Ritratto della giovane in fiamme

Non ho intenzione di girarci troppo attorno: Ritratto della giovane in fiamme è un film che ho aspettato per molto, tanto tempo. Da quando ha vinto la Migliore sceneggiatura e il Queer Palm a Cannes nel maggio del 2019, la macchina dell’hype è entrata a pieno regime e tutto quello che ho potuto fare è stato aspettare pazientemente che questo gioiello raggiungesse i grandi schermi danesi. Fastforward a febbraio 2020 e molti premi e nomination più tardi, è stato finalmente il mio turno di vedere di cosa si trattasse.

Ambientato ai confini di una remota Bretagna alla fine del XVIII secolo, la storia si concentra su Marianne (Noémie Merlant), una pittrice incaricata di produrre segretamente un ritratto per un soggetto che non lo vuole, una giovane donna di nome Héloïse (Adèle Haenel). Con il ritratto destinato a un fidanzato indesiderato, Héloïse ha rifiutato i lavori dei pittori precedenti e Marianne ha il compito di crearne uno che possa andare bene questa volta. Impostata questa premessa nei primi 15 minuti, la narrazione esplode in una vetrina colma di tensione, di sguardi nascosti e rubati, di un’alchimia tra due donne che raggiunge un livello quasi insopportabile – in un’accezione estremamente positiva – prima che l’inevitabile esploda per alterare per sempre le loro vite.

Non riesco a ricordare l’ultima volta che sono stato così fortemente preso da un film. Una pellicola con appena cinque personaggi parlanti e estremamente minimalista nel suo approccio, si afferma assolutamente irresistibile. Dalle piccole dimostrazioni di amicizia e compagnia femminile ai dialoghi su interessanti questioni femministe rilevanti oggi come lo erano nel 1700, Ritratto ci va giù così pesante in maniera così garbata e tranquilla da lasciarmi parecchio sbalordito dal suo impatto. Un dramma queer reduce da Cannes di enorme successo e consensi, l’ultimo lavoro di Celine Sciamma si trasla sul grande schermo come un racconto parsimonioso e intenso, senza intaccare la sensualità e l’erotismo dell’immagine stessa. Sembra infinitamente più intimo e reale di ogni previo dramma lesbo, forse per le differenze che rimarca tra la sensibilità cinematografica e lo sguardo di un uomo etero (Abdellatif Kechiche) dietro la macchina da presa a fronte della regista omosessuale.

Proprio come un altro straordinario film in lingua straniera dell’anno scorso, Parasite, Ritratto sembra un’immagine che rivelerà qualcosa di nuovo di zecca a ogni singolo rewatch. Tutto ciò che riguarda la composizione e l’esecuzione di ogni fotogramma sembra stratificato, deliberato da menti esperte, e la passione trasuda da ogni fotogramma.
Da vedere!

Fabio Greg Cambielli, Copenaghen