A me che me ne importa

Omelia di papa Francesco al sacrario militare di Redipuglia,

per quanti glie ne importa di vivere!

Dopo aver contemplato la bellezza del paesaggio di tutta questa zona, dove uomini e donne lavorano portando avanti la loro famiglia, dove i bambini giocano e gli anziani sognano… trovandomi qui, in questo luogo, vicino a questo cimitero, trovo da dire soltanto: la guerra è una follia.
Mentre Dio porta avanti la sua creazione, e noi uomini siamo chiamati a collaborare alla sua opera, la guerra distrugge. Distrugge anche ciò che Dio ha creato di più bello: l’essere umano. La guerra stravolge tutto, anche il legame tra i fratelli. La guerra è folle, il suo piano di sviluppo è la distruzione: volersi sviluppare mediante la distruzione!
La cupidigia, l’intolleranza, l’ambizione al potere… sono motivi che spingono avanti la decisione bellica, e questi motivi sono spesso giustificati da un’ideologia; ma prima c’è la passione, c’è l’impulso distorto. L’ideologia è una giustificazione, e quando non c’è un’ideologia, c’è la risposta di Caino: “A me che importa?”. «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). La guerra non guarda in faccia a nessuno: vecchi, bambini, mamme, papà… “A me che importa?”.
Sopra l’ingresso di questo cimitero, aleggia il motto beffardo della guerra: “A me che importa?”. Tutte queste persone, che riposano qui, avevano i loro progetti, avevano i loro sogni…, ma le loro vite sono state spezzate. Perché? Perché l’umanità ha detto: “A me che importa?”.
Anche oggi, dopo il secondo fallimento di un’altra guerra mondiale, forse si può parlare di una terza guerra combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni…
Ad essere onesti, la prima pagina dei giornali dovrebbe avere come titolo: “A me che importa?”. Caino direbbe: «Sono forse io il custode di mio fratello?».
Questo atteggiamento è esattamente l’opposto di quello che ci chiede Gesù nel Vangelo. Abbiamo ascoltato: Lui è nel più piccolo dei fratelli: Lui, il Re, il Giudice del mondo, Lui è l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ammalato, il carcerato… Chi si prende cura del fratello, entra nella gioia del Signore; chi invece non lo fa, chi con le sue omissioni dice: “A me che importa?”, rimane fuori.
Qui e nell’altro cimitero ci sono tante vittime. Oggi noi le ricordiamo. C’è il pianto, c’è il lutto, c’è il dolore. E da qui ricordiamo le vittime di tutte le guerre.
Anche oggi le vittime sono tante… Come è possibile questo? È possibile perché anche oggi dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi, che sembra essere tanto importante!
E questi pianificatori del terrore, questi organizzatori dello scontro, come pure gli imprenditori delle armi, hanno scritto nel cuore: “A me che importa?”.
È proprio dei saggi riconoscere gli errori, provarne dolore, pentirsi, chiedere perdono e piangere.
Con quel “A me che importa?” che hanno nel cuore gli affaristi della guerra, forse guadagnano tanto, ma il loro cuore corrotto ha perso la capacità di piangere. Caino non ha pianto. Non ha potuto piangere. L’ombra di Caino ci ricopre oggi qui, in questo cimitero. Si vede qui. Si vede nella storia che va dal 1914 fino ai nostri giorni. E si vede anche nei nostri giorni.
Con cuore di figlio, di fratello, di padre, chiedo a tutti voi e per tutti noi la conversione del cuore: passare da “A me che importa?”, al pianto. Per tutti i caduti della “inutile strage”, per tutte le vittime della follia della guerra, in ogni tempo. Il pianto. Fratelli, l’umanità ha bisogno di piangere, e questa è l’ora del pianto.
13 settembre 2014, papa Francesco

Papa Francesco ai giovani albanesi

Cari fratelli e sorelle,

prima di concludere questa Celebrazione, desidero salutare tutti voi, venuti dall’Albania e dai Paesi vicini. Vi ringrazio per la vostra presenza e per la testimonianza della vostra fede.

In modo particolare mi rivolgo a voi giovani! Dicono che l’Albania è il Paese più giovane dell’Europa e mi rivolgo a voi. Vi invito a costruire la vostra esistenza su Gesù Cristo, su Dio: chi costruisce su Dio costruisce sulla roccia, perché Lui è sempre fedele, anche se noi manchiamo di fedeltà (cfr 2 Tm 2,13). Gesù ci conosce meglio di chiunque altro; quando sbagliamo, non ci condanna ma ci dice: «Va’ e d’ora in poi non peccare più» (Gv 8,11). Cari giovani, voi siete la nuova generazione, la nuova generazione dell’Albania, il futuro della Patria. Con la forza del Vangelo e l’esempio dei vostri antenati e l’esempio dei vostri martiri, sappiate dire no all’idolatria del denaro – no all’idolatria del denaro! – no alla falsa libertà individualista, no alle dipendenze e alla violenza; e dire invece sì alla cultura dell’incontro e della solidarietà, sì alla bellezza inseparabile dal bene e dal vero; sì alla vita spesa con animo grande ma fedele nelle piccole cose. Così costruirete un’Albania migliore e un mondo migliore, sulle tracce dei vostri antenati.

Ci rivolgiamo ora alla Vergine Madre, che venerate soprattutto col titolo di «Nostra Signora del Buon Consiglio». Mi reco spiritualmente al suo Santuario di Scutari, a voi tanto caro, e le affido tutta la Chiesa in Albania e l’intero popolo albanese, in particolare le famiglie, i bambini e gli anziani, che sono la memoria viva del popolo. La Madonna vi guidi a camminare “insieme con Dio, verso la speranza che non delude mai”.

Papa Francesco, Angelus, domenica 21 settembre 2014, Tirana

Moter File Geshtengja amica di molti di noi

Approfittando dello straordinario viaggio che oggi papa Francesco compie in Albania volentieri pubblichiamo l’intervista alla nostra cara moter File, in occasione della sua professione solenne. Ci scusiamo per la lunghezza del testo, ma credo ne valga la pena.

Salve a tutti!

Un Grazie di cuore a padre Giannicola che mi ha chiesto di condividere la mia esperienza di vita religiosa con voi in occasione della mia professione solenne tra le Suore Angeliche di san Paolo.

Perché ho scelto questa vita? 

Come ogni altro giovane anch’io ho voluto dare un senso alla mia vita. Avevo i miei desideri e i miei sogni per i quali vivevo e lavoravo aspettando che prima o poi si realizzassero. Invece poco e niente sapevo che esisteva un altro modo di vita e di vivere: “La vita religiosa”, anche perché in Albania fine agli anni 90-91 non si poteva parlare di Dio se non di nascosto i genitori tra loro. Sono stata battezzata nel 1993 quando avevo 13 anni da un sacerdote appena uscito dalla prigione, ma senza nessuna preparazione perché molta era la paura che tornasse la persecuzione e la Chiesa in Albania non era ancora riorganizzata.

Piano piano la situazione in Albania ha iniziato a cambiare sia quella politico-sociale sia quella religiosa grazie a quelli che hanno resistito alle ingiustizie, alle torture (sacerdoti, suore, cristiani, laici di buona volontà) ma anche grazie a tutti e tanti quelli missionari-e che sono arrivati da tutto il mondo, i quali continuano tutt’ora ad essere tra noi aiutandoci in tanti modi.

Ho voluto raccontare tutto questo perché grazie a queste persone ho incontrato Gesù e il suo grande amore il quale mi ha fatto innamorare di Lui finché non ho potuto fare diversamente che vivere-dedicare la mia vita totalmente a Lui e agli altri. Mi sono sentita coinvolta, posso dire come dovere che quella gioia e pace interiore che avevo ricevuto dalla sua Grazia non potevo tenerlo più solo per me stessa ma dare agli altri.

Ma la storia della tua chiamata non ha un certo sapore evangelico?

Infatti, la storia della mia chiamata e quella della mia sorella Agata, potremmo paragonarla a quella dei primi discepoli di Gesù, Pietro e Andrea che, dopo aver sperimentato la gioia di questo incontro, convinse il fratello Simone a fare altrettanto. Nel nostro caso, il dono di essere chiamata per vocazione da Gesù è stato offerto a me che sono più giovane, poi ad Agata. Mia sorella dopo un cammino di fede nel gruppo dei giovani chiamato “Angelico” presso le suore Angeliche di San Paolo a Scutari, afferrata da Cristo, fatta la sua scelta è entrata per prima nella comunità dalle Angeliche. Dopo due anni sono entrata io.

Ma per arrivare fino a dire “SI” per tutta la nostra vita il Signore ci ha messo accanto guide, consorelle, ammirevoli che con tanta pazienza e amore ci hanno aiutato a realizzare il piano di Dio su di noi.

Grazie alla gioia di appartenere a Cristo il giorno 10 agosto 2014 io e mia sorella Agata abbiamo professato il nostri Sì per sempre nella cattedrale di Scutari circondati dal affetto dei nostri famigliari, Consorelle amici albanesi e il gruppo dei volontari e animatori italiani presso i padri Barnabiti nella missione di Milot.

Che senso ha essere suora in Albania?

È una testimonianza della presenza di Cristo, un punto di riferimento per la gente con cui viviamo.

Cosa ti attendi o come costruisci il tuo futuro?

Sapendo a chi ho dato la mia fiducia, cerco di vivere ogni giorno con gioia il momento presente. La mia vita appartiene a Dio e alla mia Congregazione. Ogni giorno cerco di fare qualcosa per gli altri e con gli altri; persone che incontro ogni giorno specialmente nella missione dove vivo a Fush-Milot.

Come vedi tu i giovani, albanesi e italiani che conosci?

Tutti i giovani in se hanno una grande ricchezza, purtroppo non tutti riescono a scoprire, i doni che hanno.

Il diverso è sempre una ricchezza. Collaborando con sincerità e apertura i frutti si vedranno di più. I giovani italiani che conosco io certamente hanno una maggiore preparazione e un cuore grande. Sanno donarsi agli altri e sono sinceri. E tutto ciò si vede proprio dalla disponibilità di venire ogni anno in Albania.

Invece i giovani albanesi sono stati soffocati dalla storia del passato. Però, grazie al contatto con i giovani italiani, i valori veri stanno crescendo. Certo hanno bisogno ancora di essere più aperti. Ma il loro grande spirito di ospitalità e le varie esperienze comuni li aiuta sempre di più a crescere umanamente e spiritualmente.

Personalmente ringrazio il Signore per la possibilità di aver conosciuto i giovani italiani i quali mi hanno trasmesso tanto affetto, simpatia, semplicità e prontezza. Non di meno ringrazio i giovani albanesi di Milot e Fush-Milot con i quali vivo e sperimentiamo insieme la fede da cinque anni.

Con loro e tra loro mi sento come una Sorella maggiore molto amata.

Il giovane ricco: e il progetto di una vita

cari amici ecco una nuova rubrica curata dal nostro seminarista Stefano R. di Monza.
ci offrirà delle riflessioni evangeliche (che dovete andare a cercarvi!) per sollecitare il nostro ragionare secondo la Parola accompagnate, dove possibile, da chiari riferimenti al nostro SAMZ: buona riflessione.

Il giovane ricco: il progetto di una vita (Mt 19,16-22)

Il giovane ricco: il progetto di una vita (Mt 19,16-22)
Cominciamo questo nostro cammino con un brano tanto caro alla spiritualità zaccariana e abbondante di spunti di riflessioni.
Un giovane corre incontro a Gesù per porgli una questione che sente importante per sé: «Cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».
Questa domanda può essere avvertita da chiunque di noi si prenda sul serio e cerchi un “di più” per se stesso; SAMZ insegna a non sottovalutare questo anelito, ma ad accoglierlo con forza: “Bisogna che sempre tu intenda di passare più avanti e in cose più perfette” (Cost. XVIII).
Il giovane del Vangelo accosta Gesù con questo intento senza tuttavia raggiungere il risultato sperato. Ma chi è il giovane ricco, e cosa può insegnarci il fallimento del suo incontro con il Maestro?
Sorprende che solo Matteo scriva di un “giovane ricco”, mentre Marco (10,17-22) racconta di “un tale” e Luca (18,18-23) di un notabile. Quest’ultima affermazione potrebbe suggerire che il giovane ricco non fosse poi così tanto giovane, permettendo di ampliare il numero di coloro che si possono identificare con il personaggio. Matteo, tuttavia, insiste nell’appellarlo “giovane” forse perché la situazione esistenziale in cui si trova è di chi sta progettando la propria vita e si chiede su cosa fondarla.
Il Vangelo poi suggerisce che si tratta di un uomo piuttosto benestante, ma il concetto di ricchezza non è solo materiale.
Papa Giovanni Paolo II (Anno Internazionale della Gioventù 1985), commentò il brano del giovane ricco indicando la giovinezza stessa come ricchezza: la ricchezza di una vita ancora aperta e piena di tutte le possibilità, che richiede però di essere pianificata.
Perché dunque il giovane del Vangelo fallisce nel suo incontro con Gesù? Non è uno che, come spesso accade, non mette in pratica ciò in cui crede, anzi, da sempre è impegnato nell’osservanza dei comandamenti, e tuttavia i comandamenti citati non riguardano il rapporto con Dio, ma solo con gli altri: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo…”. Forse il giovane ricco è impegnato nel fare del bene più attraverso le proprie opere piuttosto che le opere buone di Dio; fa del bene ma non a partire da un vero rapporto con Dio, il solo che può dare la pienezza. Lui stesso afferma che ciò che già fa non gli basta; sente che c’è un “di più” che ancora gli manca: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?». La proposta di Gesù consiste nel liberarsi della propria ricchezza e seguirlo: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».
Ciò che veramente conta per ottenere la pienezza di vita è l’incontro con Gesù che si trasforma in un rapporto continuo. Per il giovane del vangelo, invece, l’incontro con Gesù rimane chiuso in se stesso senza produrre poi una trasformazione di vita.
Questo è il pericolo costante dell’esperienza religiosa di ogni tempo: basarsi sulle proprie opere buone e su incontri con Gesù, anche frequenti, ma che iniziano e finiscono in se stessi. Gesù chiede altro: l’inizio di una storia con lui; ciò significa scegliere, tra le priorità della vita, un ordine che si traduce nel porre radicalmente Gesù al primo posto. Ecco il vero progetto che Gesù propone al giovane ricco.
Si capisce ora perché la ricchezza, più genericamente intesa come ampiezza di possibilità, può essere un ostacolo, anche se non è un male in sé, soprattutto se pensiamo la giovinezza stessa come ricchezza.
Voler mantenere la ricchezza fondata su se stessi, impedisce di fare scelte, e quindi di progettarsi con libertà, perché ogni scelta, lo sappiamo, significa anche una rinuncia a tutto ciò che non è stato scelto. «È impossibile pensare di poter volare nell’alto della perfezione carichi però di molti pesi» (Cost. XII).
Stefano Redaelli

La certezza di muoversi nella giusta direzione

cari amici inizia una nuova rubrica dedicata a problemi di economia e al punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, curata da un gruppo di studenti universitari: buon lavoro.

Durante una delle prime lezioni della facoltà di economia e commercio sono stati presentati a noi studenti alle prime armi due “modelli umani”: l’homo oeconomicus e lo human being. Il primo, utilizzato come riferimento per delineare l’essenza dell’essere umano per più di duecento anni, è autonomo ed egoista; il suo unico interesse è quello di massimizzare il proprio reddito e ricchezza; allo stesso tempo è sempre perfettamente razionale nelle sue scelte. Il secondo comprende una visione più ampia dell’essere umano: intraprende l’attività economica non come fine, ma come mezzo per raggiungere scopi personali; è parte di un gruppo, un’organizzazione, una comunità, un organo sociale in generale che influisce nella scelta dei suoi obiettivi, valori e necessità personali. Lo human being vive e lavora in un contesto modellato su principi di giustizia, condivisione di valori di solidarietà, lealtà e progresso (Introduction to management, Giuseppe Airoldi, Davide Ravasi). L’attenzione degli studiosi è ormai totalmente orientata verso quest’ultimo modello. Siamo arrivati a calare l’uomo nel suo contesto. Nella sua società. Il problema è che ormai la nostra società è diventata un unico grande homo oeconomicus. Una società industrializzata dove non esiste un uomo che non miri a possedere e dunque a difendere qualcosa. Una società che ci ha portati a riconoscerci per ciò che possediamo e non per chi siamo.
Erich Fromm nel suo saggio intitolato Avere o essere? sostiene che questa nostra modalità esistenziale dell’avere ha sì indotto l’uomo a possedere le cose, ma ha anche fatto sì che le cose possedessero l’uomo. È un circolo vizioso interminabile in cui l’individuo continua incessantemente ad acquisire, utilizzare, eliminare e ri-acquisire… forse in cerca di un’autodefinizione che ha perso o non ha mai posseduto, identificandosi da sempre con ciò che possiede e non per ciò che è. Una continua ricerca e inseguimento di qualcosa che lo completi, di qualcosa che lo soddisfi. Non è forse questa la nostra idea di felicità? L’appagamento, la realizzazione di inclinazioni e desideri, spesso improntati verso l’avere, verso l’espansione “quantitativa” del proprio Io?
Tra i vari paradossi su felicità e soddisfazione di vita, Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica presso l’università di Roma “Tor Vergata”, ha esposto un esempio forviante: i messicani si dichiarano mediamente più felici di europei ed americani anche se il loro reddito è ovviamente molto inferiore. Ricorda infatti che le distanze di reddito pro capite tra paesi non si sostanziano in analoghe distanze di felicità o soddisfazione di vita. È forse allora il modello di felicità passiva basata sull’assenza di turbamento, più vicina a una società i cui ritmi di vita sono meno frenetici, che dovremmo seguire? Certo, la risposta sarebbe affermativa se la domanda fosse esposta a grandi pensatori del passato come Democrito, Epicuro, Seneca o Schopenhauer. Ma non si può totalmente adattare al nostro caso messicano. Becchetti, infatti, individua un ulteriore paradosso… nel paradosso! Ovvero, perché, se i messicani sono (si dichiarano) più felici, i flussi migratori vanno dal Messico agli USA e non viceversa? Se da un lato il Messico mostra ultimamente grande dinamismo e alti tassi di sviluppo economico, dall’altro lato esibisce enormi sacche di povertà e diseguaglianze sociali, dovute anche alla criminalità e al narcotraffico (Messico: una potenza emergente sull’orlo del collasso di Giuseppe Dentice, 2012). Il fenomeno emigratorio viene visto come una “soluzione” per far fronte a situazioni disagevoli della società. Per coloro che non contemplano una felicità in cui si chiudono le porte ai problemi e si vive nell’ipocrisia di una vita tranquilla e “tiepida”, priva di difficoltà e turbamenti semplicemente perché non affrontati, il concetto stesso di felicità segue una prospettiva piuttosto nietzschiana in cui il dolore è strettamente necessario al raggiungimento della felicità. Ai “fortunati” migranti che riescono ad entrare nel territorio statunitense, infatti, si prospettano una nuova serie di problemi, spesso estremamente pericolosi, che scelgono di affrontare pur di inseguire il sogno americano. Durante l’attraversamento della frontiera sono infatti frequenti gli abusi della Border Patrol (la polizia di frontiera degli Usa), molti di essi riguardano soprattutto le donne. Luogo di desaparicion e di morte quindi, di territori controllati dai nuovi cartelli del traffico internazionale della droga a cui si aggiunge la diffidenza della popolazione oltre frontiera che in alcuni casi sfocia in un vero e proprio conflitto.
Qual è dunque la vera natura della felicità? È essa veramente condannata a dipendere dal sogno di accrescere ciò che possediamo piuttosto da ciò che siamo? Possiamo in qualche modo deviare la nostra società- homo oeconomicus dall’adulazione incondizionata dell’avere e riportarla alla ricerca dell’essere? Ritengo che la giusta risposta l’abbia suggerita lo stesso Erich Fromm durante un’intervista: ci si dovrebbe prefiggere non lo scopo di raggiungere la modalità dell’essere a tutti i costi, ma la certezza di muoversi nella giusta direzione.

Giorgia Lombardini

Perché amo (e amerete) il cinema

Il cinema è tra le forme di arte forse quella più seguita e utilizzata nel formare il proprio modo di pensare e agire, anche nel mondo giovanile. Per questo motivo ci pare giusto dedicare una sezione del nostro blog a una lettura della cinematografia contemporanea, specialmente quella riguardante i giovani. Curerà questa pagina Fabio che da quando era studente liceale già si preoccupava di leggere, o meglio, vedere i film con occhio intelligente. Buona lettura. La redazione.

Una pagina di diario, un racconto personale sul perché amo il cinema, su come mi sono avvicinato alla settima forma d’arte: in ciò dovrebbe consistere il mio contributo a questo blog, come “articolo” di apertura credo possa andare bene.

Quello che vorrei fare è tentare di spiegare perché ogni volta che rivedo Cœur Fidèle sento brividi correre lungo tutta la schiena, pur sapendo ormai chi tra i due uomini sceglierà Marie; o perché tutte le volte che sono un po’ triste e guardo Manhattan Murder Mystery mi sento subito meglio, oppure…

No, è inutile, non sono in grado di esprimere certe cose. Non mi riesce, punto e basta. probabilmente dovrei vergognarmene (ventun anni, maturità classica, due anni di università sulle spalle e ancora non riesco ad esprimermi in italiano), eppure non provo vergogna alcuna. Anzi, in un certo qual modo ne vado fiero, perché il giorno in cui saprò trovare le giuste parole per descrivere cosa rappresenta per me il cinema, vorrà dire che non lo amerò più o, per lo meno, non con la stessa intensità con cui l’amo adesso.

Quando si ama veramente qualcosa, quando la si ama totalmente, con tutti noi stessi insomma, non si può spiegarne il motivo. Qualunque tentativo di delucidazione al riguardo risulta essere riduttivo, come se non appena si cercasse di palesare la natura del nostro amore tramite la lingua, si finisse con lo sminuirlo.

Lo so che può sembrare assurdo, però è così.

Insomma… eravamo arrivati al punto in cui dicevo che non sapevo dire perché amo il cinema. Beh, in effetti non è facile da spiegare: in primo luogo lo amo perché mi emoziona, mi scombussola come nessun’altra forma d’arte riesce a fare.

Si, la pittura mi piace, mi rilassa molto leggere e talvolta frequento con piacere il teatro. Amo la musica ma il cinema è un’altra cosa. Il cinema è pittura, musica e teatro insieme; è fusione di immagini e movimento, è energia cinetica allo stato puro. “Il cinema è diffusione di idee” come direbbe Majakovskij.

Qualcuno a questo punto avrà da obiettare: “Si, ma anche la letteratura, la musica… tutta l’arte serve ed è in grado di veicolare idee”. È vero, niente in contrario al riguardo, solo che il cinema ci riesce fondendo una serie di elementi che le altre forme d’espressione non hanno a disposizione. In quanto ultima arrivata, l’arte cinematografica rappresenta in certa misura la fusione di tutte le precedenti e questo indubbiamente la facilita. La completa.

In un qualsiasi film di Renoir, ad esempio, si ritrovano continui riferimenti ai quadri di suo padre. Eppure si tratta di cinema, non di pittura. Nel cinema convergono tutte le altre arti (Wright sosteneva che il cinema fosse architettura infatti), anche se alla fine l’insieme che si percepisce sullo schermo non coincide affatto con la somma delle singole parti, ma ha qualcosa in più. Cosa esattamente non lo so, ed è questo che adoro del cinema.

Ci penso da una vita ormai, eppure ancora non ho capito che ingrediente misterioso lo renda tanto speciale.

Al cinema devo tanto, forse tutto. Devo le mie conoscenze, la mia mentalità, la mia vita, tutto. Per tutto ciò intendo onorare (e, perché no, criticare) il cinema.

Sperando di non annoiarvi troppo.

Il volontario come lo penso io

Sono Alessandra, 23 anni, quasi architetto e nella vita mi piace fare di tutto, vivo ad Eupilio, un paesino sperso tra monti e laghi.
Ogni anno il nostro vecchio parroco cercava giovani volontari disposti a donare qualche settimana delle loro vacanze per aiutare i missionari in Africa, Brasile, Albania e Messico. Nel 2003 nessuno si propose per Milot, la parrocchia albanese dei Padri Barnabiti. I miei genitori pensarono di offrirsi, fu così che accettai di partire con la mia famiglia per questa nuova esperienza. Avevo 11 anni e pensavo solo a come rendermi utile per il campo estivo. Non sapevamo bene cosa avremmo dovuto fare, ma immaginavo di assistere i bambini più piccoli. Mi sbagliavo, erano le animatrici albanesi che facevano giocare me! L’anno seguente fui io a chiedere a mia madre di tornare.
Nel corso di questi anni sono tornata ogni anno, con motivazioni sempre diverse. All’inizio mi piaceva e basta. Poi di anno in anno incominciai a ricoprire ruoli sempre più impegnativi.
Iniziai a occuparmi della parte “artistica” del campo estivo: murales, allestimento di benvenuto, scenografia e costumi per lo spettacolo, inno e gesti e infine mi chiesero di disegnare il logo del campo per le maglie. Più che un’esperienza di volontariato, l’Albania per me è un laboratorio di apprendimento. È qui che ho imparato a fare di tutto; mi si chiedeva molto con poco e dovetti aguzzare l’ingegno. In realtà con quei pochi cartelloni colorati e costumi fatti di stoffa di recupero, avevo in cambio i visi sorpresi e contenti di un centinaio di bambini. Le fatiche erano presto ripagate e riempivano il cuore di tanta gioia. Ogni anno, per ben undici estati, sono partita persuasa di andare per essere utile agli altri e ogni anno sono tornata a casa convinta che erano gli altri ad aver dato qualcosa a me.
Milot è una palestra di vita: persone dai 16 ai 60 anni che condividono camera, bagno, cibo, lavoro domestico di cucina, pulizie, oltre alla preparazione e allo svolgimento del Grest giorno dopo giorno. Non mancano momenti di riflessione e preghiera quotidiane e si riesce pure a trovare il tempo per giocare e conoscersi! Infatti, da qualche anno, partecipano alla “missione” ragazzi provenienti da diverse comunità barnabitiche di tutta Italia, ed è così che s’incontrano non solo dialetti diversi, ma anche usanze, cibi e caratteri diversi. È un’esperienza davvero sempre nuova, nonostante l’impostazione sia sempre la stessa. Non ci si annoia mai, non si è mai soli!!
Non sono ancora riuscita a spiegare quale filo leghi tutte le persone che partecipano al campo estivo, perché ogni anno ci sono veterani e nuovi arrivati, giovani e meno giovani, suore, preti, cristiani, atei, non praticanti. Forse siamo mossi tutti da una ricerca di noi, degli altri, da una piccola o grande voglia di fare che ci spinge a “correre come matti, non solo verso Dio, verso gli altri” come dice il nostro santo fondatore Antonio M. Zaccaria.
Personalmente ritengo di essere fortunata perché sento di far parte di una piccola comunità, quella barnabitica; sia essa in Albania, a Eupilio o altrove nel mondo, la sento come una seconda famiglia e come tale in essa si dà e si riceve. Questo per me è più del volontariato inteso come volontà di dare gratuitamente senza chiedere nulla in cambio. Per me è mettersi al servizio degli altri, servire con gioia anche se si fatica; spesso è obbedire invece che comandare, senza chiedere perché si fa così, ma fidandosi dell’altro. È stringersi uno vicino all’altro nei momenti di difficoltà o di dolore, come in quelli di gioia e divertimento. È mettersi sempre in gioco, in ogni situazione e a qualsiasi età. È accettare e rispettare l’altro, le diversità anche d’opinione e convivere con lui, perché si è lì entrambi per aiutare qualcun altro. È accettare di smussare gli spigoli del proprio carattere, rischiando di tornare a casa cambiati e non sentirsi più gli stessi di prima. È voler bene a qualcuno anche se non lo si conosce. È aprirsi agli altri e donare se stessi sicuri che facendo posto dentro di sé, si troverà qualcosa di arricchente.
Il “volontariato”, come lo penso io, non è un qualcosa che si fa per esperienza o per cambiare tipo di vacanza, non dura qualche giorno e tutto finisce lì. È una scelta di vita quotidiana. È difficile da spiegare a parole, per capirlo si può solo viverlo sulla propria pelle.
Quest’anno studio e lavoro non mi hanno permesso di partecipare, ma il cuore è comunque a Milot e Milot è comunque nella mia vita.
Alessandra Spreafico

fare o essere volontari

31 luglio 2014

In una tranquilla mattina di finta estate si sono incontrati giovani da diverse parti d’Italia legate alla nostra spiritualità zaccariana per scambiarsi idee sul proprio modo di vivere e definire il campo di volontariato che inizierà tra pochi giorni a Milot, Albania.
Il cosiddetto “precampo” ha visto letteralmente in gioco volontari da Genova, Altamura, Lodi, Roma, Napoli, san Felice, Milot e Livorno per capirsi e capire come meglio lavorare insieme in favore dei bambini che incontreranno.
Precisamente questa mattina alcuni giovani di San Felice hanno raccontato come è nata, come si è qualificata la loro vita cristiana che ha trovato nel Movimento Giovanile Zaccariano un punto di non ritorno per essere Santi, Amici, Missionari, Zaccariani. Una spiritualità che trova nel Crocefisso vivo (parole di SAMZ) e nell’Eucaristia lo sprone a essere cristiani con tutte le lettere maiuscole. Essere parte dell’MGZ non significa essere perfetti, ma camminare, inciampare, rialzarsi e camminare ancora forti dell’amicizia di Cristo. Grazie a questa amicizia, mediata dalla forte esperienza e testimonianza di SAMZ, è cambiato il nostro modo di vedere e vivere e custodire il mondo che ci è stato donato.
A seguire Gaia ha brevemente spiegato come è nata l’esperienza del QenderAgorà: la naturale evoluzione missionaria, caritativa della spiritualità zaccariana, il modo di correre verso il prossimo oltre che verso Dio (sempre per riprendere delle SAMZ parole!). Questo precampo poi è proprio un buon risultato in quanto “ponte interculturale” tra diverse persone e culture per costruire quell’attenzione al prossimo che non possiamo eludere.
Ergisa, di Milot, invece ha sottolineato come, grazie a questo lavoro di volontariato la parrocchia di Milot sia diventata un vero e proprio punto di riferimento culturale, sociale, evangelico per il territorio.
Di conseguenza Padre Giovanni, parroco di Milot, ci tiene ad evidenziare la necessità ma anche la bellezza di formare i formatori, i volontari, non tanto per avere dei cristiani professionisti, bensì dei cristiani che sappiamo consapevolmente prendersi a cuore il vangelo da testimoniare.
Il volontario non è solo uno che sa fare, deve essere prima di tutto uno che sa essere! Questa la naturale sintesi del lavoro di questi giorni.
In quanto responsabile dell’Ufficio di Pastorale Giovanile dei Padri Barnabiti, mi piace sintetizzare il valore di questo precampo che, seppure ha sottratto qualche giorno di lavoro con i bambini di Milot, ha permesso di rafforzare l’identità e le competenze dei nostri volontari. Si è aperta una scuola di volontariato barnabitico? Io penso di sì e credo che continueremo a vederne i frutti non solo a Milot ma in tutto il mondo.
Grazie a tutti e ora buon KampiVeror2014 domani si salpa da Bari per Durazzo quindi Milot.
pGiannicola M. Simone