Oltre il solito irenismo: spezzare la spirale di violenza
A uscire stravolto dall’escalation della crisi russo-ucraina non è soltanto il sistema delle relazioni internazionali plasmato dalla fine della “guerra fredda”, ma anche l’edificio teorico che si è strutturato nel tempo attraverso il dibattito tra gli studiosi delle istituzioni militari e dei sistemi di sicurezza. I riflettori pubblici e mediatici hanno così dato risalto a un dialogo culturale su pace, guerra giusta e disarmo che ha antiche radici.
A chi si occupa di istituzioni militari e di ambiti disciplinari ad esso collegati non deve suonare strana l’affermazione secondo cui è inverosimile che il paradigma bellico prevalente fino alla metà del secolo scorso possa tornare a dominare le controversie tra Stati nel XXI secolo. Le new wars del nuovo millennio, secondo la definizione di Mary Kaldor, non sono assolute, totali e di massa come quelle devastanti che si sono consumate dall’età napoleonica alla Seconda guerra mondiale. Terrorismo, guerre asimmetriche, armi di distruzione di massa, operazioni di peace-making e peace-keeping e cyberguerre sono concetti entrati prepotentemente nel dibattito accademico e pubblico.
Si è cercato finanche di scacciare via dalla psicologia collettiva lo spettro della guerra, trasformando i Ministeri della Guerra in Ministeri della Difesa e sancendo il ripudio della guerra nelle Costituzioni: se c’è una lezione del secondo dopoguerra che merita oggi di essere richiamata alla memoria, è quella del “disarmo del discorso pubblico”. Non è stato certo sufficiente perché i conflitti armati abbandonassero la scena mondiale, tanto che oggi è in corso una “guerra mondiale a pezzi”, come bene ha suggerito il Santo Padre Francesco. Ora, con la crisi russo-ucraina, si sono riaccesi i toni di un dibattito sul mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che, fino a vent’anni fa, sarebbe rimasto confinato entro ambienti specialistici: il difetto di origine del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il rischio nucleare e la militarizzazione del conflitto sono alcuni dei temi di discussione.
Su questi argomenti converrà sviluppare alcune considerazioni. È sorta una discussione appassionata, ma spesso avvelenata dalle dinamiche da tifoseria dei social, sull’interpretazione del dettato costituzionale dinanzi a una guerra di difesa combattuta contro una grande potenza da uno Stato che si trova alla frontiera dell’Alleanza atlantica e dell’Unione Europea. Nel contesto di impotenza delle Nazioni Unite, è prevalso il “diritto naturale di autotutela individuale” (art. 51 Statuto ONU) e gli Stati membri delle due organizzazioni atlantica ed europea hanno optato per il sostegno militare incondizionato all’Ucraina.
Di qui la dialettica politica e culturale sull’art. 11 della Costituzione italiana che, secondo giuristi come Michele Ainis, sarebbe stato infangato dalla decisione di inviare armamenti agli ucraini (tra cui, in base alle indiscrezioni, sistemi anticarro Spike e antiaereo Stinger, mitragliatrici leggere di tipo MG e pesanti Browning e mortai); secondo altri, non verrebbe violato poiché le armi inviate verranno utilizzate in funzione difensiva. Viene anche da chiedersi: di quale avviso sarebbero due padri costituenti che concepirono i primi fondamentali articoli della Costituzione come Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira? In un’intervista rilasciata al “Corriere” nel 1991, Dossetti ha offerto un’interpretazione teleologica molto stringente dell’art. 11, sostenendo che gli sia stato fatto dire “ciò che non corrisponde né alla sua lettera né al suo spirito”. La Pira, invece, ha sempre insistito, persino nella fase della “distensione” degli anni ’70, sul pericolo “apocalittico” dell’atomica, ancora oggi non del tutto scongiurato (soltanto l’anno scorso è entrato in vigore il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari).
È a questo punto che si possono trarre alcune riflessioni sul problema della militarizzazione delle controversie tra Stati. Innanzitutto, una volta che le armi sono state fornite allo Stato aggredito, non esiste certezza alcuna che vengano utilizzate per gli scopi prefissati dagli Stati fornitori, dato che di armamenti dati per scopi difensivi potrebbero appropriarsi gli invasori, bande armate irregolari, truppe di mercenari o persino la criminalità organizzata. Come dimostrato dalle vicende irachene e afghane, fornire armamenti a paesi caratterizzati da un quadro politico-istituzionale instabile equivale a preparare il terreno per futuri e più sanguinosi conflitti. In secondo luogo, armi chiamano armi e lo strumento analitico della teoria dei giochi fa chiarezza sul “dilemma del prigioniero” che consegue dalla militarizzazione sine die di un conflitto. Se uno Stato parte nella controversia decide di dotarsi di unità militari e armi di crescente potenziale distruttivo, l’altro Stato lo imiterà nella corsa alle armi, portando a un circolo vizioso e, con lo scoppio della guerra, a una spirale di violenza senza fine.
In sostanza, se non si pongono per lo meno limiti certi all’invio delle armi, c’è da aspettarsi non solo un allargamento, ma anche un’intensificazione delle condotte belliche. Potrebbe tuonare ancora oggi La Pira: “Tutti i problemi, politici, culturali, spirituali, sono tutti legati a questa frontiera dell’Apocalisse. O finisce tutto, o comincia tutto. O eliminare l’atomica o saremo tutti quanti eliminati globalmente, in un contesto atomico.” È principalmente per questa ragione che, mentre la guerra infuria, bisogna restituire dignità alla via del dialogo e della diplomazia per coltivare la “speranza contro ogni speranza”.
Francesco Laureti – Milano