NON POSSIAMO CHIAMARCI FUORI
di Marco Erba, insegnante
È vero che non si potrebbe postare articoli di altro giornale, però facciamo una eccezione considerato il tema trattato
La notizia dell’arresto dei cinque giovani che lo scorso 12 ottobre hanno aggredito e massacrato di botte un 22enne a Milano, mi ha sconvolto profondamente, mi ha tolto il respiro: gravissimo l’atto, impensabile ci che è avvenuto dopo: la proposta di postare il video, la fierezza per la propria azione, la totale mancanza di pentimento. Ascoltavo e l’angoscia prevaleva persino sulla rabbia.
Come possono quei giovani mostrarsi così vuoti, spietati, superficiali? Questo mi ha devastato: il vuoto assoluto di sensibilità, l’assenza totale di responsabilità, il deserto di umanità.
Subito, urgente, è sorta una domanda.
Perché? Non ho risposte. Sono certo che nessuna persona nasca marcia, cattiva. Non condivido come molti li hanno definiti: branco, bestie, mostri. No: sono persone proprio come me e come chi legge. Con questo dobbiamo fare i conti. Definirli bestie e mostri non serve: li relega in un’altra dimensione, come fossero degli alieni cattivi capitati per sventura sulla strada di un poveraccio. Alieni infestanti, che bisogna chiudere in una gabbia o eliminare (moltissimi commenti social invocano la pena di morte). Ma è un’illusione: quei ragazzi non vengono da un altrove buio: possono essere i nostri figli o i loro amici.
Con questo dobbiamo fare i conti.
Forse, più che definirli mostri, dobbiamo chiederci cosa possiamo fare come genitori, come insegnanti, come educatori. Io me lo chiedo tutti i giorni, davanti alla massa di sofferenza che emerge dai temi e dalle confidenze di molti, troppi miei allievi. Cosa posso fare per combattere questo disagio che sia annida sempre più spesso tra i giovani e i giovanissimi? Come posso impedire che questo male porti a fare del male?
Anche qui, non ho risposte definitive. Forse perché ci sono alcuni nostri atteggiamenti sui quali, alla luce di questi fatti tremendi, possiamo riflettere, metterci in gioco. Provo a indicarne due, senza alcuna pretesa di esaustività. Per prima cosa, possiamo passare dalla logica della competizione alla logica del dono. Se competere in certi casi può essere uno stimolo positivo, il mito della competizione che ha invaso ogni ambito della vita, a volte anche la scuola, è devastante. Se l’obiettivo della mia vita è arrivare a ogni costo, se tutti mi hanno sempre detto che devo primeggiare, rischio di vedere le altre persone non come potenziali compagni di viaggio, ma come avversari da battere. E se non riesco a primeggiare, finisco per sentirmi un fallito. Se sbaglio, se mi perdo, penso di non valere niente: e allora mi chiudo in casa, faccio del male a me stesso (sono in aumento vertiginoso gli hikikomori, i disturbi alimentari e l’autolesionismo tra gli adolescenti); o, peggio, faccio del male agli altri (sono in aumento i reati compiuti da minorenni). Se mi sento escluso dalla gara dei migliori, il rischio è che io imponga la mia presenza distruggendo, colpendo gli altri, urlando che esisto, rovinando le esistenze altrui. Se mi sento non visto e perdente, c’è il rischio che io sfoghi la mia frustrazione schiacciando gli altri con la violenza, per sentirmi capace di prevalere almeno così. Se non mi sento stimato dagli altri, il rischio è che mi accontenti di essere temuto. Ben diversa è la logica del dono, antidoto alla competizione esasperata. La logica del dono spinge a vedere gli altri come alleati, a considerarsi vincenti quando si dà il proprio contributo al mondo intorno a sé. La logica del dono permette di scoprire che la felicità non passa dall’essere soli al comando, ma dalla relazione: sono felice se gli altri non mi sono indifferenti, se ogni giorno condivido il mio talento e le mie doti con loro. Non è un’utopia: si pu essere presidenti di una multinazionale, promotori di una startup, medici, infermieri, operatori ecologici, elettricisti, muratori, politici, banchieri proprio con questa logica: il bene donato, il valore generato, l’aiuto offerto dal proprio lavoro quotidiano alle altre persone.
In secondo luogo, possiamo passare sempre di più dagli schermi alla realtà. Si parla frequentemente di diritto alla disconnessione, moltissimi studiosi concordano sui danni irreversibili che un’eccessiva presenza degli schermi provocano nella vita dei bambini e dei ragazzi. Se cresco abituato a vedere un video dopo l’altro; se la realtà, nelle sue mille forme, mi passa davanti troppo spesso appiattita su uno schermo, le cose rischiano di perdere valore e profondità. Non viene allenato il senso critico, non si sviluppa la capacità di percepire il reale in tutte le sue dimensioni. L’empatia non cresce: gli altri esseri umani diventano attori, la rissa ripresa e postata diventa un piccolo film adrenalinico, la violenza reale diventa intrattenimento.
Dobbiamo spegnere gli schermi più spesso, fare in modo che i nostri figli, fin da piccoli, dedichino più tempo al contatto con la natura, alle attività di gruppo,
ai giochi di società, alla creatività, agli stimoli intellettuali e culturali, a vedere cose belle, a visitare mostre, ad esperienze arricchenti. Di proposte alternative agli schermi ce ne sono a bizzeffe, pensate
per ogni età. Noi adulti, oltre a inorridire per i tremendi fatti di cronaca, dobbiamo fare l’atto eroico di disconnetterci, di dedicare tempo ai bambini e ai ragazzi, di sfidarli su proposte che attivino la loro testa e il loro cuore, che accendano la curiosità, che li portino a scoprire sé stessi e magari anche a tollerare la frustrazione. Forse in questo modo daremo loro una chance per non essere solisti frustrati ma atleti della vita, capaci di giocare in squadra. Capaci di empatia e compassione, doti senza le quali ogni futuro è impensabile.
Violenza
Gestire la violenza
Passando per Pisa qualche giorno fa non potevo non ripensare a quanto accaduto un paio di mesi fa a degli studenti come me.
Le notizie legate alle violente cariche della polizia contro gli studenti a Pisa accadute il 23 febbraio scorso, sembrano essere state definitivamente archiviate dalle redazioni di quotidiani o Tg. Tutto nella norma, verrebbe da pensare, in un’epoca in cui l’informazione sembra essere legata a un’ostinata ricerca del maggior numero di click e le notizie che suscitano un duraturo interesse nell’opinione pubblica si contano sulle dita di una mano. Se questa cosa sia effettivamente normale o giusta non sta a me dirlo, né vuole essere l’oggetto di queste poche righe.
Come studente però, credo che sia doveroso, oltre che necessario, tornare a riflettere su quanto accaduto, affinché lo stupore e l’indignazione suscitati nelle prime ore dalla notizia diventino un monito che ci ricordi come, in un mondo in cui i principi democratici risultano minacciati, fatti come questo, che minano le fondamenta del nostro Paese, non possono essere minimizzati, giustificati o, ancora peggio, dimenticati.
Condannare l’azione della polizia non significa condividere i motivi per cui era stata organizzata la manifestazione, che, come ognuno di noi ricorderà, era stata indetta per esprimere solidarietà e vicinanza al popolo palestinese. Condannare l’azione della polizia, che non ha fatto nulla per prevenire le violenze, non ha seguito i passaggi graduali previsti in materia di tutela della sicurezza e ha reagito in modo sproporzionato rispetto alla manifestazione pacifica causando 18 feriti, significa far presente a gran voce che la nostra libertà è un principio inviolabile, non negoziabile su cui nessuno di noi sarà mai disposto a scendere a compromessi. E invito chi dà questa cosa per scontata a riguardare le immagini di queste violenze, o a rileggere le recenti notizie di persone che sono state identificate dalla Digos: chi per aver deposto fiori in memoria di Alexei Navalny, sotto la targa in ricordo di Anna Politkovskaya o chi per aver gridato “Viva l’Italia antifascista” durante la Prima della Scala. Tutti questi fatti non possono essere ritenuti casi isolati o normali “falle nel sistema”. Si tratta di veri e propri “schiaffi” a chi ha combattuto e dato la propria vita per la nostra libertà e per tutti quei principi che sono i cardini della nostra Costituzione e che, proprio per questo motivo, non possono essere sottovalutati o normalizzati.
“L’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento”: con questa nota ufficiale il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, come sempre provvidenziale, ha voluto condannare la violenza della polizia.
Dopo questo comunicato qualcuno di noi si aspettava delle scuse o quantomeno un’autocritica da parte di altre cariche dello Stato che purtroppo, forse non inaspettatamente, non sono arrivate.
Di fronte a questo vero e proprio fallimento non ci resta dunque che fare nostre le parole del Presidente Mattarella e imprimerle nella nostra mente. Solo così questa violenza non sarà mai “archiviata” e saremo sempre consapevoli che per difendere libertà e democrazia non dovremo mai tollerare o minimizzare fatti di questo tipo.
Riccardo S. – Lodi
Violenza di gruppo.
La violenza è il modo in cui molti uomini e molte meno donne cercano di dire quello che non sanno dire di se stessi o della vita.
La violenza in tutti i suoi livelli, non solo quelli materiali, è l’incapacità di sapere affermare se stessi di fronte agli altri. È l’incapacità di saper gestire la propria libertà perché incapace di incontrare la libertà altrui. È cosi già dai tempi di Caino e Abele.
La violenza contro il più debole, perché donna?, perché diverso da …, perché più fortunato di me o perché incontrare l’altro comunque inconsciamente spaventa? E non importa se più grande o piccolo di me.
Confesso che una sera, camminando in centro a Milano, con alcuni adolescenti l’incrociarsi con altri adolescenti visibilmente di origine non milanese provenienti dalle periferie mi ha fatto pensare, preoccupare un poco e allertare le “antenne”.
Forse solo perché caciarosi, perché in gruppo, perché “stranieri” pur parlanti italiano?
Intanto, senza la pretesa di una analisi professionale, la violenza non riguarda solo ragazzi di prima, seconda, terza generazione: la violenza è un fenomeno che coinvolge molti uomini e meno donne di ogni razza, censo, estrazione sociale e/o interessi. Certo poi è più facile stigmatizzare alcune realtà piuttosto che altre. Secondo alcuni, altri alcuni per forza sono violenti perché di seconda generazione, perché incapaci di accogliere le regole.
Come scriveva Giuliana Tondini, procuratrice tribunale dei minori di Brescia, quello che preoccupa è oggi l’accelerazione con cui oggi si radunano le bande violente, basta un TikTok. «Questa accelerazione non favorisce il pensiero riflessivo, ma privilegia risposte istintuali e spesso violente.» La fatica di riflettere.
Dei ragazzini, non pochi, di cosiddetta seconda generazione hanno fatto violenza su alcune loro coetanee agli inizi di giugno su un treno da Peschiera del Garda verso Milano. Ragazzi che poco prima si erano ritrovati per un raduno “etnico-tribale” come ce ne sono tanti altri in Italia e non solo e non solo di ragazzini.
Ragazzi che probabilmente hanno trovato ispirazione in tanta musica che permettiamo di ascoltare perché tanto è solo musica. (a questo proposito leggi https://www.marcobrusati.com/categorie/musica-video/490-idoli-del-trap-de-cantano-droga-violenza-e-ragazze-prede-sessuali).
Il fatto verrà giudicato e sanzionato dalle autorità competenti; il recupero delle loro vite e la rielaborazione del trauma delle vittime saranno la missione delle famiglie e degli specialisti competenti. Speriamo.
Non era e non è facile affrontare queste realtà che chiamiamo disagio. Sicuramente la politica ostacolando qualsiasi proposta di legge per un riconoscimento di cittadinanza non comprende che ciò significa ignorare che l’immigrazione è sempre una complicazione, da che mondo è mondo, e va affrontata.
«Non credo che tutti i giovani e turbolenti immigrati diventerebbero agnellini, ottenuta la cittadinanza, come la cittadinanza di per sé non aggiusta le teste matte dei giovani turbolenti di nostra produzione. Ma forse avrebbero una ragione in meno per sentirsi sradicati e stranieri nella terra dove sono cresciuti, e dove un aspirante leader li considera indegni di noi.» (M. Feltri, LaStampa, 1 luglio 2022).
Dobbiamo continuare a vigilare e creare spazi di incontro e di riflessione (non solo scuola che a molti adolescenti dà un senso di fastidio) per gli adolescenti; dobbiamo trovare il modo di far percepire che verso gli adolescenti c’è fiducia, non solo sopportazione. I tempi di “ri-costruzione” saranno lunghi ma porteranno frutti se sapremo dare loro tempo di ascolto e proposte di vita, se sapremo far riscoprire il valore dei “sì” e dei “no”! Non è un lavoro semplice, richiede molta rete, specialmente con quanti di cosiddetta seconda generazione – per restare nel campo – hanno raggiunto dei successi. Altrimenti si rischiano sempre livelli distinti e lontani che continueranno a distinguere e allontanare.
Donne
Violenza contro le donne è il filo conduttore di questa domenica, con piacere pubblichiamo una riflessione di una giovane donna quale nostro piccolo contributo alla causa.
Nelle ultime settimane oggetto di discussioni più o meno animate è stata la vicenda della giovane Desiree, sedicenne di Cisterna Latina morta, secondo quanto emerso fino a ora dalle indagini, in seguito a uno stupro. A fare particolare scalpore è stato il fatto che il crimine sia stato commesso in uno stabile occupato, noto per essere un centro di spaccio.
Ora, tralasciando le “specifiche del caso”, la situazione ci permette di riflettere su un tema troppo spesso sottovalutato. Da sempre “la città” è divisa in un centro elegante, perbene e in sobborghi malfamati. Negli ultimi anni, però, la situazione è andata peggiorando sempre più, fino a diventare impossibile da ignorare. La totale indifferenza delle istituzioni ha lasciato troppo spazio alla criminalità per agire, radicarsi in questi territori ed espandersi poi a macchia d’olio anche in quel centro considerato sicuro, così che l’intera città è diventata un enorme macchia scura, un buco nero che risucchia ogni speranza e possibilità. Sgombrare uno stabile non basta, se poi la cittadinanza non se ne riappropria davvero. Se lo Stato non trova una destinazione a questi edifici, saranno sempre delle fabbriche di illegalità.
Ma è davvero possibile che non si riesca a trovare loro una destinazione? Possibile che questi quartieri non abbiano bisogno di una biblioteca, di un cinema, di una sala con un biliardino? Possibile che nessuno ci abbia pensato? O è forse molto più semplice ignorare il problema e dare la colpa al capro espiatorio di turno quando qualcosa di tragico accade? Sicuramente non potremmo mai saperlo con certezza, ma se quello stabile fosse stato una ludoteca, probabilmente Desiree sarebbe ancora viva.
Carmen Guida, S. Felice a Cancello
La guerra del pensare, ragionare, scrivere
L’anno passato ci ha lasciato difficili e drammatiche situazioni che non sappiamo come affrontare. L’anno appena arrivato vede già due begli articoli di Fabio e Pasqua che ci insegnano una semplice ma ardua soluzione: pensare, ragionare, scrivere.
Non sono gli isterismi a cui ci aggrappiamo che risolvono le paure e la fatica di continuare a vivere, ma la voglia di pensare, ragionare, scrivere.
Un mio amico impresario scrive che oggi i giovani, ma anche noi adulti io credo, hanno bisogno di modelli, di punti di riferimento per affrontare la liquidità nella quale sono obbligati a vivere. Sapere che la lettura è al terzo posto tra gli interessi dei giovani, dopo musica e internet e che il volontariato trova molto spazio nel loro tempo libero è un modello che dobbiamo amplificare.
Leggere, pensare, ragionare, scrivere sono le migliori “armi” per combattere le armi della violenza, del sopruso, dell’ubriacatura ideologica o religiosa. Non gli isterismi o le reazioni di pancia, ma l’uso della sapienza, dell’intelligenza, della fortezza sono le migliori armi per affrontare Parigi, Colonia, Damasco, Teheran… Armi meno efficaci? A prima vista sicuramente, ma a lungo tempo no. La storia in questo ci è maestra, seppure talvolta ce ne dimentichiamo.
È questo il motivo per cui inizio questo nuovo anno 2016 ringraziando Pasqua e Fabio ma anche quant’altri hanno già pubblicato nel 2015 o avranno la voglia di raccontarci, di aiutarci a capire qualche cosa attraverso la propria capacità di leggere, pensare, ragionare e scrivere.
Papa Francesco ci invita a combattere la “globalizzazione dell’indifferenza” se vogliamo salvaguardare il mondo; voi, noi giovanibarnabiti possiamo con orgoglio dirci in prima linea in questa “guerra” e desiderosi di continuare a combatterla per costruire una “globalizzazione della responsabilità”.
Buon lavoro,
Giannicola M. Simone, prete.
I fatti drammatici di questi giorni
Solennità di Cristo Re 2015 / B
«Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire». Alda Merini
Di fronte ai fatti di questi giorni drammatici e frenetici, a Parigi e nel mondo trovare le parole da dire e non dire non è semplice, ma è necessario.
Mantenere la giusta attenzione, la giusta profondità di analisi, la giusta capacità di pregare è difficile ma necessario.
Come sempre dico che il cristiano deve imparare a non reagire con la pancia, ma deve sapere studiare, usare la ragione come frutto dello Spirito che comunque guida il nostro mondo.
Ci crediamo che lo Spirito santo continua a guidare il mondo?
«Il suo potere è un potere eterno,
che non finirà mai,
e il suo regno non sarà mai distrutto». Così termina la prima lettura e noi crediamo che questo regno è attivo e cresce, nonostante le forze del male cerchino di combatterlo.
Se non ci crediamo, se ci abbandoniamo al pessimismo o all’oltranzismo dei giudizi, forse non è bene che stiamo qui.
Certo, “maledetti” sono coloro che hanno operato abusando il nome di Dio e uccidendo vite umane inerti in ogni parte del mondo, ma noi dobbiamo avere un altro modello di difesa, dobbiamo usare un altro modo per “uccidere” coloro che uccidono con le armi.
E questo modo è lo studio, è il dialogo, è la capacità di tessere comunque il bene.
Qualcuno potrebbe dire che non si può dialogare con nessuno, perché gli altri non vogliono dialogare, ma chi sono questi “altri”? Abbiamo mai cercato questi “altri”?
Oggi celebriamo la festa di Cristo Nostro Signore Re dell’Universo, siamo invitati a riflettere e pregare su questa dimensione di Cristo che – ve ne siete accorti? – non si rifà a una regalità trionfalistica, ma alla regalità della passione e della morte.
E vi siete accorti qual è il metodo di Gesù: il dialogo con Pilato, con lo strumento dei suoi nemici. Gesù non ha paura di intessere un dialogo con Pilato, è Pilato che a un certo punto avrà paura e si lascerà schiacciare da questa paura sino a trascinare Gesù sulla croce!
«”Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.
Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”».
Ecco, cercare la verità, questo è il messaggio di questa festa che conclude l’anno liturgico e ci prepara al tempo dell’Avvento. E come possiamo cercare la verità?
Nella preghiera quotidiana, nell’uscire dalle case per pregare e ragionare insieme.
Se credete realmente che si possa dare un futuro ai vostri figli, che si possa realmente continuare a far crescere “il regno di Dio” allora dovrete avere il coraggio di uscire dalle vostre case, di chiedere ai vostri pastori: padre, fermiamoci a ragionare, a leggere a capire, a incontrare.
Ma se continuiamo a stare nel chiuso delle nostre case a rimbambire davanti alle tv nell’attesa che tutto passi, io credo che potremo aspettare solo che tutto ci schiacci.
«Mi piace chi sceglie con cura le parole da non dire».
Così abbiamo iniziato e così invece vorrei concludere: «Mi piace chi sceglie con cura le parole da dire e le azioni da fare».
Giannicola M. Simone b.
