Basket meraviglia del Sud Sudan!

Il Sudan del Sud è uno degli Stati più giovani e più turbolenti del mondo: il processo per la secessione e l’indipendenza dal Sudan è terminato solamente nel 2011, poi dal 2013 al 2020 c’è stata una violentissima guerra civile con i (quasi) omonimi del Nord, che ha provocato 400mila morti, secondo stime non confermate, e ha determinato la fuga di quattro milioni di profughi. Ancora oggi tra i due Paesi persistono diatribe riguardanti in particolare il petrolio, di cui il Paese è molto ricco. Anche una volta ottenuta l’indipendenza, la storia di un Paese grande il doppio dell’Italia non è stata semplice: nel 2013 è scoppiato un sanguinoso conflitto etnico tra le forze governative del presidente Kiir, di etnia Dinka, la più numerosa del Paese, e quelle fedeli all’ex vicepresidente Machar, di etnia Nuer. Solo nel febbraio 2020 è stato finalmente dato seguito all’accordo di pace del 2018, con la redazione di una nuova Costituzione e di un governo di unità nazionale che porterà il Paese a nuove elezioni, fissate il prossimo dicembre.

In un contesto del genere, era molto difficile che potesse fiorire un movimento sportivo anche solo lontanamente competitivo. Invece nel 2011 avviene la prima storica qualificazione di questo giovane Paese ad AfroBasket 2021 e successivamente l’approdo ai Mondiali 2023 a Manila, nelle Filippine, ma soprattutto l’impresa olimpica. Questa squadra però ha rischiato di non partecipare ai Giochi poiché, nel torneo africano di qualificazione, tutti i componenti avevano contratto il Covid trovandosi costretti a ritirarsi. Ripescata per un pelo dopo il ritiro dell’Algeria, la nazionale del Sud Sudan ha poi partecipato ai Campionati Mondiali dove, battendo l’Angola, ha conquistato di diritto il pass olimpico. Un lieto fine degno di una favola, la realizzazione di un sogno del “Paese che molta gente nemmeno sa che esiste”, come ha detto il giocatore Wenyen Gabriel. Poiché nel Paese non c’era nemmeno un palazzetto, la selezione sudsudanese, è stata costretta a effettuare un ritiro pre-Giochi in Ruanda, in attesa del completamento del palazzetto al coperto finanziato dal presidente della Federazione Luol Deng, che sogna di costruirne anche altri.
Domenica 28 agosto, Palazzetto Pierre Mauroy di Lille, esordio nel torneo olimpico di basket contro Porto Rico: i cestisti del Sud Sudan, alla loro prima partecipazione, si dispongono per il momento degli inni nazionali, mano sul petto, mentre partono le note dell’inno del Sudan, scelto per celebrare l’indipendenza del Sudan dal controllo coloniale inglese. Chiaramente è l’inno sbagliato: quello del Sudan del Sud, che si è reso indipendente da Khartoum appena tredici anni fa dopo una faticosa guerra civile e un referendum, è invece un altro, “South Sudan Oyee”, che tradotto in italiano significa “Evviva il Sudan del Sud”. Superato il momento di imbarazzo, compreso dal pubblico presente che li ha lungamente applauditi, la Nazionale guidata dal c.t. Royal Ivey ha superato per 90-79 la nazionale centroamericana, con il playmaker Carlik Jones autore di 19 punti, 7 rimbalzi e 6 assist. Purtroppo, però la selezione sudsanese perderà le ultime due partite della fase a gironi, rispettivamente contro Team USA delle superstar LeBron James, Stephen Curry e Kevin Durant (103-86) e contro la Serbia di Nikola Jokic (96-85). Quest’ultima sconfitta ha infatti spento il sogno del Sud Sudan di centrare una storica qualificazione ai quarti di finale. Infatti, gli africani si sarebbero qualificati con una vittoria o anche con un ko di uno o due punti. Ma un plauso va sicuramente all’impegno e al cuore del Sud Sudan, che anche sul -17 non si sono mai arresi arrivando anche sul -7, salvo poi però subire di nuovo il vantaggio serbo e la sconfitta finale per 96-85.

Ma come fa uno dei Paesi più poveri al mondo, con un Pil pro capite di 230 dollari, con un indice di sviluppo umano (ISU) tra i più bassi (il 94% della popolazione vive nei villaggi), colpito dalla crisi economica, dalle minacce ambientali (il Sudan del Sud è considerato tra i cinque Paesi al mondo più vulnerabili ai cambiamenti climatici) e senza un palazzetto per gli allenamenti ad avere una Nazionale di pallacanestro tanto importante da arrivare alle Olimpiadi, dove il posto per le selezioni africane è solo uno? Buona parte del merito si deve al seguito generato dalla grande carriera di Manute Bol, una delle prime stelle africane della NBA: cresciuto in un villaggio Dinka, inizialmente lavorava come pastore. Poi è stato notato da un osservatore per la sua altezza sbalorditiva (231 cm) e si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha giocato con Washington, Golden State, Philadelphia e Miami a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90. Prima di arrivare negli Usa, mentre era al Cairo in attesa di ricevere il visto, Bol ha fondato una scuola di basket in cui è stato uno dei primi maestri di Luol Deng, sud sudanese con cittadinanza britannica e stella NBA tra il 2014 e il 2019 con numerose squadre, tra cui Miami, Chicago, Minnesota, Cleveland, e i Los Angeles Lakers.

Ma sicuramente gran parte del merito per aver creato questa nazionale va attribuito proprio allo stesso Luol Deng, che nel 2019 ha accettato la richiesta d’aiuto del governo sudsudanese per gestire il programma di basket ed è diventato presidente della Federazione, proprio lui che dal Sudan del Sud era scappato nel 1990.
Inoltre, il due volte all-star NBA a Juba, capitale del Paese, ha aperto una Deng Academy per ispirare i giovani. In realtà, però, non è stato e non è solo il presidente federale e l’uomo-simbolo del movimento: ha convinto giocatori di altre nazionalità a rendersi eleggibili per la Nazionale sudsudanese, ha finanziato di tasca propria hotel, palestre e biglietti aerei, non avendo dormitori o strutture per allenarsi; a un certo punto ha persino accettato di diventare capo-allenatore pur non avendo alcuna esperienza in questo ruolo.

Impensabile che fino a poco fa questa nazionale che non aveva neppure un palazzetto al coperto adesso è pronto a scrivere la storia ai giochi olimpici. «Un anno fa ci allenavamo all’aperto con le aquile che ci sorvolavano minacciosamente. I campi erano allagati. Al coperto non ce ne sono», ha raccontato il c.t. Ivey.
Per questo giovane Paese però il basket è la seconda disciplina olimpica dopo l’esordio ai Giochi Olimpici di Rio 2016 nell’atletica leggera. Questo evidenzia l’enorme passione e amore dei sudsudanesi verso il proprio Paese; un amore che è stato tale da portare la gente a riversarsi in massa per le strade al loro arrivo a Juba dopo la Coppa del Mondo e oggi a seguire in diretta le partite.
Insomma, è stato il vero e proprio artefice di questo impensabile traguardo e un vero e proprio esempio positivo, come quello che intende trasmettere al mondo. Infatti, lo ha sottolineato proprio lui stesso con queste parole: «Vogliamo che la gente conosca la nostra storia, che c’è un giovane Paese che va nella direzione giusta. Vogliamo essere conosciuti come esempio positivo. Questa è la nostra presentazione al mondo».
Nel roster delle Bright Stars (così chiamati i giocatori della nazionale) le etnie Dinke e Nuer convivono pacificamente, ci sono cestisti come Carlik Jones, nato in Ohio, oppure come la guardia Marial Shayok, nato in Canada. Ci sono poi anche coloro che sono scappati dall’Africa quando erano ancora bambini, come nel caso della guardia Peter Jok, che perse suo padre, generale dell’Esercito Popolare di Liberazione del Sudan, e suo nonno, durante la seconda guerra civile sudanese (1983-2005), ed è poi emigrato negli Stati Uniti. Oppure, come l’ala Nuni Omot, nato in un campo profughi in Kenya da genitori che stavano scappando dalla guerra in Etiopia nel 1994. O addirittura come Khaman Maluach, neppure diciottenne, 218 cm di altezza, cresciuto in un campo profughi in Uganda con ciò che resta della sua famiglia devastata dalla guerra.

Impensabile che fino a poco fa questa nazionale non aveva neppure un palazzetto al coperto e adesso è pronto a scrivere la storia ai giochi olimpici.  «Un anno fa ci allenavamo all’aperto con le aquile che ci sorvolavano minacciosamente. I campi erano allagati. Al coperto non ce ne sono», ha raccontato il c.t. Ivey.

Per questo giovane Paese però il basket è la seconda disciplina olimpica dopo l’esordio ai Giochi Olimpici di Rio 2016 nell’atletica leggera. Questo evidenzia l’enorme passione e amore dei sudsudanesi verso il proprio Paese; un amore che è stato tale da portare la gente a riversarsi in massa per le strade al loro arrivo a Juba dopo la Coppa del Mondo e oggi a seguire in diretta le partite.

Forse dovremmo imparare di più da queste storie, da questa Africa di cui spesso abbiamo solo pregiudizi.

Manuele L. – Firenze

Il fallimento degli aiuti umanitari

Nonostante tutti gli aiuti e risorse messe in atto in Africa questa detiene ancora tutti i primati negativi. Perché? Dov’è l’errore che come un bias, errore sistematico, in un analisi statistica altera completamente il risultato?

Tutti sono d’accordo nell’affermare che il modello assistenziale non può rappresentare la strada giusta per liberare questi popoli dal loro stato di indigenza. D’altro canto dobbiamo fare attenzione a non cascare nello scontato del “prevenire è meglio che curare” oppure del “a chi ti chiede un pesce, insegna a pescare”, la famosa acquisizione del know-how.

La maggior parte delle dichiarazioni rilasciate da enti che si occupano dei PVS (paesi in via di sviluppo) si basano su una logica del genere, trasferire conoscenza e gli strumenti adatti. Però anche le strategie educative hanno avuto uno scarso risultato e un basso impatto sulla popolazione dei PVS.

Perché questo insuccesso?

Intanto possiamo sottolineare la mancanza di idee e soluzioni innovative: ci si concentra sempre e solo su assistenza sanitaria, sviluppo agricolo e industriale. Proviamo invece a sostituire l’aggettivo “scontato” con “svuotato”, infatti il nostro bias sembra essere legato a un vuoto concettuale, a una mancanza di contenuto antropologico, che possiamo riscontrare anche nel come la realtà viene letta, in base a degli indicatori di salute, benessere e sviluppo, con lo scopo di rendere la realtà misurabile, ma questo approccio è ben lontano dallo scoprire vere soluzioni al problema.

La strada da intraprendere è quella della riscoperta di senso, rispetto ad un numero o a una statistica, al di là della causa materialistica in sé. Si rende necessario trasmettere alle popolazioni dei PVS dei valori antropologici che indichino il perché e per chi migliorare, come scrive Vicktor Frankl, prigioniero nei campi di concentramento: «si può anche vivere senza saperne il perché, ma non si potrà mai vivere senza sapere per chi».

Fino a oggi negli aiuti umanitari a prevalso il “come”. Ma lo sviluppo in quanto fenomeno umano è immediatamente, un fenomeno morale: noi occidentali soffriamo di un vuoto antropologico, e di conseguenza non riusciamo a trasmettere a queste popolazioni un modello autorevole di uomo e di umanità. Infatti anche nei programmi per il personale dei PVS è rarissimo trovare corsi che si concentrino sull’importanza della promozione umana, perché e per chi apprendere?

Come in un organismo, quando una componente è deficitaria altre vanno incontro ad iperplasia. In questo caso vediamo come la ricerca biomedica ha fatto enormi passi avanti, la salute, è uno dei settori prominenti sul mercato. Ma nonostante ciò le nuove tecnologie, farmaci e macchinari più all’avanguardia rimangono a disposizione di un élite, e così è come avere un giardino dell’Eden chiuso, accessibile a pochi mentre intorno la maggior parte della popolazione si nutre di erbacce. La dichiarazione di Alma ATA (1978) lanciava come slogan “salute per tutti entro il 2000”, Primary Health Care, ovviamente questo obiettivo che sembrava già allora irraggiungibile non è stato raggiunto, ma anzi sembriamo andare verso l’esatto opposto. Così la saluta diventa il primo paradigma dell’ingiustizia sociale. C’è comunque da dire che l’UE ha intrapreso una strategia di lotta con le cosiddette Poverty Related Deseases (PRDs: AIDS, tubercolosi, malaria) cercando di finanziare economicamente le ricerche su metodi di guarigione per quelle malattie più diffuse dei PVS. Per affrontare il problema della salute nei PVS si è cercato soprattutto di trasferire conoscenze e competenze alla popolazione locale, cercando quindi oltre ad un modo per risolvere il problema salute, anche un modo per risolvere il gap professionalizzante esistente.

Ma, come già sottolineato, ci sono chiari segni della deriva puramente tecnicistica del trasferimento di tali conoscenze, ritornando sempre all’annosa questione: “perché e per chi mi do da fare?”. Dunque possiamo concludere che il primo passo non può essere soltanto operativo. Bisogna concentrarsi sul fine, e sulla ricerca di uno scopo che sta dopotutto dietro ad ogni grande scoperta e sviluppo di un popolo. L’etica può aiutarci anche nel direzionare gli investimenti economici, il problema è che molto spesso il dove orientare gli sforzi non è una decisione che può essere presa liberamente ma segue delle logiche di mercato, molto lontana dal porsi obiettivi umanitari. Per esempio è inutile spendere innumerevoli somme per un centro oncologico quando ci sono molti bambini che muoiono per mal nutrizione.

Non è tanto la formazione tecnologica del personale assegnato ai PVS quanto la loro formazione umanitaria che conta. Se scoppia un epidemia è inutile che un medico se ne stia nel suo ospedale con tutte le sue attrezzature e farmaci a disposizione aspettando che la gente vada da lui e non lui da loro. La Primary Health Care di cui si occupa la sanità pubblica si fa andando tra la gente e analizzando le necessità e i rischi che un certo popolo corre. Per quanto riguarda la formazione etica è importante che chi opera nel settore biomedico venga istruita da un punto di vista etico poiché è di importanza fondamentale per uno sviluppo corretto e sano dell’umanità.

Chiara Lagravinese – Roma