PREGIUDIZI SULLA CHIESA? brevi annotazioni sulla necessità di generare il futuro.

«Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla?».

F. Nietzsche, La gaia scienza, aforisma 125

Nell’atrio di questo millennio, che l’Occidente si appresta a vivere, che cos’è, cosa può essere e soprattutto cosa non potrà più essere deputata a fare, l’istituzione ecclesiastica, “baluardo” del nostro Vecchio Continente?
Non è importante, in questa sede, dibattere sui classici – e seduttivi – argomenti concernenti l’esistenza o l’inesistenza di Dio, il significato dell’esser fedeli, i meriti e i demeriti storici della cristianità e così via. Il punto essenziale, il crocevia, è il seguente: la Chiesa, il Vaticano, come si percepisce nel nostro tempo? Ora che siamo distanti ormai vent’anni dal secolo scorso, in che modo il mondo cattolico e mutato e quanto, ancora, muterà? Gli europei, come i cattolici, per fortuna o purtroppo, non possono ignorare determinati quesiti. Il motivo di ciò? Non esisterebbe l’Europa – la nostra, amata, Europa – se non esistesse il cristianesimo e viceversa. Sulla base di questo dato imprescindibile – il quale potrà essere confermato da chiunque si sia occupato, nel corso della sua esistenza, di discipline storiche, filosofiche e teologiche – non possiamo continuare a fingere di non vedere e non capire.
Al di là di quanto i governi e i cittadini europei ne possano dire, è impossibile non far caso alla forte crisi politica, culturale e antropologica, che tutti noi stiamo vivendo. Questo senso di disincanto, disorientamento e disillusione, ovviamente non può che coinvolgere anche la Chiesa alla quale, però, bisogna riconoscere che è da ormai un decennio che sta tentando disperatamente di restare aggrappata a un mondo che nessuno – veramente nessuno – riesce più a comprendere. Tuttavia, anche il mondo cattolico sta pagando a caro prezzo la vertigine della trasformazione antropologica che l’intero pianeta sta attraversando.
L’Occidente, dopo il 1989, ha dato progressivamente l’impressione di aver smarrito la bussola: crisi delle cosiddette socialdemocrazie, dissoluzione e disincanto nei confronti di qualsivoglia ideologia politica e ridimensionamento brutale del potere ecclesiastico. Tutto ciò, innegabilmente, ha incrementato il senso di smarrimento in tutti coloro i quali sono venuti al mondo a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio. L’opinione pubblica e gli organi d’informazione cercano le cause nella mancanza di occupazione che – a causa delle crisi economiche – avrebbe obliato nelle menti dei giovani l’idea di uno stralcio d’avvenire. Questo, in parte e solo in piccola parte, è vero. Bisogna considerare, però, che ci troviamo dinanzi a un cane che si morde la coda. Bene, la causa dei nostri mali va cercata proprio nell’assenza di luoghi dove cercare ristoro.
Tralasciando la questione politico-antropologica, vorrei concentrarmi sulla figura e sul luogo che può rappresentare la Chiesa. Non importa se Dio esiste o meno, ciò che conta è la domanda che un individuo nell’oggi può porre a Dio. Ogni tipo d’interesse, ogni forma di desiderio, amore e ammirazione, non è nient’altro che la formulazione di un quesito. Il fatto che qualcuno abbia assistito al collasso di un qualche tipo di ideologia politica certifica un fatto: quell’ideologia non era più in grado di rispondere, e forse neppure di accogliere, la domanda dell’interlocutore. Quest’ultimo, allo stesso tempo, ha rinunciato persino a formulare il quesito: “ma tutto ciò, alla fine, che senso ha? Meglio lasciar perdere. Che vada tutto in malora”.
Nei confronti della cristianità, dal mio punto di vista, è andata più o meno allo stesso modo. L’istituzione ecclesiastica, nella percezione comune, non è più in grado di rispondere ai più svariati quesiti. Tutto questo, però, è un dramma.
Una volta che abbiamo obliato il tutto – e, quindi, niente più ideologie, niente più Dio né religione – cosa ci resta? Che cosa siamo? Temo che ci resti il nulla e che, conseguentemente, non possiamo che scoprire d’esser divenuti un grande – seducente e amabile – niente.
La Chiesa accusa i giovani di non avere valori, mentre i giovani, al contrario, accusano il mondo cattolico di essere afflitto da un sistema valoriale anacronistico: un cane che si morde la coda, ripeto! Comunque, questa condizione, fa male indistintamente a tutti. Bisogna tentare necessariamente di distruggere entrambi i pregiudizi: le giovani generazioni devo smetterla d’immaginare la figura del cristiano come una figura fuori dal tempo e dal mondo; i cristiani, i sacerdoti, non devono dare più modo ai giovani di pensarli come obsoleti. Aprirsi al dialogo, alla diversità, alla differenza, aprirsi persino allo scontro. Essere disposti ad accettare le contraddizioni e le incoerenze. Solo attraverso una forma di caos produttivo, oggi, potrà germogliare una nuova idea di mondo, di casa, di futuro. Offrire l’avvenire, un pensiero, un paradiso che sia qui –nei corpi e nelle menti- e non solo in cielo!
La cristianità, del resto, dispone di armi potentissime – quali l’arte e la bellezza – per rigenerarsi. Il compito, oggi, spetta a tutti i seminaristi, a tutti coloro che si apprestano a divenire sacerdoti, ma anche ai cristiani giovani, sono loro il futuro della cristianità e solo formando in modo impeccabile i nuovi apostoli di Dio, Dio stesso riuscirà a non morire. I nuovi cattolici, i futuri signori di Dio, hanno il dovere di pensarsi come i “custodi del divenire”, affinché il nulla – che un tempo fu immaginato dalla Chiesa nelle vesti del Diavolo – possa finalmente cessare di tediare le nostre primavere.

Giuseppe P. – Aversa

Europa 60

Troppo importante l’anniversario di domani 25 marzo per non scriverne.

60 della firma dei Trattati di Roma, trattati che hanno sancito la fine di divisioni e guerre secolari all’interno del “vecchio” continente e un’espansione di non poco conto seppure non manchino, oggi, problemi non irrilevanti.
In questi giorni molto si è scritto riguardo questo anniversario e i limiti e le prospettive della cerimonia di domani.
L’idea originale dei padri fondatori, pace e solidarietà, non ha esaurito il suo corso, forse si è esaurita la capacità di lavorare insieme causa i mille egoismi ai più diversi livelli dell’Europa.
Ognuno, al proprio livello, economico, sociale, nazionale, culturale, politico, locale sta soffrendo di un egoismo, di un sentirsi l’unico ad avere dei diritti che invece di far progredire le intuizioni fondative le ha quasi del tutto bloccate. L’egoismo chiude ogni persona o gruppo in «un cerchio ristretto e soffocante e che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e “guardare oltre”».
L’egoismo non permette di considerare il bisogno di continuare a sviluppare la centralità dell’uomo, della persona messa alla base dei Trattati, la solidarietà e la pace, conseguenze logiche di questa centralità.
L’Europa come Unione ha un senso di essere se pensiamo alla sua storia romana, cristiana e carolingia; ma ha un senso di essere se consideriamo lo svilupparsi di popoli ed economie emergenti nel mondo sempre più ricche e forti che avranno buon gioco di fronte a un’Europa di tante piccole nazioni.
L’Europa come progetto di Unione non ha finito il suo corso se le persone politiche prima di tutto e comuni non cessano di far riferimento ai fondamenti per costruire il futuro. Certo qui l’azione politica diventa necessaria e imprescindibile, ma deve essere un’azione politica capace di guardare oltre, oltre i vari mal di pancia locali, non per ignorarli ma per affrontarli nel più ampio contesto del corpo intero.
Non so ancora se domani tutti i 27 paesi firmeranno il rinnovato trattato di Roma, forse la Polonia si defilerà se non otterrà quanto richiesto. A un compromesso si dovrà arrivare, mi auguro che non sia un compromesso verso il basso ma anche se lo fosse dipenderà poi dalle diverse parti farlo diventare un trampolino di lancio per un rilancio di questa nostra Unione.
Un dato è certo da sviluppare qualunque sarà l’esito della cerimonia di domani.
Se nella storia europea libertà e uguaglianza sono stati già sviluppati, con esiti purtroppo anche drammatici dopo le rivoluzioni francese e sovietica, manca ancora da sviluppare la fraternità che poi è un altro modo di dire quella solidarietà da cui sono partiti i trattati del 1957 che domani vogliamo non solo ricordare ma anche rinnovare.
GMS

La crisi dell’Europa e san Benedetto

Crisi è la parola che più ricorre pensando all’Europa oggi.

Crisi significa anche opportunità, opportunità di guardare oltre le macerie e le fatiche.

Oggi 11 luglio 2016 la Chiesa celebra San Benedetto da Norcia, patriarca del monachesimo occidentale ma anche Patrono principale dell’Europa.

Ricordare san Benedetto significa accendergli una candela perché il suo percorso religioso possa continuare a illuminare la nostra storia. La vera devozione infatti è quella di saper discernere quegli insegnamenti dettati da un’epoca perché la trascendano e possano guidare l’oggi.

Benedetto ha vissuto il travaglio della caduta dell’impero romano, della sua politica, della sua cultura e, con il suo ora et labora ha aiutato quell’epoca a traghettare verso il domani in molti dei suoi ambiti: politico, culturale, religioso, sociale.

Con Spirito illuminato papa Paolo VI scelse quest’uomo come patrono principale del nostro continente quando i traumi delle grandi guerre del secolo scorso cominciavano ad allontanarsi, ma non ancora a spegnersi come dimostrerà la storia successiva.

I momenti di crisi, causata dal corso della Storia ovvero dalla miopia egoistica dei popoli, come nella situazione attuale, accadono e distruggono. In queste crisi può accadere anche la possibilità di affrontare con sapienza e speranza il futuro.

Benedetto ci indica la possibilità di ridare un’anima e un valore alle cose che viene loro dall’azione dello s(S)pirito che aleggia continuamente sull’universo desideroso sempre di piste sulle quali “atterrare”!

Una di queste piste è sicuramente quella di ritornare ai Padri dell’Europa e al loro progetto non solo ideale o meramente economico di Unione Europea.

C’è bisogno di recuperare una paternità se vogliamo capire la strada da percorre per affrontare le molte inadempienze dei politici, le preoccupazioni spesso egoistiche di molti cittadini, le sfide della globalizzazione i sogni e la vita delle nuove generazioni.

Alla base dell’attuale Unione Europea prima ancora di questioni economiche nella mens dei Padri Fondatori, K. Adenauer, R. Schumann e A. De Gasperi c’è stata una idea di persona e di persone chiamate a vivere insieme. Una vita comune animata dalle anime greco-latina, giudeo-cristiana e germanica. Un incontro di popoli con identità diverse quindi con necessari cammini diversificati nei tempi, nelle possibilità di nuove tappe, ma anche di passi indietro. Di queste persone che hanno combattuto per un’Europa di popoli bisogna essere fieri ancora oggi. Come affermava il cardinale di Westminster, deciso sostenitore del “remain”: «We need to grasp again our basic sense of purpose» (Dobbiamo di nuovo cogliere il senso di fondo del nostro scopo).

Accendendo una candela a san Benedetto dobbiamo imparare – come scrive nella sua regola – a cingere i nostri fianchi con la fede e le buone opere per poter un domani abitare nei padiglioni del suo regno.

Ma la prima opera è proprio quella di studiare il passato, capire il presente e costruire il futuro se vogliamo cogliere l’opportunità di questa crisi.

 

Giannicola M. Simone

Le parole del silenzio di Dio

Venerdì santo 2016

C’è un fattore comune e necessario in questo tempo dalle 3 del pomeriggio alle prime luci del giorno dopo il sabato: il silenzio.
“Gesù chinato il capo emise lo spirito” e si fece silenzio su tutta la terra.
Forse non ragioniamo abbastanza su questo silenzio, sul silenzio che la Croce porta con sé, sul silenzio del Sabato santo.
Non ragioniamo e preghiamo abbastanza su questo silenzio anche perché troppo è il rumore che ci circonda, un rumore continuo che vuole zittire la voce del silenzio di Dio, perché ha paura di questo silenzio.
Il silenzio di Dio è importante perché dice quello che le parole non sanno spiegare, nemmeno – in un certo senso – la parola di Dio, forse perché parola comunque scritta da uomini; infatti, anche la parola di Dio tace e non dice nulla del silenzio della morte del Figlio di Dio.
Le parole non sanno spiegare perché questo Dio di Gesù Cristo invece di urlare la rabbia per la morte del Figlio, tace!
A noi invece piace parlare, parlare, parlare quando non serve tacere quando dovremmo parlare.
Ma il silenzio di Dio non è un silenzio sterile, è un silenzio fertile, perché esce dalla bocca di Dio: “chinato il capo consegnò lo spirito”.
Come quando Dio dal silenzio del cosmo spirò nelle narici di Adamo ed Eva dando vita all’umanità; come quando dal silenzio della Croce spirò per ridare vita all’umanità schiacciata dal peccato.
Il silenzio di Dio non è un silenzio sterile, ma un silenzio che dona lo Spirito.
Uno Spirito di vita che entra nelle profondità degli inferi (il Sabato santo) per recuperare alla vita i corpi mortali;
uno spirito di vita che entra nei nostri corpi mortali feriti dal peccato per recuperarli alla vita;
uno spirito di vita che entra nel segreto del sepolcro per risorgere il Figlio di Dio.

In questi drammatici giorni non solo per l’Europa ma per il mondo intero abbiamo bisogno più che di parole di silenzio, un silenzio di preghiera che possa dare luce a chi è morto e vive nella gloria di Dio; un silenzio che possa dare consolazione e speranza ai familiari; un silenzio che possa dare rinnovata coscienza a chi pensa di operare il male in nome di Dio; un silenzio che possa dare a questa Europa individualista e nazionalistica la voglia di abbattere i muri riprendere a camminare e costruire insieme.