Il giovane ricco: e il progetto di una vita

cari amici ecco una nuova rubrica curata dal nostro seminarista Stefano R. di Monza.
ci offrirà delle riflessioni evangeliche (che dovete andare a cercarvi!) per sollecitare il nostro ragionare secondo la Parola accompagnate, dove possibile, da chiari riferimenti al nostro SAMZ: buona riflessione.

Il giovane ricco: il progetto di una vita (Mt 19,16-22)

Il giovane ricco: il progetto di una vita (Mt 19,16-22)
Cominciamo questo nostro cammino con un brano tanto caro alla spiritualità zaccariana e abbondante di spunti di riflessioni.
Un giovane corre incontro a Gesù per porgli una questione che sente importante per sé: «Cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?».
Questa domanda può essere avvertita da chiunque di noi si prenda sul serio e cerchi un “di più” per se stesso; SAMZ insegna a non sottovalutare questo anelito, ma ad accoglierlo con forza: “Bisogna che sempre tu intenda di passare più avanti e in cose più perfette” (Cost. XVIII).
Il giovane del Vangelo accosta Gesù con questo intento senza tuttavia raggiungere il risultato sperato. Ma chi è il giovane ricco, e cosa può insegnarci il fallimento del suo incontro con il Maestro?
Sorprende che solo Matteo scriva di un “giovane ricco”, mentre Marco (10,17-22) racconta di “un tale” e Luca (18,18-23) di un notabile. Quest’ultima affermazione potrebbe suggerire che il giovane ricco non fosse poi così tanto giovane, permettendo di ampliare il numero di coloro che si possono identificare con il personaggio. Matteo, tuttavia, insiste nell’appellarlo “giovane” forse perché la situazione esistenziale in cui si trova è di chi sta progettando la propria vita e si chiede su cosa fondarla.
Il Vangelo poi suggerisce che si tratta di un uomo piuttosto benestante, ma il concetto di ricchezza non è solo materiale.
Papa Giovanni Paolo II (Anno Internazionale della Gioventù 1985), commentò il brano del giovane ricco indicando la giovinezza stessa come ricchezza: la ricchezza di una vita ancora aperta e piena di tutte le possibilità, che richiede però di essere pianificata.
Perché dunque il giovane del Vangelo fallisce nel suo incontro con Gesù? Non è uno che, come spesso accade, non mette in pratica ciò in cui crede, anzi, da sempre è impegnato nell’osservanza dei comandamenti, e tuttavia i comandamenti citati non riguardano il rapporto con Dio, ma solo con gli altri: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo…”. Forse il giovane ricco è impegnato nel fare del bene più attraverso le proprie opere piuttosto che le opere buone di Dio; fa del bene ma non a partire da un vero rapporto con Dio, il solo che può dare la pienezza. Lui stesso afferma che ciò che già fa non gli basta; sente che c’è un “di più” che ancora gli manca: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?». La proposta di Gesù consiste nel liberarsi della propria ricchezza e seguirlo: «Se vuoi essere perfetto, và, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi».
Ciò che veramente conta per ottenere la pienezza di vita è l’incontro con Gesù che si trasforma in un rapporto continuo. Per il giovane del vangelo, invece, l’incontro con Gesù rimane chiuso in se stesso senza produrre poi una trasformazione di vita.
Questo è il pericolo costante dell’esperienza religiosa di ogni tempo: basarsi sulle proprie opere buone e su incontri con Gesù, anche frequenti, ma che iniziano e finiscono in se stessi. Gesù chiede altro: l’inizio di una storia con lui; ciò significa scegliere, tra le priorità della vita, un ordine che si traduce nel porre radicalmente Gesù al primo posto. Ecco il vero progetto che Gesù propone al giovane ricco.
Si capisce ora perché la ricchezza, più genericamente intesa come ampiezza di possibilità, può essere un ostacolo, anche se non è un male in sé, soprattutto se pensiamo la giovinezza stessa come ricchezza.
Voler mantenere la ricchezza fondata su se stessi, impedisce di fare scelte, e quindi di progettarsi con libertà, perché ogni scelta, lo sappiamo, significa anche una rinuncia a tutto ciò che non è stato scelto. «È impossibile pensare di poter volare nell’alto della perfezione carichi però di molti pesi» (Cost. XII).
Stefano Redaelli

La certezza di muoversi nella giusta direzione

cari amici inizia una nuova rubrica dedicata a problemi di economia e al punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, curata da un gruppo di studenti universitari: buon lavoro.

Durante una delle prime lezioni della facoltà di economia e commercio sono stati presentati a noi studenti alle prime armi due “modelli umani”: l’homo oeconomicus e lo human being. Il primo, utilizzato come riferimento per delineare l’essenza dell’essere umano per più di duecento anni, è autonomo ed egoista; il suo unico interesse è quello di massimizzare il proprio reddito e ricchezza; allo stesso tempo è sempre perfettamente razionale nelle sue scelte. Il secondo comprende una visione più ampia dell’essere umano: intraprende l’attività economica non come fine, ma come mezzo per raggiungere scopi personali; è parte di un gruppo, un’organizzazione, una comunità, un organo sociale in generale che influisce nella scelta dei suoi obiettivi, valori e necessità personali. Lo human being vive e lavora in un contesto modellato su principi di giustizia, condivisione di valori di solidarietà, lealtà e progresso (Introduction to management, Giuseppe Airoldi, Davide Ravasi). L’attenzione degli studiosi è ormai totalmente orientata verso quest’ultimo modello. Siamo arrivati a calare l’uomo nel suo contesto. Nella sua società. Il problema è che ormai la nostra società è diventata un unico grande homo oeconomicus. Una società industrializzata dove non esiste un uomo che non miri a possedere e dunque a difendere qualcosa. Una società che ci ha portati a riconoscerci per ciò che possediamo e non per chi siamo.
Erich Fromm nel suo saggio intitolato Avere o essere? sostiene che questa nostra modalità esistenziale dell’avere ha sì indotto l’uomo a possedere le cose, ma ha anche fatto sì che le cose possedessero l’uomo. È un circolo vizioso interminabile in cui l’individuo continua incessantemente ad acquisire, utilizzare, eliminare e ri-acquisire… forse in cerca di un’autodefinizione che ha perso o non ha mai posseduto, identificandosi da sempre con ciò che possiede e non per ciò che è. Una continua ricerca e inseguimento di qualcosa che lo completi, di qualcosa che lo soddisfi. Non è forse questa la nostra idea di felicità? L’appagamento, la realizzazione di inclinazioni e desideri, spesso improntati verso l’avere, verso l’espansione “quantitativa” del proprio Io?
Tra i vari paradossi su felicità e soddisfazione di vita, Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica presso l’università di Roma “Tor Vergata”, ha esposto un esempio forviante: i messicani si dichiarano mediamente più felici di europei ed americani anche se il loro reddito è ovviamente molto inferiore. Ricorda infatti che le distanze di reddito pro capite tra paesi non si sostanziano in analoghe distanze di felicità o soddisfazione di vita. È forse allora il modello di felicità passiva basata sull’assenza di turbamento, più vicina a una società i cui ritmi di vita sono meno frenetici, che dovremmo seguire? Certo, la risposta sarebbe affermativa se la domanda fosse esposta a grandi pensatori del passato come Democrito, Epicuro, Seneca o Schopenhauer. Ma non si può totalmente adattare al nostro caso messicano. Becchetti, infatti, individua un ulteriore paradosso… nel paradosso! Ovvero, perché, se i messicani sono (si dichiarano) più felici, i flussi migratori vanno dal Messico agli USA e non viceversa? Se da un lato il Messico mostra ultimamente grande dinamismo e alti tassi di sviluppo economico, dall’altro lato esibisce enormi sacche di povertà e diseguaglianze sociali, dovute anche alla criminalità e al narcotraffico (Messico: una potenza emergente sull’orlo del collasso di Giuseppe Dentice, 2012). Il fenomeno emigratorio viene visto come una “soluzione” per far fronte a situazioni disagevoli della società. Per coloro che non contemplano una felicità in cui si chiudono le porte ai problemi e si vive nell’ipocrisia di una vita tranquilla e “tiepida”, priva di difficoltà e turbamenti semplicemente perché non affrontati, il concetto stesso di felicità segue una prospettiva piuttosto nietzschiana in cui il dolore è strettamente necessario al raggiungimento della felicità. Ai “fortunati” migranti che riescono ad entrare nel territorio statunitense, infatti, si prospettano una nuova serie di problemi, spesso estremamente pericolosi, che scelgono di affrontare pur di inseguire il sogno americano. Durante l’attraversamento della frontiera sono infatti frequenti gli abusi della Border Patrol (la polizia di frontiera degli Usa), molti di essi riguardano soprattutto le donne. Luogo di desaparicion e di morte quindi, di territori controllati dai nuovi cartelli del traffico internazionale della droga a cui si aggiunge la diffidenza della popolazione oltre frontiera che in alcuni casi sfocia in un vero e proprio conflitto.
Qual è dunque la vera natura della felicità? È essa veramente condannata a dipendere dal sogno di accrescere ciò che possediamo piuttosto da ciò che siamo? Possiamo in qualche modo deviare la nostra società- homo oeconomicus dall’adulazione incondizionata dell’avere e riportarla alla ricerca dell’essere? Ritengo che la giusta risposta l’abbia suggerita lo stesso Erich Fromm durante un’intervista: ci si dovrebbe prefiggere non lo scopo di raggiungere la modalità dell’essere a tutti i costi, ma la certezza di muoversi nella giusta direzione.

Giorgia Lombardini

Perché amo (e amerete) il cinema

Il cinema è tra le forme di arte forse quella più seguita e utilizzata nel formare il proprio modo di pensare e agire, anche nel mondo giovanile. Per questo motivo ci pare giusto dedicare una sezione del nostro blog a una lettura della cinematografia contemporanea, specialmente quella riguardante i giovani. Curerà questa pagina Fabio che da quando era studente liceale già si preoccupava di leggere, o meglio, vedere i film con occhio intelligente. Buona lettura. La redazione.

Una pagina di diario, un racconto personale sul perché amo il cinema, su come mi sono avvicinato alla settima forma d’arte: in ciò dovrebbe consistere il mio contributo a questo blog, come “articolo” di apertura credo possa andare bene.

Quello che vorrei fare è tentare di spiegare perché ogni volta che rivedo Cœur Fidèle sento brividi correre lungo tutta la schiena, pur sapendo ormai chi tra i due uomini sceglierà Marie; o perché tutte le volte che sono un po’ triste e guardo Manhattan Murder Mystery mi sento subito meglio, oppure…

No, è inutile, non sono in grado di esprimere certe cose. Non mi riesce, punto e basta. probabilmente dovrei vergognarmene (ventun anni, maturità classica, due anni di università sulle spalle e ancora non riesco ad esprimermi in italiano), eppure non provo vergogna alcuna. Anzi, in un certo qual modo ne vado fiero, perché il giorno in cui saprò trovare le giuste parole per descrivere cosa rappresenta per me il cinema, vorrà dire che non lo amerò più o, per lo meno, non con la stessa intensità con cui l’amo adesso.

Quando si ama veramente qualcosa, quando la si ama totalmente, con tutti noi stessi insomma, non si può spiegarne il motivo. Qualunque tentativo di delucidazione al riguardo risulta essere riduttivo, come se non appena si cercasse di palesare la natura del nostro amore tramite la lingua, si finisse con lo sminuirlo.

Lo so che può sembrare assurdo, però è così.

Insomma… eravamo arrivati al punto in cui dicevo che non sapevo dire perché amo il cinema. Beh, in effetti non è facile da spiegare: in primo luogo lo amo perché mi emoziona, mi scombussola come nessun’altra forma d’arte riesce a fare.

Si, la pittura mi piace, mi rilassa molto leggere e talvolta frequento con piacere il teatro. Amo la musica ma il cinema è un’altra cosa. Il cinema è pittura, musica e teatro insieme; è fusione di immagini e movimento, è energia cinetica allo stato puro. “Il cinema è diffusione di idee” come direbbe Majakovskij.

Qualcuno a questo punto avrà da obiettare: “Si, ma anche la letteratura, la musica… tutta l’arte serve ed è in grado di veicolare idee”. È vero, niente in contrario al riguardo, solo che il cinema ci riesce fondendo una serie di elementi che le altre forme d’espressione non hanno a disposizione. In quanto ultima arrivata, l’arte cinematografica rappresenta in certa misura la fusione di tutte le precedenti e questo indubbiamente la facilita. La completa.

In un qualsiasi film di Renoir, ad esempio, si ritrovano continui riferimenti ai quadri di suo padre. Eppure si tratta di cinema, non di pittura. Nel cinema convergono tutte le altre arti (Wright sosteneva che il cinema fosse architettura infatti), anche se alla fine l’insieme che si percepisce sullo schermo non coincide affatto con la somma delle singole parti, ma ha qualcosa in più. Cosa esattamente non lo so, ed è questo che adoro del cinema.

Ci penso da una vita ormai, eppure ancora non ho capito che ingrediente misterioso lo renda tanto speciale.

Al cinema devo tanto, forse tutto. Devo le mie conoscenze, la mia mentalità, la mia vita, tutto. Per tutto ciò intendo onorare (e, perché no, criticare) il cinema.

Sperando di non annoiarvi troppo.

Il volontario come lo penso io

Sono Alessandra, 23 anni, quasi architetto e nella vita mi piace fare di tutto, vivo ad Eupilio, un paesino sperso tra monti e laghi.
Ogni anno il nostro vecchio parroco cercava giovani volontari disposti a donare qualche settimana delle loro vacanze per aiutare i missionari in Africa, Brasile, Albania e Messico. Nel 2003 nessuno si propose per Milot, la parrocchia albanese dei Padri Barnabiti. I miei genitori pensarono di offrirsi, fu così che accettai di partire con la mia famiglia per questa nuova esperienza. Avevo 11 anni e pensavo solo a come rendermi utile per il campo estivo. Non sapevamo bene cosa avremmo dovuto fare, ma immaginavo di assistere i bambini più piccoli. Mi sbagliavo, erano le animatrici albanesi che facevano giocare me! L’anno seguente fui io a chiedere a mia madre di tornare.
Nel corso di questi anni sono tornata ogni anno, con motivazioni sempre diverse. All’inizio mi piaceva e basta. Poi di anno in anno incominciai a ricoprire ruoli sempre più impegnativi.
Iniziai a occuparmi della parte “artistica” del campo estivo: murales, allestimento di benvenuto, scenografia e costumi per lo spettacolo, inno e gesti e infine mi chiesero di disegnare il logo del campo per le maglie. Più che un’esperienza di volontariato, l’Albania per me è un laboratorio di apprendimento. È qui che ho imparato a fare di tutto; mi si chiedeva molto con poco e dovetti aguzzare l’ingegno. In realtà con quei pochi cartelloni colorati e costumi fatti di stoffa di recupero, avevo in cambio i visi sorpresi e contenti di un centinaio di bambini. Le fatiche erano presto ripagate e riempivano il cuore di tanta gioia. Ogni anno, per ben undici estati, sono partita persuasa di andare per essere utile agli altri e ogni anno sono tornata a casa convinta che erano gli altri ad aver dato qualcosa a me.
Milot è una palestra di vita: persone dai 16 ai 60 anni che condividono camera, bagno, cibo, lavoro domestico di cucina, pulizie, oltre alla preparazione e allo svolgimento del Grest giorno dopo giorno. Non mancano momenti di riflessione e preghiera quotidiane e si riesce pure a trovare il tempo per giocare e conoscersi! Infatti, da qualche anno, partecipano alla “missione” ragazzi provenienti da diverse comunità barnabitiche di tutta Italia, ed è così che s’incontrano non solo dialetti diversi, ma anche usanze, cibi e caratteri diversi. È un’esperienza davvero sempre nuova, nonostante l’impostazione sia sempre la stessa. Non ci si annoia mai, non si è mai soli!!
Non sono ancora riuscita a spiegare quale filo leghi tutte le persone che partecipano al campo estivo, perché ogni anno ci sono veterani e nuovi arrivati, giovani e meno giovani, suore, preti, cristiani, atei, non praticanti. Forse siamo mossi tutti da una ricerca di noi, degli altri, da una piccola o grande voglia di fare che ci spinge a “correre come matti, non solo verso Dio, verso gli altri” come dice il nostro santo fondatore Antonio M. Zaccaria.
Personalmente ritengo di essere fortunata perché sento di far parte di una piccola comunità, quella barnabitica; sia essa in Albania, a Eupilio o altrove nel mondo, la sento come una seconda famiglia e come tale in essa si dà e si riceve. Questo per me è più del volontariato inteso come volontà di dare gratuitamente senza chiedere nulla in cambio. Per me è mettersi al servizio degli altri, servire con gioia anche se si fatica; spesso è obbedire invece che comandare, senza chiedere perché si fa così, ma fidandosi dell’altro. È stringersi uno vicino all’altro nei momenti di difficoltà o di dolore, come in quelli di gioia e divertimento. È mettersi sempre in gioco, in ogni situazione e a qualsiasi età. È accettare e rispettare l’altro, le diversità anche d’opinione e convivere con lui, perché si è lì entrambi per aiutare qualcun altro. È accettare di smussare gli spigoli del proprio carattere, rischiando di tornare a casa cambiati e non sentirsi più gli stessi di prima. È voler bene a qualcuno anche se non lo si conosce. È aprirsi agli altri e donare se stessi sicuri che facendo posto dentro di sé, si troverà qualcosa di arricchente.
Il “volontariato”, come lo penso io, non è un qualcosa che si fa per esperienza o per cambiare tipo di vacanza, non dura qualche giorno e tutto finisce lì. È una scelta di vita quotidiana. È difficile da spiegare a parole, per capirlo si può solo viverlo sulla propria pelle.
Quest’anno studio e lavoro non mi hanno permesso di partecipare, ma il cuore è comunque a Milot e Milot è comunque nella mia vita.
Alessandra Spreafico

fare o essere volontari

31 luglio 2014

In una tranquilla mattina di finta estate si sono incontrati giovani da diverse parti d’Italia legate alla nostra spiritualità zaccariana per scambiarsi idee sul proprio modo di vivere e definire il campo di volontariato che inizierà tra pochi giorni a Milot, Albania.
Il cosiddetto “precampo” ha visto letteralmente in gioco volontari da Genova, Altamura, Lodi, Roma, Napoli, san Felice, Milot e Livorno per capirsi e capire come meglio lavorare insieme in favore dei bambini che incontreranno.
Precisamente questa mattina alcuni giovani di San Felice hanno raccontato come è nata, come si è qualificata la loro vita cristiana che ha trovato nel Movimento Giovanile Zaccariano un punto di non ritorno per essere Santi, Amici, Missionari, Zaccariani. Una spiritualità che trova nel Crocefisso vivo (parole di SAMZ) e nell’Eucaristia lo sprone a essere cristiani con tutte le lettere maiuscole. Essere parte dell’MGZ non significa essere perfetti, ma camminare, inciampare, rialzarsi e camminare ancora forti dell’amicizia di Cristo. Grazie a questa amicizia, mediata dalla forte esperienza e testimonianza di SAMZ, è cambiato il nostro modo di vedere e vivere e custodire il mondo che ci è stato donato.
A seguire Gaia ha brevemente spiegato come è nata l’esperienza del QenderAgorà: la naturale evoluzione missionaria, caritativa della spiritualità zaccariana, il modo di correre verso il prossimo oltre che verso Dio (sempre per riprendere delle SAMZ parole!). Questo precampo poi è proprio un buon risultato in quanto “ponte interculturale” tra diverse persone e culture per costruire quell’attenzione al prossimo che non possiamo eludere.
Ergisa, di Milot, invece ha sottolineato come, grazie a questo lavoro di volontariato la parrocchia di Milot sia diventata un vero e proprio punto di riferimento culturale, sociale, evangelico per il territorio.
Di conseguenza Padre Giovanni, parroco di Milot, ci tiene ad evidenziare la necessità ma anche la bellezza di formare i formatori, i volontari, non tanto per avere dei cristiani professionisti, bensì dei cristiani che sappiamo consapevolmente prendersi a cuore il vangelo da testimoniare.
Il volontario non è solo uno che sa fare, deve essere prima di tutto uno che sa essere! Questa la naturale sintesi del lavoro di questi giorni.
In quanto responsabile dell’Ufficio di Pastorale Giovanile dei Padri Barnabiti, mi piace sintetizzare il valore di questo precampo che, seppure ha sottratto qualche giorno di lavoro con i bambini di Milot, ha permesso di rafforzare l’identità e le competenze dei nostri volontari. Si è aperta una scuola di volontariato barnabitico? Io penso di sì e credo che continueremo a vederne i frutti non solo a Milot ma in tutto il mondo.
Grazie a tutti e ora buon KampiVeror2014 domani si salpa da Bari per Durazzo quindi Milot.
pGiannicola M. Simone

#Estatezaccariana2014, pronti per Kampi Veror!

Manca pochissimo alle varie partenze: chi dalla Puglia, chi dal Lazio, chi dalla Liguria e chi dalla Lombardia. Ancora tutti verso una meta: San Felice a Cancello. Qui, infatti, alcuni di noi giovani volontari zaccariani, si troveranno per un precampo, in compagnia dei nostri amici albanesi, che ci aiuteranno ad organizzare il Kampi Veror 2014. Questo precampo ci consentirà di dedicare alcuni giorni alla nostra formazione, mirando specialmente a creare un gruppo sempre più compatto attraverso momenti di riflessione e di gioco. Sfrutteremo questa nuova occasione anche per discutere sulle proposte organizzative per il Kampi Veror, per preparare il materiale e i giochi da noi organizzati per i bambini e ragazzi che ci attendono a Milot!! Trascorsi questi 5 giorni, ci imbarcheremo da Bari verso il porto di Durazzo. Non appena salperemo per la Terra delle Aquile, saremo senz’altro carichissimi ed entusiasti per affrontare il Kampi Veror 2014, per divertire ed educare i nostri piccoli amici e per metterci in gioco in una serie di “giorni magici”! Francesca Beretta – Lodi

Apriti alla verità, porterai la vita

Con questo articolo iniziamo una rubrica a cura del gruppo Beta della nostra parrocchia di Genova, rubrica nella quale vogliamo offrire di volta in volta la recensione di alcuni libri interessanti per la vostra riflessione, per il nostro cammino cristiano.

Il libro proposto è una testimonianza efficace da parte di un giovane e della sua vita di cristiano, occasione di crescita per un campo parrocchiale di alcuni giorni. Sullo sfondo è don Puglisi, il sacerdote che complicò la vita arrogante e criminale della mafia. Il giovane protagonista vive con coerenza il Vangelo; si mette in gioco e offre la sua collaborazione di volontario alla comunità e agli ultimi, i più poveri e bisognosi. Per questo risulta troppo scomodo, proprio come don Puglisi… Il testo si apre a spunti di riflessione e discussione; mette in risalto temi attuali per confrontarsi e aiuta a camminare nella coerenza di uno stile di vita consono a quello di Gesù. Attraverso “tappe” che propongono momenti di sosta (preghiera), alternati a momenti di attività pratica (giochi), giovanissimi, giovani e animatori si confrontano sulla difficile scelta cristiana nella società di oggi.

Quando un Barnabita chiama…

Quando un Barnabita chiama, rispondi! senza nemmeno pensarci!
Questo è quello che è successo a me e ad altri miei coetanei in questa settimana dell’Estatezaccariana2014.
Levatomi di buona mattina dal letto e preso il treno da Milano alla volta della città eterna, finii per giungere in una casa di pronta accoglienza H24, “La casa di Cristian”, un luogo ospitale sia per noi volontari e operatori che per i nuclei famigliari ospitati lì dalla CaritasRoma.
Giunti in quel luogo, da noi immaginato in modo completamente diverso, fummo spazzati via di tutte le nostre certezze, poiché tutti i piani di lavoro da noi creati e le nostre “esperienze” come animatori divennero inutili.
Il primo giorno, dopo aver sistemato tutti i nostri bagagli abbiamo atteso con ansia l’arrivo dei bimbi, credendo che essendo pochi il lavoro sarebbe stato facile; non potevamo essere più in errore, il nostro compito, che ci era stato presentato come semplice, era quello di animare, controllare, e giocare con una ventina di bambini, i figli delle mamme ospiti di “Casa di Cristian”. “Casa di Cristian” infatti ospita mamme in difficoltà a causa di violenze o maltrattamenti subiti, mamme che non hanno più un punto di riferimento, spesso nemmeno con le famiglie di origine, italiane e non.
Anche se le ore di “lavoro” – scritto tra virgolette perché non lo si può definire veramente un lavoro – non erano tantissime, si sono rivelate subito pesanti e molto laboriose. Diciamocelo, correre dietro a ogni bambino è stancante, perché hanno un energia che nessuno possiede più, nemmeno un diciottenne!
Ogni giorno dopo una breve dormita, ci svegliavamo alle sei per preparare la colazione per tutti, successivamente pulizia della cucina e intrattenimento di quei pochi bambini rimasti fino all’ora di pranzo, che io stesso mi incaricavo di preparare perché migliore in cucina rispetto i miei compagni, dopodiché un po’ di riposo, approfittando del pisolino dei bambini, ma solo fino alle 16!
Alle 16 infatti il risveglio o il rientro in casa di tutti i piccoli ospiti ed ecco l’inizio di grandi corse per il giardino, di grandi giochi sino alle 23 quando tutti si sarebbero rintanati in camera, stremati (noi o loro?) a dormire.
Così è andata avanti una settimana, una faticosa settimana, una bella settimana, dove io ho tentato di insegnare qualcosa ai bambini, come le regole di un gioco o dello stare insieme, mentre loro, con i loro furbi sorrisi, con il loro smisurato bisogno di affetto hanno invece insegnato molto di più a me.
Grazie “casa di Cristian”, grazie estatezaccariana2014!

 

Federico Locatelli, Collegio san Francesco Lodi, con gli amici di scuola e dell’oratorio del Gianicolo.

5 luglio 2014

La festa di Antonio M. Zaccaria, nostro padre e fondatore è ormai vicina.
Senza la pretesa di scrivere cose profonde, perché altri meglio di me sono capaci, mi permetto qualche riflessione alla luce del Sermone III che ho scelto per le celebrazioni di questo 5 luglio 2014.
Una cosa è certa e assolutamente moderna secondo AMZ: Dio Padre non smette di cercare l’uomo, anzi per sempre egli si ricorderà di noi perché anche noi, dopo gli apostoli gli siamo stati affidati da Gesù, il Figlio.
Tra le tante citazioni bibliche (e poi Lutero diceva che i cristiani a lui contemporanei non usavamo la Bibbia: birichino!) mi ha colpito e ricolpito la parafrasi del racconto della donna che mette sottosopra tutta la casa per cercare la moneta smarrita, una piccola moneta: quella moneta siamo ognuno di noi. Quando ci perdiamo. Dio Padre non smette di cercarci: parola di Gesù.
Noi cerchiamo di non peccare, cerchiamo di non fallare, di restare vicini a Dio, di rispettare lo Spirito santo che dimora nelle nostre coscienze, ma spesso non ci riusciamo, sovente ci perdiamo. Ma Dio il Padre non smette di cercarci. Che grande consolazione, che grande dono, che grande “assicurazione” per la vita!
Di fronte a tanta abbondanza di sicurezza come non esplodere di gioia? Come non domandarci in quale modo possiamo “ripagare” il nostro Creatore? Offrire a Lui “ricognizione”, dice AMZ?
«E se mi dicessi, Carissimo, di quali cose tu debba dargli il frutto, nota:
– di ciò che si ritrova in te, perché ogni bene è dall’alto (Gc 1,17);
– e ancora, di ciò che non hai, ma desideri avere, perché Egli dà il desiderio ed il «perficere pro bona voluntate: l’operare secondo il suo beneplacito» (Fil 2,13);
– e secondo la qualità delle cose, così che tu sei obbligato del proprio e del particolare frutto di ricognizione».
– Riconoscere i talenti che abbiamo ricevuto in dono dall’alto, metterli a frutto;
– non avere paura di desiderare il bene che vogliamo per noi e crescere nel bene;
– sentirsi in dovere di ripagare Dio della sua bontà con la nostra bontà, per quanto piccola.

Buona festa di Sant’Antonio Maria Zaccaria

Vi attendiamo alla diretta web sabato 5 luglio alle ore 16.00, www.giovanibarnabiti.it

Con affetto,
nel Signore,