1) Che cos’è la COP27?
2) Qual è il senso delle COP?
3) Quali benefici sono stati ottenuti dalle precedenti COP?
4) Le persone intorno a voi che sensibilità hanno nei confronti di questi argomenti?
5) Le singole persone che contributo possono dare?

Andrea Grieco, attraverso un post su Instagram ci fa sapere:
La @cop27 egypt è alle porte. L’Egitto è pronto, in tutti i sensi.
Sarà una #cop difficile a tratti indecifrabile quella di quest’anno. La #cop dei paradossi, organizzata in un Paese che non ammette il dissenso, in un posto lontano (nel deserto) e con misure restrittive e di controllo che castrano ogni protesta.
40.000 delegati da tutto il mondo, più di 100 capi di Stato, pochi attivisti, poche ONG e 60.000 prigionieri politici. La sostenibilità non può prescindere dai diritti umani, è innaturale! Senza democrazia e libertà di espressione non esiste la lotta alla crisi climatica.
Comunque vada questo appuntamento va seguito, come per i precedenti, va protetto il processo che in passato ha portato al Protocollo di Kyoto o all’Accordo di Parigi, ricordandosi però che i Diritti Umani non sono qualcosa che si può barattare o annullare per nessun motivo al mondo. Ricordando i 60 mila prigionieri politici che non smettono di chiedere giustizia e diritti.


Angelo Bruscino, invece ci scrive:
La Cop27 che si terrà in Egitto avrà sicuramente la funzione di rimarcare la grave crisi che ormai già manifesta i suoi effetti. L’idea di organizzare una riunione per i grandi del mondo e sensibilizzarli sul fronte del climate change è stata sicuramente la base di partenza per ottenere alcune prese di posizioni, ahimè solo di ordine declaratorio, di fronte alla recente crisi energetica infatti la maggior parte dei paesi ha fatto fronte implementando al massimo l’uso dei combustibili fossili, in primis il carbone, così nei cieli europei le concentrazioni di inquinanti non è mai stata intensa come in questo 2022.
Purtroppo l’intero modello di transizione energetica, nel mondo e in Europa in particolare, è stato pensato con l’utilizzo del gas; quando questo combustibile è venuto a mancare a causa della guerra Russia/Ucraina o è diventato estremamente costoso, per evitare blackout si è fatto ricorso all’uso delle vecchie centrali (spesso a carbone) che avevamo pianificato di dismettere, vanificando in questa maniera gli sforzi e le dichiarazioni di intenti degli ultimi anni.
C’è anche un dato positivo, nonostante tutto ed è quello che l’intera opinione pubblica ha compreso che la povertà energetica è un tema molto importante che incide profondamente sulla vita di tutti e in questo modo la sensibilità alla creazione di modelli sostenibili con l’utilizzo di energie rinnovabili come il solare e l’eolico ha avuto un’accelerazione. Basti pensare che in un solo anno l’Italia ha raggiunto la Spagna e si appresta a superarla nella produzione di elettricità da rinnovabili.
Insomma come sempre ci sono luci ed ombre, ma probabilmente non saremo in grado di rispettare i tempi stabiliti dalla transazione e peggio ancora, i tempi necessari a scongiurare il disastro ambientale.
Abbiamo confuso negli ultimi anni o mal riposto il sentimento di fiducia, ci fidiamo troppo della tecnologia e abbiamo dimenticato che sono gli uomini a sceglierla e applicarla. Non c’è scoperta tecnica e scientifica che possa salvarci senza gli uomini giusti, non ci resta che un atto di fede e sperare che la provvidenza consenta ai nostri leader di non prendere unicamente la strada lastricata di buone intenzioni, ma quella dei fatti e delle azioni concrete anche se poco popolari, liberandoci certo non dalle responsabilità ambientali che continueranno a pesare sulle nostre coscienze, ma dal gioco delle scelte populiste dai facili consensi e dai fossili della storia che per inciso non sono solo quelli energetici.


Sarah Maria Truzzi ci racconta più specificamente cosa sia una COP.
La COP27 è la 27^ Conferenza delle Parti che hanno sottoscritto la Convenzione sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite. È l’occasione per definire le azioni da promuovere, a livello nazionale e internazionale, per mitigare il cambiamento climatico.
Queste conferenze servono sicuramente a sensibilizzare i governi sui vari aspetti del cambiamento climatico. Purtroppo penso siano ancora lontane dall’ottenere dei risultati sufficientemente importanti da poter rallentare la crisi climatica.
L’Accordo di Parigi, firmato in occasione della COP21 definisce un obiettivo preciso (limitare l’aumento della temperatura globale a 1.5°C). Sono però scettica sull’impatto concreto di tale accordo, poiché permette ai singoli stati di definire loro stessi i propri obiettivi nazionali che tenderanno perciò al ribasso. Inoltre, l’accordo non include obiettivi specifici sulla quantità di emissioni di gas a effetto serra da ridurre, rendendolo così poco efficace da questo punto di vista. Questo è un esempio di come le soluzioni elaborate in occasione di queste conferenze non siano sempre sufficienti a contrastare il problema che si prefiggono di risolvere.
Nonostante io frequenti ambienti abbastanza sensibili a tali tematiche, riscontro nelle persone che mi circondano una sorta di rassegnazione al futuro che ci attende, forse troppo consapevoli del fatto che le azioni dei singoli cittadini non saranno mai sufficienti se non accompagnate da radicali cambiamenti sociali, politici ed economici.
Certo sono convinta che il singolo individuo possa apportare dei cambiamenti positivi nel momento in cui si mette in rete favorendo perciò la trasformazione di comportamenti dannosi a livello ambientale. Non bisogna però dimenticare la responsabilità dei “grandi” attori politici ed economici, gli unici che, con le loro decisioni, hanno effettivamente il potere di “cambiare le cose”.


Infine, Giorgio Brizio, abbastanza esperto nel settore COP ci offre una panoramica più articolata ma anche più critica.
La COP non è un supermercato o uno sbirro (anche se di polizia e di controlli molto stringenti a questa COP27egypt ce ne saranno davvero parecchi, tanto che sarà in assoluto l’evento delle Nazioni Unite più sorvegliato di sempre con addirittura videocamere a riconoscimento facciale nei taxi); COP è l’acronimo che sta per Conference of Parties. La prima fu a Berlino nel 1995, ma già nel 92 ci fu il Summit della Terra di Rio de Janeiro.
Le conferenze, ahimè, sono a metà strada tra un evento con enorme potenziale e un circo. Si danno appuntamento capi di Stato, delegati, sherpa, ma anche persone della società civile e purtroppo anche molti lobbisti e coloro che vogliono difendere interessi delle aziende più inquinanti. Ammesso che le COP abbiano dato qualche beneficio, il più grande di questi potrebbe essere quello di riuscire a connettere tantissime persone, ma anche istituzioni e società. Una delle COP più conosciute è quella che si svolse nel ‘97 a Kyoto, da cui prende il nome l’omonimo protocollo, o la COP 2009 di Copenaghen. Importante fu anche la COP 2015 di Parigi, un grande successo del multilateralismo internazionale. Dalla COP di Parigi in poi ogni paese dovrebbe presentare il suo piano di riduzione delle missioni. Tuttavia ogni anno la quasi totalità degli Stati, tranne un piccolo gruppetto, viene rimandata a casa a fare i compiti perché gli obiettivi che questi stati provano a presentare sono fondamentalmente o inesistenti o non sufficientemente ambiziosi. Ad esempio, se dal 2015 tutti gli obiettivi dal primo all’ultimo fossero stati realizzati saremmo riusciti a limitare il riscaldamento globale entro 3,8 gradi, quando sappiamo che dobbiamo stare sotto l’aumento di un grado e mezzo. Ancora adesso l’impegno delle nazioni è insufficiente.
Qui entrano in gioco le singole persone che possono fare la cosa più bella: stare insieme, creare comunità e battersi per quello che sta a loro più a cuore. Per la questione climatica, che senza grandi dubbi possiamo dire essere l’urgenza del nostro tempo, necessariamente abbiamo bisogno che le persone si attivino e solo se saremo tanti a essere consapevoli riusciremo a incidere: cambiare il mercato con il nostro (potentissimo) potere d’acquisto e con le nostre singole azioni quotidiane. Possiamo fare una differenza che, però, deve essere è valida solo se le scelte sono condivise dalla collettività. Inoltre possiamo aumentare l’interesse presso chi governa il nostro Paese. La politica di oggi, fortemente miope, riesce a guardare fino a un orizzonte molto breve: quello del mandato. Per il clima è invece necessaria una visione a lungo periodo.
Esempi di azioni virtuose per l’ambiente sono: smettere di mangiare carne o consumarne meno, smettere di volare o volare meno, oppure cambiare banca e scegliere dove depositare i propri soldi. Unicredit San Paolo, una delle maggiori banche italiane, ogni anno investe moltissimi soldi nell’industria combustibili fossili.
Oltre il 6% di tutte le emissioni globali provenienti dal traffico aereo sono dovute all’utilizzo di jet privati, nonostante siano una piccolissima minoranza. La produzione, il trasporto e il commercio della carne sono responsabili di una grande fetta di emissioni. Eppure nel settore della carne l’Italia continua a investire moltissimo, anche negli allevamenti intensivi ed estensivi. Ci sono banche, compagnie, fondi d’investimento che continuano a considerare esclusivamente i propri interessi, a discapito non solo della situazione globale ma anche dell’ambiente. Questo è quello che accade in Mozambico, dove la patriottissima Eni (sostenuta da numerose banche tra cui Unicredit e Intesa San Paolo), sfrutta senza discriminazioni le risorse del territorio, creando dei veri e propri ecomostri. Ma azioni del genere vengono replicate dalle nostre compagnie italiane (e non solo) anche in Kenya o in Tanzania.
L’azione individuale può quindi avere un effetto solo se forte e accompagnata da una richiesta collettiva di cambio del sistema. In questo momento scendere in piazza, alzare la testa e far sentire la propria voce è imprescindibile, se realmente vogliamo contribuire ad un miglioramento della società. Non dobbiamo quindi solo restare inorriditi e di fronte a gesti estremi come l’imbrattamento delle opere d’arte, ma piuttosto cercare di capire quali sono i motivi dietro a queste azioni. La situazione è grave, e a dirlo non sono due adolescenti con una scatola di fagioli in mano, ma le più grandi menti del pianeta.
COP26 è stata principalmente un fallimento ma non possiamo non notare alcune note positive. Prima fra tutti BOGA (Beyond Oil and Gas Alliance), lanciata da Danimarca e Paesi Bassi. Ad essa, purtroppo, l’Italia ha aderito ma senza accoglierne gli obblighi, senza prendere alcun impegno. Altri paesi vi hanno aderito dichiarando obiettivi di fuoriuscita dai principali combustibili fossili.
Ogni COP si propone obiettivi diversi, ma uno è sempre il principale: capire insieme quanto è distante a livello globale la data di transizione ecologica (cioè l’abbandono dei combustibili fossili).
Alcuni dei grandi inquinatori di oggi non sono certo responsabile di tutte le grandi emissioni del passato (dovute al 93% da paesi europei e dagli Stati Uniti). Ciò che è necessario è aiutarli, attuando proposte come quella della COP di Copenaghen 2009, in cui Obama promise 1000 miliardi per sostenere i paesi più in difficoltà rispetto alla questione climatica. Per non andare a finire dritti nel baratro, bisogna agire in questo modo. Purtroppo già la sola scelta di tenere la COP27 in Egitto e la COP28 a Dubai è un pessimo segnale.
Nella nostra generazione c’è moltissima preoccupazione ma per il momento gran parte delle aspettative sono state deluse, a partire dalla scorsa COP26 di Glasgow che non è stata sicuramente all’altezza. Ci si aspetta molto anche dalla prossima COP ma difficilmente ne uscirà qualcosa di valido. Tuttavia, ci auguriamo di sbagliare le previsioni. A volte la cooperazione e il multilateralismo riescono a portare i loro frutti, come l’accordo di pace siglato pochi giorni fa in Sudafrica sul quale in pochi avrebbero scommesso.
A cura di Luigi C. – Roma

Tutto (mi) chiede salvezza

Eravamo figli delle stelle oramai siamo figli dello streaming…
Abituati come siamo a consumare ore di visione nelle compagnie di streaming, alle volte non ci fermiamo a riflettere sulla tematica di un film o di un serial, passiamo i titoli senza darne il tempo di farci fare un pensiero o trarne qualche insegnamento.
Sono molte le ore spese alla televisione o agli apparecchi tecnologici saltando i titoli e riempiendoci di immagini e realtà nostrane o di tanti altri mondi. È senz’altro una grande possibilità di aprirci a quei mondi lontani, a storie di vita e morte che dovrebbero spronarci a una riflessione, altrimenti saremo delle mine vaganti.
Vagando o navigando sul beato Netflix, ho trovato una serie italiana chiamata “Tutto chiede Salvezza”, alle prime ho pensato fosse una soap opera, ma col divenire dei minuti mi son trovato con una possibilità di pensare e riflettere sui problemi psichiatrici, la depressione e altre malattie odierne, infermità dell’anima moderna.
Rischiando di fare lo spoiler, la serie, sommariamente, tratta su Daniele, un ragazzo che si diverte e ammazza il tempo tra discoteca e droghe, e tutto ad un tratto si risveglia in una clinica dove è stato destinato a trascorrere sette giorni di punizione sociale.
La clinica è un servizio psichiatrico, dove le persone devono scontare il TSO (trattamento sanitario obbligatorio), Daniele deve farlo dopo avere provocato una violenta lite dove è coinvolta sua famiglia; famiglia che nei primi giorni di ricovero non gli parla.
Inizialmente Daniele non sa perché è ricoverato, ma pian piano, i ricordi affiorano come un dito accusatore. Lui ha soltanto vent’anni.
Al risveglio si trova con cinque compagni di stanza, pure loro condannati dai propri atti, di età diverse ma che sentono simili difficoltà nel rapporto con la società e il mondo. “Borderline” li chiamano (non conosco se c’è un termine addato all’Italiano)
È preciso notare che lo sceneggiato si basa su un romanzo di Daniele Mencarelli, dell’omonimo titolo: “Tutto chiede salvezza”. Non ho avuto opportunità di leggerlo, ma per le nostre finalità non cambia nulla por quanto mi riferisco alla serie televisiva.
Per me la pazzia è stata sempre un pressoché di attraente e sconosciuto. Quella pazzia – che non ha niente da vedere con la situazione di Daniele, o forse si- ma che per secoli, attingendo tanti uomini e donne, era rimasta nascosta, come un qualcosa di vergognoso. Figure considerate matte, tra artisti governanti e grandi personaggi, si sono susseguite nella storia; una delle figure che più amo nella storia è Giovanna la Pazza, regina di Castiglia, considerata tale non sappiamo se perché lo era veramente o per intrighi politici, ma comunque penso che sia stata veramente una pazza d’amore. Oppure quella Follia che Erasmo presenta così chiaramente nel suo “Elogio” come una realtà personificata di natura (quasi) divina. C’è un cantante del Guatemala che canta e si domanda “Si es más tonto el que piensa o el que mira la Luna” (se è più matto colui che pensa o chi guarda la luna), e se i matti fossimo noi e i pazzi sarebbero i normali?
In questo senso il film fa apparire delle realtà ben curate e spiegate in ognuno dei personaggi, in un trasfondo di complicità e solidarietà -non mi fermo a descrivere i singoli personaggi, roba da chi si sente di vederlo-‘ Ma comunque dopo il “risveglio”, Daniele si trova in mezzo a una realtà molto diversa da quella a cui era abituato e incominciano ad affiorare sentimenti e sensibilità, mai apparse prima, a partire di un certo staccarsi dalle situazioni degli altri degenti, in cerca di una negazione che la sua propria realtà abbia coincidenze con i compagni.
Siamo in un momento diverso della nostra cultura nella quale si parla più apertamente delle malattie mentali, delle depressioni e i panici, e tante altre realtà che rimanevamo nascoste fino a poco tempo fa: ancora ricordo quando, trent’anni fa, appena arrivato in Italia, mi son trovato con molti malati mentali per le strade. I manicomi erano stati chiusi, forse il primo approccio per una sorte di inclusione. Non voglio valutare se quella decisione fu o non una buona scelta. Ora mi trovo in Messico, a Yucatan, la grande area d’influenza Maya, dove l’indice dei suicidi è altissimo.
Le complicità e la solidarietà, con chiari spunti di inclusione, fanno parte centrale di questa serie, a partire della sentenza “Nessuno si salva da solo” ci si segnala il dolore e la sofferenza come un processo di redenzione, mentre esso sia condiviso, ma comunque si riferisce pure al fatto che seppur “Tutto chiede salvezza” soltanto potrà riuscire a salvarsi che ha intrapreso un sentiero di apertura alla cura e l’accettazione; lontano di qualsiasi considerazione escatologica religiosa, questo salvarsi ha che vedere con una redenzione umana, un rivolgersi all’umanità, alla società, a se stessi. Ma possiamo intravederci una chiara analogia. Una danza cupa e asimmetrica, come una delle scene del film in cui si balla, fanno concludere che ci si possa salvare soltanto grazie ad un piccolo gesto di solidarietà.
In questo senso ci offre un messaggio sulle responsabilità personali, sulle conseguenze dei propri atti, alle realtà di tanti giovani, adolescenti e famiglie con difficoltà di reagire ai problemi e alle crisi. Ma il trasfondo si trova in un atto di amore la riposta è l’amore. Tale e quale Daniele lo recita nella sua poesia al funerale di uno dei compagni di stanza, Mario:
“I miei fratelli li chiamano pazzi, squilibrati, piangono quando amano e ridono quando soffrono. Ma la vera pazzia secondo me è un’altra: la vera pazzia è non cedere mai, non inginocchiarsi mai.
Questa è la poesia…
Dall’alto, dalla punta estrema dell’universo, passando per il cranio e giù, fino ai talloni; alla velocità della luce e oltre, attraverso ogni atomo di materia, tutto mi chiede salvezza, ecco la parola che cercavo: Salvezza! per i vivi e i morti; salvezza! Per i pazzi di tutti i tempi ingoiati dai manicomi dalla storia: Salvezza!
Allora corriamo come matti fino alla salvezza!

p. Miguel Panes Vilalobos, Merida (Mex)

TODO (me) PIDE SALVACIÓN

Éramos hijos de las estrellas ahora somos hijos del streaming…
Acostumbrados como estamos a consumir horas de visión en las empresas de streaming, a veces no nos detenemos a reflexionar sobre la temática de una película o una serie, pasamos los títulos sin mucha atención y sin dar el tiempo para hacernos pensar o sacar algunas lecciones.
Son muchas las horas dedicadas a la televisión o a los dispositivos tecnológicos saltándose los titulares y llenándonos de imágenes y realidades locales o de muchos otros mundos. Sin duda es una gran oportunidad para abrirnos a esos mundos lejanos, a historias de vida y muerte que deberían impulsarnos a reflexionar, de lo contrario seremos como balas perdidas.
Deambulando o curioseando en el bendito Netflix, encontré una serie italiana llamada “Todos quieren salvarse”, al principio pensé que era una telenovela, pero a medida que pasaban los minutos me encontré con la oportunidad de pensar sobre problemas los psiquiátricos, depresión y otras enfermedades de hoy, enfermedades del alma moderna.
Arriesgándome a hacer spoiler, la serie, sumariamente, trata sobre Daniele, un chico que se divierte y mata el tiempo entre la discoteca y las drogas, y de repente se despierta en una clínica donde estaba destinado a pasar siete días de castigo social.
La clínica es un servicio psiquiátrico, donde las personas tienen que servir el TSO (tratamiento de salud obligatorio), Daniele debe hacerlo después de provocar una pelea violenta donde su familia está involucrada; Familia que en los primeros días de hospitalización no le habla.
Inicialmente Daniele no sabe por qué está hospitalizado, pero poco a poco, los recuerdos emergen como un dedo acusador. Sólo tiene veinte años.
Cuando se despierta se encuentra con cinco compañeros de cuarto, también condenados por sus propios actos, de diferentes edades pero que sienten dificultades similares en su relación con la sociedad y el mundo. “Borderline” los llaman…
Es preciso señalar que el drama está basado en una novela de Daniele Mencarelli, del título homónimo: “Todo pide salvación”. No he tenido la oportunidad de leerlo, pero para nuestros propósitos nada cambia en lo que respecta a la serie de televisión.
Para mí, la locura siempre ha sido una realidad atractiva y desconocida. Esta locura -que no tiene nada que ver con la situación de Daniel, o tal vez lo sea- pero que durante siglos, atrayendo a tantos hombres y mujeres, ha permanecido oculta, como algo vergonzoso. Figuras consideradas locas, entre artistas gobernantes y grandes personajes, se han sucedido en la historia; una de las figuras que más amo en la historia es Juana la Loca, reina de Castilla, considerada como tal no sabemos si porque realmente lo era o por intrigas políticas, pero de todos modos creo que estaba realmente loca por el amor. O incluso esa locura que Erasmo de Rotterdam presenta tan claramente en su “Elogio” como una realidad personificada de la naturaleza (casi) divina. Hay un cantante guatemalteco que canta y se pregunta “Si es más tonto el que piensa o el que mira la Luna”, y si los locos somos nosotros y los locos fuesen los normales.
En este sentido, la película hace aparecer realidades bien cuidadas y explicadas en cada uno de los personajes, en un trasfondo de complicidad y solidaridad -no me detengo a describir a los personajes individuales, dejo eso para quienes tienen ganas de verlo-‘ Pero de todos modos después del “despertar”, Daniel se halla en medio de una realidad muy diferente a la que estaba acostumbrado y los sentimientos y su sensibilidad comienzan a aflorar, Situaciones que nunca antes habían aparecido, partiendo de un cierto desapego de las situaciones de otros pacientes, en busca de una negación del hecho que que su propia realidad tenga coincidencias con sus compañeros.
Estamos en un momento diferente de nuestra cultura en el que hablamos más abiertamente sobre enfermedades mentales, depresión y pánicos, y muchas otras realidades que permanecían ocultas hasta hace poco. Todavía recuerdo cuando, hace treinta años, acababa de llegar a Italia y me encontré con muchas personas con enfermedades mentales en las calles. Los manicomios habían sido cerrados, quizás el primer enfoque para una especie de inclusión. No quiero evaluar si esa decisión fue una buena opción o no. Ahora estoy en México, en Yucatán, la gran área de influencia maya, donde la tasa de suicidios es muy alta, especialmente entre los más jóvenes.
La complicidad y la solidaridad, con ideas claras para la inclusión, son parte central de esta serie, a partir de la frase “Nadie se salva solo” denunciamos el dolor y el sufrimiento como un proceso de redención, mientras que se comparte, pero en cualquier caso también se refiere al hecho de que aunque “Todo pide salvación” sólo puede ser capaz de salvarse a sí mismo quien se ha embarcado en un camino de apertura al cuidado y la aceptación; lejos de cualquier consideración religiosa escatológica, esta salvación tiene que ver con una redención humana, un sí a la humanidad, a la sociedad, a uno mismo. Pero podemos ver una analogía clara. Una danza oscura y asimétrica, como uno de los escenarios de la película en la que se baila, concluye que sólo podemos salvarnos gracias a un pequeño gesto de solidaridad.
En este sentido, nos ofrece un mensaje sobre las responsabilidades personales, sobre las consecuencias de las propias acciones, sobre las realidades de tantos jóvenes, adolescentes y familias con dificultad para reaccionar ante los problemas y las crisis. Pero el trasfondo se encuentra en un acto de amor, la respuesta es el amor. Como Daniele lo recita en su poema en el funeral de uno de sus compañeros de cuarto, Mario:
“Mis hermanos los llaman locos, desequilibrados, lloran cuando aman y ríen cuando sufren. Pero la verdadera locura en mi opinión es otra: la verdadera locura es nunca ceder, nunca arrodillarse.
Esto es poesía…

p. Miguel Panes Vilalobos, Merida (Mex)

Più sensibili al Signore

Dal 22 al 23 Luglio una quarantina di giovani adulti parigini hanno soggiornato nei locali della parrocchia Divina Provvidenza di Firenze in occasione del loro pellegrinaggio.
Partiti da Parigi, in arrivo da Torino e diretti verso Roma attraversando Assisi sulle tracce di San Francesco, questi giovani raccontano quel che intravedono come lo sbocciare di una rinnovata forma di fede.
È cosa ardua raccontare con chiarezza l’esperienza che è stata il pellegrinaggio in Italia dell’estate 2022. Di certo la maggior parte di noi aveva già vissuto vari ritiri di due o tre giorni con i compagni della propria parrocchia (siamo i giovani di due parrocchie parigine, ove studiamo la parola del Signore per via del programma EVEN*), ma mai ci era capitato trascorrere undici giorni con sconosciuti nell’ambito della fede e della religione. Tutti aspettavamo il giorno, una volta tornati alle nostre quotidianità, in cui ci saremmo accorti di aver scordato il pellegrinaggio; come se quei pochi giorni trascorsi in comunione con i nostri padri e compagni in direzione di Dio non fossero mai esistiti. Tutti pensavamo di vivere quell’impressione caratteristica del ritorno a casa, quando le vacanze di tre giorni fa sembrano già distanti di parecchi mesi.
Sono trascorsi già più di un mese e mezzo e questo giorno non è ancora arrivato. Anche per questo abbiamo messo tanto tempo a scrivere questa testimonianza. Fosse quel giorno arrivato, sarebbe stato più semplice capire cosa abbiamo vissuto.
Alcuni di noi lo descrivono come se il nostro passaggio in Italia fosse stato solo ieri. Altri, come me, hanno l’impressione di non essere mai completamente tornati. Quel che ci mette tutti d’accordo è che siamo diventati molto più sensibili alla presenza del Signore ai nostri fianchi e che la preghiera fa ormai completamente parte delle nostre giornate. Da quando siamo tornati alcuni vanno “finalmente” a messa, altri ci vanno più volte a settimana o partecipano a tempi di adorazione. Tanti di noi desiderano trovare il tempo di pregare le lodi e/o i vespri ogni giorno.
Credo che questo significhi che la conversazione con il Signore è diventata più semplice e più diretta. Anche per coloro di noi che dicono non credere, o quelli che come Ornella Vanoni hanno appena avuto il coraggio di dire “proviamo anche con Dio, non si sa mai”. Perché i pensieri e le emozioni di ognuno di noi sono stati così forti in quei dieci giorni, che in un certo senso sono diventati dei nuovi punti di riferimento. Quindi anche per i nostri compagni che non credono o che addirittura si sono allontanati dalla chiesa, il nuovo punto di riferimento nella loro vita spirituale è un tempo segnato dalla persona di Cristo grazie al pellegrinaggio.
Sembra che per tanti, le parole di una suora alcantarina, incontrata ad Assisi, hanno avuto molto effetto. Le trascrivo qui affinché possano risuonare anche nel vostro cuore. Questa suora ci insegnò a pregare chiedendo: «Signore, chi sono io? E chi sei tu? Signore, cosa vuoi che faccia?».

un momento di preghiera davanti alla Croce

In undici giorni abbiamo potuto visitare parti di Torino, approfittare di Firenze, vivere l’atmosfera e l’energia del santuario di La Verna e dell’Eremo delle Carceri, pregare nelle chiese di San Damiano così come nella Porziuncola, fare il bagno in vari laghi (eravamo pur sempre in estate!), visitare San Clemente a Roma tra tante altre cose, e anche fare sosta a Milano e celebrare una messa presso Sant’Ambrogio.
Di certo i nostri due giovani sacerdoti non avrebbero potuto gestire tutta l’organizzazione necessaria a tale programma senza trascurare le anime dei giovani accompagnati. Così hanno chiesto ad alcuni di noi di assisterli in tutte le faccende materiali. Questo servizio dei nostri compagni è stato per loro fonte di tanta gioia (dico “loro” i nostri compagni, non i preti!), mentre per noi è stato anche un modo di accorgerci, tramite le loro assenze, la loro fatica ma soprattutto i loro sorrisi, che più si dà e più si riceve.
Così vorremmo ringraziare una volta ancora la vostra parrocchia della Divina Provvidenza, specialmente Giordana e il Padre Giannicola, che ci hanno accolti con grande gentilezza, in condizioni che erano tra le più confortevoli del nostro tragitto. Per di più ci sono stati regalati portachiavi con la vostra Madonna della Provvidenza che continuano ad accompagnarci. Anche se siamo rimasti poco tempo, anche se agli inizi del nostro percorso italiano, la vostra ospitalità continua ancora a guidarci verso Gesù.

Roberto Fecarotta – Paris

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*EVEN: Ecole du Verbe Eternel et Nouveau; si tratta di un percorso spirituale destinato a giovani adulti che hanno voglia di approfondire la loro fede, e di lasciare la Parola di Dio convertire il loro cuore. «EVEN», in ebraico, significa «pietra».

Il nuovo Parlamento italiano

Politica significa costruire la città dell’uomo ovvero l’arte della preoccupazione per la polis.
Abbiamo appena pubblicato una cronachetta semplice ma significativa scritta da un nostro collaboratore sulle recenti elezioni. Forse potrebbe sembrare superata, dopo 15 giorni, ma poiché quella data del 25 settembre c’entrerà con i nostri anni successivi, non è mai tardi ragionarci sopra. Forse non è l’analisi di un esperto di politica, ma sicuramente è il segno di una attenzione per la cosa pubblica che va tenuta in considerazione perché significa che non tutti sono indifferenti alla società in cui vivono.
Ecco il punto, non restare indifferenti.
Avrei voluto ragionare un po’ di più sui flussi elettorali da tutte le loro prospettive, ma oltre al tempo credo non averne le competenze. Eppure questi flussi ci dicono sì uno spostamento a destra dell’elettorato e uno sfaldamento della sinistra (posto che oggi siano ancora valide queste categorie di destra e sinistra) ovvero un aumento dell’astensionismo. Ma ci dicono, i flussi, anche che non ci sono stati grossi spostamenti verso destra, semmai verso un astensionismo dovuto a una incapacità della nostra politica di preoccuparsi delle nuove esigenze geografiche dei cittadini (non parlo di quelli che sono in giro per vacanza) e sicuramente alla scelta di non sacrificarsi troppo oggi per andare a votare. Della Sinistra i dati e la situazione attuale è sotto gli occhi di tutti, ci si domanda se saprà approfittare della crisi attuale per cambiare rotta. I risultati elettorali poi ci dicono delle contraddizioni (forse già accadute in passato) di questo ultimo volto rispetto alle scelte regionali e locali: forse il nazionale spaventa meno del regionale e del locale? O forse poiché quando non si sa più dove andare a sbarcare si prova anche l’ultima novità (non è successo così in molte tornate elettorali precedenti?)? O forse è giusto che sia così, perché questa è la libertà dei cittadini, nel pensare ai propri interessi?
È vero, la politica deve pensare ai propri interessi, io voto un partito e non un altro perché salvaguardi i miei interessi. Però la politica, quella con la P non può pensare solo agli interessi di una parte, perché quando è al governo, specialmente a quello nazionale deve preoccuparsi anche degli interessi degli altri, specialmente dei più deboli. Deve preoccuparsi anche della salvaguardia delle opposizioni, perché queste garantiscono la democrazia, che ci piaccia o no. A questo proposito pare che la nuova maggioranza del nuovo parlamento oggi non concederà la presidenza di una delle due camere alle opposizioni, perché è maggioranza schiacciante e gioca l’asso pigliatutto. Riguardo ai più deboli il concetto di debole, di indifeso è molto labile ovvero elastico, ma questo vale per tutte le parti se ci pensiamo bene: colui che è debole per me non è debole per l’avversario e viceversa; se volete capire meglio leggete dalla prospettiva dei cosiddetti diritti civili, argomento quasi tabù da una parte e esasperato dall’altra.
Non sappiamo come procederà questo parlamento, dovrebbe essere giusto, è giusto augurare un lavoro continuo e proficuo al di là del voto che abbiamo messo perché questo è il gioco della democrazia.
Questo “gioco” però va monitorato, va rielaborato con quel lavoro continuo e capillare di tante persone di buona volontà – per la verità meno che in passato pare – che lavorano nei più disparati ambiti della nostra società e che hanno la responsabilità di far funzionare e crescere la nostra società, lo stato italiano. Il Parlamento è certamente lo specchio della società; alla società il compito di mantenere sempre limpido questo specchio, altrimenti non si ha il diritto di lamentarsi.