“Adolescenti sani!”: questo il titolo dell’articolo editoriale con il quale avevamo aperto il primo numero del 2025 della nostra rivista cartacea. Un articolo che parla di giovani, pandemia e cambiamenti, ma che principalmente interroga gli adulti e chi dei giovani si occupa.
Abbiamo quindi chiesto ad alcuni di questi “giovani” di darci dei brevi commenti su questo articolo, che riportiamo in seguito.
Valeria partendo dalla sua esperienza personale, ci racconta di come non solo i giovani sono cambiati durante il covid, ma anche gli adulti, e si sofferma sull’importanza di un ascolto sincero dei giovani, e scrive:
«Leggendo queste parole, mi sono sentita profondamente coinvolta, perché quando è scoppiata la pandemia avevo soltanto 11 anni. Mi trovavo in quel periodo di passaggio tra l’essere bambina e diventare una ragazza, proprio all’inizio dell’adolescenza. Un momento delicato, in cui tutto inizia a cambiare: il corpo, le emozioni, le relazioni. Ma invece di vivere queste trasformazioni con naturalezza, tutto si è bloccato. Ognuno di noi ha vissuto questo trauma collettivo in modo diverso, sfogando alla fine di esso reazioni differenti.
Ho notato anche io, come viene detto nell’articolo, un cambiamento repentino nei ragazzi poco più grandi o poco più giovani di me, i quali sono diventati molto più agitati, poco consapevoli delle loro azioni e riscontrano gravi difficoltà nel socializzare. É ovvio che le ripercussioni ci sono state anche sugli adulti, che sono diventati sempre più egoisti e impazienti, come se dovessero recuperare il tempo perso durante il lockdown.
Io ritengo, come anche affermato nel testo, che sia fondamentale che gli adulti aiutino noi giovani a ritrovare sé stessi, ad essere ascoltati e capiti anche se ciò potrebbe essere visto come una perdita di tempo a causa degli atteggiamenti discostanti o provocatori che a volte mostriamo. Secondo me, essendo una loro coetanea, penso sia l’unico modo per portare sulla retta via ragazzi agitati, sempre con il telefono tra le mani e con la testa altrove, poiché l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, in realtà, è un punto di riferimento stabile, adulti capaci di ascoltarci davvero, con pazienza, senza volerci subito correggere o “aggiustare”. Dunque, come conclude l’articolo, la vera sfida non è riportarci in chiesa o farci seguire regole, ma aiutarci a sentire che c’è qualcuno che ci chiama per nome, che crede in noi e nel nostro futuro e non ci consideri come dei “malati” o delle persone da “aggiustare”.»
Anche Giacomo ci racconta della sua esperienza personale durante la pandemia e di come, secondo lui, la pandemia abbia influito sui comportamenti dei giovani:
«Leggere questo articolo mi ha fatto tornare alla mente tante cose a cui spesso cerco di non pensare. Quando è iniziata la pandemia avevo 11 anni, ero alle medie, e sinceramente non avevo capito subito cosa stava succedendo. All’inizio sembrava quasi una vacanza, niente scuola, tutto chiuso, giornate infinite a casa. Ma poi è diventato pesante. Le lezioni online, la solitudine, la noia, il senso di smarrimento… sono cose che non si dimenticano.
L’articolo mi ha colpito perché, per una volta, qualcuno ha saputo descrivere bene quello che tanti della mia generazione hanno vissuto e stanno ancora vivendo. Non si tratta solo di “pigrizia” o “mancanza di voglia”, come spesso ci viene detto. È che ci siamo ritrovati a crescere in un momento strano, dove tutto era sospeso, dove le relazioni erano dietro a uno schermo e il futuro sembrava lontanissimo, quasi finto.
Ora ho 17 anni e a volte mi sento ancora un po’ perso. È come se ci mancassero dei pezzi, come se fossimo cresciuti in fretta ma senza tutti gli strumenti. Ed è frustrante sentirsi dire “ormai è passato”, come se tutto dovesse tornare normale automaticamente. Ma non è così semplice.
Quello che dice l’articolo sulla pazienza e sulla presenza degli adulti mi sembra verissimo. Non abbiamo bisogno di essere giudicati o corretti in continuazione. Abbiamo bisogno che qualcuno ci stia vicino davvero, che provi a capirci senza pretendere subito risultati o cambiamenti. A volte basta poco: uno sguardo, una domanda sincera, qualcuno che ascolta senza interrompere.
Mi ha fatto bene leggere queste parole, perché mi sono sentito capito. E penso che anche molti miei coetanei si ritroverebbero in questo. Non vogliamo fare le vittime, ma neanche essere trattati come se fossimo sbagliati o rotti. Abbiamo solo bisogno di tempo, e di qualcuno che creda in noi, anche quando facciamo fatica a crederci da soli.»
Sarah (adulta, con una esperienza di educatrice e di lavoro) ci spiega quali, secondo lei, sono le origini di questi cambiamenti dei comportamenti, legate ai social e all’iper performatività a cui i bambini sono sempre più sottoposti, e di come questi processi si siano intrecciato con la pandemia:
“Effettivamente sono d’accordo con te sul fatto che non si dedichi abbastanza “tempo” ai giovani. Da bambini imparano che devono fare mille attività organizzate e vedono i genitori giusto la sera prima di andare a dormire. attività in cui devono eccellere, in cui sono sempre considerati i migliori. Secondo me sono una generazione non abituata ai no che si è trovata ad affrontare un periodo (la pandemia) che li ha posti davanti ad un grandissimo no.
Una generazione (credo colpa anche dei social e dei ritmi frenetici che essi impongono) che non sa soffermarsi sulle cose, che fatica ad andare in profondità. Io personalmente avevo trovato negli scout un posto dove ti chiedono di fermarti, di capire chi sei non solo come essere unico e staccato dalla realtà ma soprattutto in relazione con l’altro e la comunità che ti circonda. ricordo che mi aveva molto aiutato e ha decisamente influenzato le mie scelte di vita future
Ovviamente sto molto generalizzando, sicuramente ci sono delle eccezioni, ma in un’epoca in cui vince chi grida più forte (il tutto amplificato da internet), individui che già attraversano un periodo difficile (quello dell’adolescenza) fanno sicuramente ancora più fatica.
E per concludere, durante la pandemia abbiamo estremamente sottovalutato l’impatto psicologico che essa ha avuto su certe fasce della popolazione (adolescenti e studenti in generale e anziani i primis, persone più povere che non avevano accesso a tutti gli strumenti informatici necessari a continuare a lavorare e studiare o che semplicemente vivevano in spazi ristretti in famiglie numerose).
Vincenzo sottolinea di nuovo, l’importanza dell’ascolto e della pazienza nel rapporto con i giovani, fondamentali per riconoscerli nelle loro forze e fragilità:
«Questo testo è molto toccante, perché parla in modo sincero delle difficoltà che i giovani stanno vivendo dopo la pandemia. Fa riflettere su quanto il COVID abbia lasciato segni profondi, anche se spesso invisibili. L’autore dice che oggi educare non significa solo dare regole, ma soprattutto ascoltare, stare vicino e avere tanta pazienza. I ragazzi hanno voglia di stare insieme, ma fanno fatica a costruire legami veri e duraturi. Si sente il bisogno di dare loro fiducia e tempo, anche solo per stare con loro senza fare nulla. Il testo invita a guardarli negli occhi, a riconoscerli per quello che sono, con le loro forze e le loro fragilità. Non serve riportarli solo in chiesa, ma aiutarli a scoprire chi sono e quale può essere il loro posto nel mondo. È un invito a seminare amore, accoglienza e speranza, anche se i risultati arriveranno piano piano.»
Anche Gianluigi, infine, sottolinea la necessità di un aiuto concreto nel riconoscere una chiamata alla vita vera:
«Questo articolo interpella fortemente chiunque abbia a che fare con i giovani (genitori, educatori, insegnanti, animatori). Il vero messaggio, però, è rivolto anche al mondo adulto nel suo insieme: non si può educare senza mettere in gioco sé stessi, senza rallentare, senza scegliere di esserci davvero.
La pandemia ci ha mostrato quanto fragile sia la nostra società, e quanto velocemente possiamo perdere l’essenziale. Ma ci ha anche mostrato che la relazione col prossimo è ciò che può farci ripartire.
Il messaggio finale è potente: più che riportarli in chiesa, aiutiamoli a riconoscere una chiamata. Che sia spirituale, personale, relazionale. In ogni caso, una chiamata alla vita vera.»
ascoltare
FARE SILENZIO
Da quant’è che stiamo a casa? 41, 42, 50 giorni? Ho perso il conto, ma che importa?
È tutto sempre uguale, sempre così monotono. Libri, film, lezioni on-line, studio, serie tv e a nanna, quando e se il sonno arriva. Sembra che non ci sia niente di speciale, niente che colori la nostra giornata, niente che non c’era prima, anzi ci sentiamo deprivati dai nostri bisogni, dalle nostre “necessità” e non ci accorgiamo che questa assurda situazione ci regala un qualcosa che in condizioni normali è estremamente difficile da ottenere.
Se la sera vi affacciate alla finestra o uscite sul vostro balcone, che cosa sentite? Niente, assolutamente nulla. Un silenzio quasi totale avvolge le nostre città, le nostre case. Se si è abbastanza fortunati da non affacciarsi su una strada trafficata il silenzio può durare gran parte della giornata.
Il grande problema è che nella nostra vita in cui dobbiamo sempre fare, correre, “mai fermarsi, davanti a nulla” e non siamo abituati a stare in silenzio, quasi non conviene ed è noioso stare zitti e fermi senza fare nulla. Quando c’è silenzio abbiamo sempre bisogno di riempirlo, con tv, musica, chiamando zia Giuseppa che non sentivamo dal lontano 2014.
Il silenzio ci spaventa, perché? Perché ci sono così tante difficoltà oggi nel dialogo, nel confronto con l’altro? Come posso ascoltare l’altro se non riesco a stare in silenzio? Come posso cogliere il significato delle sue parole se non riesco a sentirle?
Così come si ha difficoltà ad ascoltare l’altro si ha difficoltà a ascoltare la voce del nostro io, che appena ha l’opportunità esce prepotentemente ma che noi copriamo velocemente con la voce del primo conduttore televisivo che Italia1 ci offre. Stare in silenzio è forse così spaventoso per la paura che abbiamo di restare soli con noi stessi e a quel punto come possiamo fuggire dal confronto che così tanto temiamo con noi stessi?
Nel silenzio prendono vita i nostri pensieri, i dubbi, i sogni, i progetti che possono fare male, dare fastidio, magari perché ce ne vergogniamo o magari perché non corrispondono alle aspettative che gli altri hanno su di noi. La nostra vocina interiore, il nostro grillo parlante ruba la scena nel silenzio e da vita a pensieri nuovi, a nuove sensazioni ed emozioni che non avevamo mai provato e a nuovi lati del nostro io che ancora non avevamo scoperto. Il silenzio aiuta a scavare nel nostro intimo, a prendere consapevolezza delle nostre mancanze e dei nostri errori e cercare di rimediare ad essi. Ci serve per conoscere ed accettare le parti di noi stessi che ancora non sapevamo di avere, ci mostrerà anche ciò che non siamo, ciò che non vogliamo essere e ciò che vorremo essere.
Certo lo stare in silenzio è difficile ma estremamente arricchente.
Dobbiamo trovare il desiderio di stare in silenzio, dedicando questi momenti a noi stessi, a un dialogo interiore che ci permette di intraprendere un percorso di crescita, con lo scopo di diventare persone Vere, impegnate nel fare il bene, nel servizio, al cambiamento e all’aiuto verso il prossimo.
Samuele G. – Genova
È facile essere giovani a Merida?
È facile essere giovani?
Bella domanda. Dipende dai punti di vista, dalle statistiche, dall’ottimismo, pessimismo o realismo dell’interlocutore.
Più che da ottimismo sono guidato dalla Speranza, che mi permette di essere realista. Realista nel trovare e confermare il buono senza nascondere il cattivo.
Ieri sera mi sono ritrovato con un nutrito gruppo di giovani messicani, di Merida (Yucatan). Non è stato facile entrare in sintonia: il rumore della strada e dei ventilatori, la lingua, la preoccupazione di raccontare cose inutili, il loro numero!
Con tutto ciò sono emerse delle reazioni e riflessioni interessanti sul loro essere persone, giovani, cristiani.
Non sono pochi i problemi in Messico, magari a Merida di meno, ma non mancano le aggressioni contro i giovani, la droga, lo spaesamento, il lavoro. Quindi come essere giovani e cristiani di fronte a tutto ciò?
Si è cristiani perché ci è stato insegnato così e accolgo questo dono della mia famiglia racconta F. Ma si deve anche diventare cristiani, cioè usare la ragione per capire cosa dice il cuore; rielaborare cosa la famiglia ci ha insegnato è importante e necessario, se non si vuole mantenere una fede infantile.
A. è cristiano perché “Dio è tutto per la mia vita!”. Bella affermazione. Quello che penso, sono, faccio è condiviso con Dio e da lui illuminato. Sorprendente professione di fede. Ho chiesto ad A. di scrivermi il significato di queste parole, per crescere insieme, anche se spesso le parole non possono dire l’Amore.
Ragionare sulla fede è importante e necessario, ho insistito su questo aspetto culturale che è proprio di noi barnabiti e delle persone che crescono con noi. Sapere che J. non disdegna di leggere un libro, un romanzo, non solo apre la mente ma anche aiuta a capire che … si vuole capire il mondo in cui lo Spirito ci conduce a vivere non solo dal proprio punto di vista. Aprire la mente è il modo migliore per testimoniare la Carità!
Ma il mondo non è sempre facile da vivere. A. denuncia la fatica di essere cristiani, di essere una persona che sceglie di lavorare per studiare di più e trovare qualche “buco ufficiale” per Dio. Non è facile essere cristiani in un mondo che gira molto altrove. Non è facile essere rispettati nella propria fede. Ma è bello, perciò facile prendere delle buone strade per crescere la propria vita anche se altri ne prendono altre, o non ne prendono nessuna.
Per K. poi essere cristiano ha un senso e un valore in più che nasce dal ritrovarsi in un gruppo, dall’avere una guida. È importante avere una guida non perché ti traccia tutte le strade, ma prima di tutto perché sai che qualcuno ti ascolta.
Ascoltare, essere ascoltati, forse questa è l’esigenza più importante, più necessaria non solo per i giovani di Merida ma per tanti altri nel mondo.
L’impegno primario di un cristiano non è quello di convertire tutti al Vangelo, ma di far conoscere che c’è un Dio, attraverso i suoi testimoni, che ti ascolta, che ti tende la mano. Essere giovani cristiani significa perciò far comprendere che non si è soli, che c’è una sedia su cui sedersi, un bicchiere d’acqua con cui rinfrescarsi, uno sguardo che accoglie. Il resto è un “problema” di Dio!
Se questi sono i presupposti di un gruppo giovanile di una delle “periferie” del mondo… possiamo stare sicuri che il mondo avrà un futuro, perché nonostante tutto sono i piccoli che ribaltano le sorti della umanità.
Tacquero in quei giorni
2a Domenica di Quaresima
Essi tacquero in quei giorni! Così conclude san Luca questo brano del Vangelo di oggi, 2 domenica di quaresima.
Tacquero perché avevano ascoltato la parola di Dio, una parola che certificava la parola fatta carne: Gesù. Come nel Giordano anche oggi Dio dice ai discepoli: “Questi è il Figlio mio diletto: ascoltatelo!”.
Come Abramo, come Paolo e i Filippesi, come Giovanni, Giacomo e Pietro anche noi vogliamo ascoltare la parola di Dio: Gesù! E con Gesù dire anche noi: Amen! Sì! Sia fatta la tua volontà.
Forse non siamo abituati a ritagliarci qualche giorno di ritiro, o non possiamo, però possiamo ritagliarci qualche spazio e tempo di silenzio durante la giornata: mentre siamo a tavola, viaggiando verso il lavoro, spegnendo l’ipad… o il computer; crearsi tanti piccoli monti Tabor dove lasciarsi incontrare da Dio.
E Dio cosa vorrebbe dirci? Quello che dice ad Abramo, a Paolo, a Pietro, Giacomo e Giovanni: la mia alleanza con voi è per sempre!
“Guarda le stelle del cielo… Alla tua discendenza
io do questa terra” (Gen 15,5-12.17-18); “La nostra cittadinanza infatti è nei cieli” (Fil 3,17- 4,1); “è bello per noi essere qui” (Lc 9,28-36)!
La Quaresima è tempo di conversione, di cambiare vita, non solo dal punto di vista morale –non peccare più o comunque superare i nostri peccati – ma anche dal punto di vista spirituale, della nostra conoscenza di Dio.
Spesso noi ci diciamo cristiani, ma non sappiamo bene che significhi, non sappiamo bene cosa comporti perché fatichiamo a porci all’ascolto della parola di Dio e a lasciarci guidare da essa!
Le tre letture parlano dell’alleanza che Dio vuole vivere con gli uomini e le donne che Lui ama. Quest’alleanza è per sempre e trova in Cristo, nella sua croce, il suo sigillo, la sua sicurezza.
Pietro, Giacomo e Giovanni, ma anche Paolo, conoscevano Mosé e i profeti, le alleanze che proponevano in nome di Jahweh, sapevano che sarebbero state definitive nei tempi futuri, ma ora si ritrovano a fare i conti con Cristo!
Questo uomo che è disceso sulla terra dal cielo si preoccupa ora di condurre non solo i discepoli, ma tutti coloro che crederanno in Lui al cielo, di farli salire al Padre. E quale strumento usa Gesù per capire cosa vuole il Padre suo e Padre nostro? La preghiera.
Non una preghiera di domande o giaculatorie, ma una preghiera di ascolto. La preghiera di Gesù sta tutta qui, e tale è anche la preghiera del cristiano: non c’è molto da dire a un Padre che conosce ciò di cui abbiamo bisogno (cf. Mt 6,8) e ciò che abbiamo nel cuore, non ci sono lunghi discorsi da fare (cf. Mt 6,7), ma c’è solo da rispondere al Signore con l’obbedienza, con il “sì” assunto liberamente e con grande fede amorosa. Tante volte – ci testimoniano i vangeli, in particolare Luca (cf. Lc 5,16; Lc 6,12; Lc 9,18) – Gesù ha cercato la solitudine, la notte, la montagna, per vivere questa preghiera assidua al Padre; anche ora, dopo la confessione di Pietro, che ha segnato un balzo in avanti nella fede dei discepoli e gli ha permesso la rivelazione della sua morte e resurrezione, Gesù entra nella preghiera. Sappiamo bene che la preghiera non muta Dio ma trasforma noi, eppure ce ne dimentichiamo facilmente, perché la forma di preghiera pagana che vuole parlare a Dio, che vuole piegarlo ai nostri desideri, sta nelle nostre fibre di creature fragili e bisognose, pronte a fare di Dio colui che può sempre dirci “sì”. Gesù invece non prega così, perché sa che è lui a dover dire “sì” a Dio, non viceversa.
Fermiamoci anche noi sul monte Tabor della nostra coscienza, invochiamo lo Spirito santo e chiediamogli di conoscere meglio Gesù e di aiutarci a dire con Lui al Padre: Sia fatta la tua volontà! Sì! Amen!