VEGLIANDO PAPA FRANCESCO

Con gioia somma pubblichiamo questa riflessione di un nostro volontario chiamato a vegliare il corpo del papa nei giorni appena trascorsi.

Ci sono gesti che superano il tempo, tradizioni che non si spiegano, si vivono. Una di queste è la veglia dei giovani di Azione Cattolica accanto al corpo del Santo Padre. Un gesto antico, nato nel 1878 con le esequie di Pio IX, e che ha attraversato le generazioni fino a giungere a noi, oggi, dinanzi alle spoglie di Papa Francesco.

Ho avuto l’onore, e soprattutto la grazia, di essere oggi tra questi giovani. Non è facile descrivere ciò che ho provato in quel momento. Si entra nella Basilica di San Pietro col cuore pesante e colmo allo stesso tempo. Pesante per la perdita di una guida che ha saputo parlare al mondo con la dolcezza del Vangelo; colmo per la consapevolezza di essere parte di qualcosa di più grande, di un popolo che si raccoglie per dire grazie, per pregare, per sperare.

In quel turbinio interiore, mentre lo sguardo correva al volto del Papa, sono riaffiorate dentro di me tante sue immagini e parole ascoltate negli anni. Ma c’è un discorso che ha bussato con forza e si è fatto strada nel mio cuore: quel discorso che Papa Francesco ci aveva rivolto un anno fa, il 25 aprile 2024, proprio a noi di AC, in occasione dell’incontro  del Santo Padre con l’Azione Cattolica Italiana: A braccia aperte, quando ci parlò di tre abbracci: “l’abbraccio che manca, l’abbraccio che salva, l’abbraccio che cambia la vita”.

Mi è tornato in mente proprio perché, osservando la folla che lentamente sfilava davanti a lui, ho avuto l’impressione fortissima che tutti, ognuno a suo modo, fossero lì come per abbracciarlo. Con gli occhi, con le mani giunte, con il silenzio e la preghiera. Un abbraccio collettivo, silenzioso, immenso. Come se tutti sentissero il bisogno di ricambiare, una volta ancora, ciò che avevano ricevuto da lui.

L’abbraccio che manca. In quelle ore, tra le volte di San Pietro e lo sguardo commosso dei fedeli, ho percepito una sete profonda: quella di un’umanità che ha bisogno di essere accolta, non respinta. Papa Francesco ha dato voce a chi abbracci non ne riceve: i migranti lasciati ai confini del mondo, i poveri dimenticati nelle periferie, i detenuti confinati nel silenzio, le vittime delle guerre dimenticate dai telegiornali. La sua voce è stata per molti il primo abbraccio dopo l’indifferenza. E ora, mentre il suo corpo giace in silenzio, è come se tutti venissero a restituirglielo: un popolo intero che si stringe, che lo ringrazia, che lo abbraccia.

L’abbraccio che salva. Vegliando, ho pensato a tutte le volte in cui Papa Francesco ci ha fatto riscoprire il Vangelo come luogo di tenerezza, non di paura. Ci ha parlato, soprattutto a noi giovani, spingendoci a credere non per difenderci dal mondo, ma per trasformarlo. Ci ha insegnato che “Dio ci ama così come siamo”. E che la Chiesa è soprattutto questo: un luogo dove essere amati, dove poter tornare anche dopo essersi smarriti.  Una casa fatta di volti, di storie, di lacrime e speranza. E in quell’abbraccio mi sono riscoperto figlio: parte di una comunità che non pretende la perfezione, ma accoglie con misericordia. Una casa che ha il sapore di un’appartenenza vera, che dà senso e respiro alla vita.

E infine, l’abbraccio che cambia la vita. Sì, perché Papa Francesco, con il suo modo di essere Papa, ha cambiato la mia vita. Mi ha mostrato che la fede non è un rifugio dove chiudersi, ma uno slancio verso gli altri. Che essere laico nella Chiesa non è stare ai margini, ma essere corresponsabile e protagonista. Che noi giovani non dobbiamo aspettare il nostro turno, ma prenderci la parola adesso, con coraggio. Se oggi credo in una Chiesa che cammina insieme, che ascolta e si lascia interrogare, che accoglie le domande più che temerle, è anche perché lui ci ha creduto. È perché ci ha invitati ad essere “atleti e portabandiera di sinodalità”, a costruire una comunità che non esclude, ma accompagna.

E così, caro Papa Francesco, ho avuto la grazia di vegliare su di te… ma so che in fondo, eri tu che continuavi a vegliare su di me, su di noi. Nei volti commossi dei giovani che hanno condivisio con me questa esperienza, nelle mani giunte, negli occhi lucidi, c’era un popolo che ti diceva grazie. Per lo sguardo che ci hai insegnato ad avere. Per la Chiesa che ci hai aiutato a sognare.

E allora sì, voglio continuare ad abbracciare. Abbracciare la Chiesa, con la sua bellezza e le sue ferite. Abbracciare il mondo, nei suoi dolori e nei suoi sogni. Abbracciare le domande, le attese, le fatiche. E abbracciare, ogni giorno, la possibilità di essere segno vivo di quella speranza che tu ci hai insegnato a portare.

Grazie Papa Francesco. Ora lasciati abbracciare da Colui che ti ha preceduto nell’amore.

A Dio, Papa Francesco.

Riccardo Savarè – Lodi

MORIRE O VIVERE DI PASQUA

Ma tra Tutto e Niente non può esistere grigio. Non c’è compromesso.
Io. Ogni cosa. Si è figli del Tutto, o figli del Niente.
Da una parte, Dio. Dall’altra, il Caos. (Daniele Mencarelli, Sempre tornare)
La vita finisce con la nostra morte o continua in qualche modo?
Abbiamo celebrato la Pasqua da qualche giorno, l’evento che ci immette nell’eternità, nell’immortalità.
Si può credere nell’eternità, in una vita rinnovata, rigenerata, risorta: viva nonostante la morte biologica?
Vivere da risorti, vivere dopo la morte, un argomento che può interessare ma non fa parte del pensare quotidiano.
Ne ho parlato con alcuni studenti del 4 anno. La discussione è stata interessante, anche se difficile, ma ogni tanto se qualche cosa è difficile forse significa che vale. Non può essere che tutto sia sempre molto accessibile e senza ricerca. La vita in sé è difficile, non impossibile, ma difficile da comprendere nella sua totalità: non può essere altrettanto anche per la vita risorta?
La confusione tra risurrezione e reincarnazione è molto presente, far comprendere la differenza abissale non è facile. Il principale dato da evidenziare a questo proposito è che la risurrezione, la vita risorta riguarda tutto il nostro corpo; la reincarnazione riguarda una parte di noi, l’anima che andrebbe vagando alla ricerca di un altro corpo dove dimorare. La risurrezione riguarda l’originale unicità della storia di ognuno; la reincarnazione perde la propria originalità e unicità, l’essenza di sé si perde in altro.
Il bisogno di immortalità è proprio della persona, da sempre l’uomo e la donna vogliono lasciare un segno di sé proprio perché sanno di dover morire.
Andri Snær Magnason ne Il tempo e l’acqua racconta che ognuno di noi porta con sé la memoria consapevole di almeno 8 generazioni prima e dopo, un modo per raccontare il bisogno di immortalità!
Nella fede cristiana l’uomo non è immortale, però la morte non è l’ultima parola: l’uomo è fatto per l’eternità, perché Dio è eterno, perché Cristo ha portato su di sé la morte per rendere l’uomo e la donna eterni. Gesù è l’epilogo della preoccupazione di Dio del prendersi cura dell’uomo. Dio si cura dell’uomo. Dio è immortale, al di là della condizione di debolezza e di fragilità dell’uomo; Dio è capace di chinarsi sull’uomo e di prendersene la responsabilità, di dargli gloria e un compito, di entrare in relazione dialogica con lui. È la sicurezza di questo dialogo che dona vita e apre alla vita per sempre.
Questa parola di vita diventa vita e dona vita attraverso il Battesimo. Proprio nel rito di immersione nell’acqua del Battesimo il credente muore e rinasce. Nel battesimo l’uomo della vita solo naturale muore, si lascia la morte alle spalle, e rinasce con la vita di Cristo, la vita eterna, non nel senso che non morirà (anche Cristo è morto), ma che, come è accaduto al Figlio di Dio, la morte non avrà mai l’ultima parola.
La maggior parte dei giovani di oggi non ha paura della vita, però vive una vita di paura, una vita che non vuole pensare alla morte eppure con la morte diretta o indiretta ci gioca. Probabilmente anche perché non ha più presente il sapore della vita risorta. Forse perché i cristiani per primi faticano a riconoscere e raccontare la Pasqua come l’evento fondamentale e portatore di vita. Se è così l’umanità, i più giovani come possono affrontare la morte?
Il battesimo è il modo di Dio di prendersi cura dell’uomo e della donna facendoli partecipare alla vita di Dio: tutti gli eventi di morte sono per lui episodi «di passaggio», cioè di parto, di rinascita.
Il battesimo inaugura questa possibilità di rinascere sempre, ma è compito del credente renderla sempre più cosciente e attiva, realizzandola nella sua storia in modo unico e originale. Per se stesso e per gli uomini e le donne amate dal Signore che vivono tra le nostre strade.

Hallosaints

Sai perché oggi è festa, domani quasi?
Perché ricordiamo i santi e commemoriamo i defunti.

Forse oggi hai dormito un po’ d più, magari visiterai un cimitero, senza porti qualche domanda, ma l’indifferenza, paga!
Tu non sei chiamato all’indifferenza ma alla santità, non sei chiamato alla morte ma alla Vita.
Questa festa nasce dal comando di Dio: siate santi perché Io sono santo;
dall’esperienza d Gesù: io sono la risurrezione e la Vita.
Si festeggiano i santi per crescere nella speranza e nella gioia;
si commemorano i defunti per vivere la vita di qui e di là!

Quest’oggi non mettere una maschera: cresci la gioia e la vita!
pJgiannic

Spazi di vita o di morte?

L’uomo e la donna hanno bisogno di spazio per vivere; in uno spazio vero e proprio sono stati posti nella notte dei tempi; ma in quella notte gli è stato donato anche uno spazio particolare e originale: la coscienza.
Lo spazio non è solo un concetto fisico o geometrico, è prima di tutto lo spazio del proprio corpo con le sue ombre e le sue luci, con le sue scelte e non scelte.
Nel volgersi di questa estate 2017 come non evidenziare tanti spazi di opportunità ovvero di tragedie.
Tanti sono i giovani che hanno investito in spazio e tempo cattivi.
Forse ricorderemo quegli adolescenti o poco più che hanno seminato morte senza senso a Barcellona. Ma perché dimenticare quanti sono morti senza senso a causa di droghe o violenze gratuite?
Giovani che uccidono e giovani che sono uccisi nello spazio di poco tempo. Lo spazio della morte sembra l’unico spazio che si voglia veramente rivelare, mettere in luce. In un modo o nell’altro. Forse era già così anche ai tempi dei Montecchi e Capuleti?
È ardito pensare che comunque siamo sempre di fronte a forme di terrorismo che vuole guadagnare spazio a ogni costo.
Noi adulti vogliamo trovare lo spazio per ragionare su questi fallimenti educativi?
I giovani di Barcellona e non solo sono “s”cresciuti nelle periferie delle nostre città, con o senza ius soli! Ma anche tanti nostri giovani sono “s”cresciuti nelle periferie educative delle nostre modernità con ius soli e … ius sanguinis!
Quando dovevamo affrontare gli spazi delle banlieu dove eravamo?
E quando dovevamo affrontare gli spazi delle discoteche e delle droghe di vario genere?
I nostri giovani cercano spazi per vivere ma se non diamo loro spazio se lo cercano in altri modi.
Forse però possiamo dare loro lo spazio di piazza Indipendenza a Roma, magari una buona doccia finale potrebbe risolvere tanti problemi in modo più efficace di tante sfide educative.

Non so se i miei tempi giovanili fossero migliori, però so che possiamo avere tempi migliori se impariamo a dare più spazio alla creatività e alla voglia di essere di tanti giovani.
Basterebbe cambiare un poco il nostro sistema di vita, basterebbe chiedere un po’ di più purché sappiamo dare un po’ di più di vita
Se sono riuscito io a trovare spazi per tanti giovani con cui lavorare, sudare, pensare, pregare, giocare, investire del buon tempo in Italia, in Albania, in Brasile perché non potremmo riuscirci di più insieme?
Insieme, insieme, dobbiamo recuperare spazio per investire di più del tempo buono per i nostri giovani, se vogliamo che la morte non trovi più spazio nelle ramblas, nelle disco, nelle piazze. È una questione di coscienza!

Giannicola M. prete