La certezza di muoversi nella giusta direzione

cari amici inizia una nuova rubrica dedicata a problemi di economia e al punto di vista della dottrina sociale della Chiesa, curata da un gruppo di studenti universitari: buon lavoro.

Durante una delle prime lezioni della facoltà di economia e commercio sono stati presentati a noi studenti alle prime armi due “modelli umani”: l’homo oeconomicus e lo human being. Il primo, utilizzato come riferimento per delineare l’essenza dell’essere umano per più di duecento anni, è autonomo ed egoista; il suo unico interesse è quello di massimizzare il proprio reddito e ricchezza; allo stesso tempo è sempre perfettamente razionale nelle sue scelte. Il secondo comprende una visione più ampia dell’essere umano: intraprende l’attività economica non come fine, ma come mezzo per raggiungere scopi personali; è parte di un gruppo, un’organizzazione, una comunità, un organo sociale in generale che influisce nella scelta dei suoi obiettivi, valori e necessità personali. Lo human being vive e lavora in un contesto modellato su principi di giustizia, condivisione di valori di solidarietà, lealtà e progresso (Introduction to management, Giuseppe Airoldi, Davide Ravasi). L’attenzione degli studiosi è ormai totalmente orientata verso quest’ultimo modello. Siamo arrivati a calare l’uomo nel suo contesto. Nella sua società. Il problema è che ormai la nostra società è diventata un unico grande homo oeconomicus. Una società industrializzata dove non esiste un uomo che non miri a possedere e dunque a difendere qualcosa. Una società che ci ha portati a riconoscerci per ciò che possediamo e non per chi siamo.
Erich Fromm nel suo saggio intitolato Avere o essere? sostiene che questa nostra modalità esistenziale dell’avere ha sì indotto l’uomo a possedere le cose, ma ha anche fatto sì che le cose possedessero l’uomo. È un circolo vizioso interminabile in cui l’individuo continua incessantemente ad acquisire, utilizzare, eliminare e ri-acquisire… forse in cerca di un’autodefinizione che ha perso o non ha mai posseduto, identificandosi da sempre con ciò che possiede e non per ciò che è. Una continua ricerca e inseguimento di qualcosa che lo completi, di qualcosa che lo soddisfi. Non è forse questa la nostra idea di felicità? L’appagamento, la realizzazione di inclinazioni e desideri, spesso improntati verso l’avere, verso l’espansione “quantitativa” del proprio Io?
Tra i vari paradossi su felicità e soddisfazione di vita, Leonardo Becchetti, ordinario di economia politica presso l’università di Roma “Tor Vergata”, ha esposto un esempio forviante: i messicani si dichiarano mediamente più felici di europei ed americani anche se il loro reddito è ovviamente molto inferiore. Ricorda infatti che le distanze di reddito pro capite tra paesi non si sostanziano in analoghe distanze di felicità o soddisfazione di vita. È forse allora il modello di felicità passiva basata sull’assenza di turbamento, più vicina a una società i cui ritmi di vita sono meno frenetici, che dovremmo seguire? Certo, la risposta sarebbe affermativa se la domanda fosse esposta a grandi pensatori del passato come Democrito, Epicuro, Seneca o Schopenhauer. Ma non si può totalmente adattare al nostro caso messicano. Becchetti, infatti, individua un ulteriore paradosso… nel paradosso! Ovvero, perché, se i messicani sono (si dichiarano) più felici, i flussi migratori vanno dal Messico agli USA e non viceversa? Se da un lato il Messico mostra ultimamente grande dinamismo e alti tassi di sviluppo economico, dall’altro lato esibisce enormi sacche di povertà e diseguaglianze sociali, dovute anche alla criminalità e al narcotraffico (Messico: una potenza emergente sull’orlo del collasso di Giuseppe Dentice, 2012). Il fenomeno emigratorio viene visto come una “soluzione” per far fronte a situazioni disagevoli della società. Per coloro che non contemplano una felicità in cui si chiudono le porte ai problemi e si vive nell’ipocrisia di una vita tranquilla e “tiepida”, priva di difficoltà e turbamenti semplicemente perché non affrontati, il concetto stesso di felicità segue una prospettiva piuttosto nietzschiana in cui il dolore è strettamente necessario al raggiungimento della felicità. Ai “fortunati” migranti che riescono ad entrare nel territorio statunitense, infatti, si prospettano una nuova serie di problemi, spesso estremamente pericolosi, che scelgono di affrontare pur di inseguire il sogno americano. Durante l’attraversamento della frontiera sono infatti frequenti gli abusi della Border Patrol (la polizia di frontiera degli Usa), molti di essi riguardano soprattutto le donne. Luogo di desaparicion e di morte quindi, di territori controllati dai nuovi cartelli del traffico internazionale della droga a cui si aggiunge la diffidenza della popolazione oltre frontiera che in alcuni casi sfocia in un vero e proprio conflitto.
Qual è dunque la vera natura della felicità? È essa veramente condannata a dipendere dal sogno di accrescere ciò che possediamo piuttosto da ciò che siamo? Possiamo in qualche modo deviare la nostra società- homo oeconomicus dall’adulazione incondizionata dell’avere e riportarla alla ricerca dell’essere? Ritengo che la giusta risposta l’abbia suggerita lo stesso Erich Fromm durante un’intervista: ci si dovrebbe prefiggere non lo scopo di raggiungere la modalità dell’essere a tutti i costi, ma la certezza di muoversi nella giusta direzione.

Giorgia Lombardini

In questo preciso momento storico

Continua la nostra preghiera per i cristiani perseguitati in comunione con la chiesa di S. Maria in Cosmedin, sede dei cristiani greco-melkiti. Oggi (7 settembre), vigilia della festa della natività di Maria, la Madre di Dio, colei grazie alla quale il mondo ha conosciuto il suo Salvatore, siamo chiamati a iniziare la nostra riflessione sulla Croce, il distintivo di noi cristiani. Oggi, in questo preciso momento storico durante il quale i cristiani sono ferocemente perseguitati su scala mondiale e contemporaneamente anche offesi tramite il nostro segno distintivo, la Croce, la Chiesa ci invita a leggere i segni dei tempi e a saper cogliere le differenze. È Paolo infatti che ci mette in guardia e illumina, facendoci ricordare che ieri come oggi, sono in molti a farsi potenti-prepotenti imponendo circoncisioni per assoggettare tutti alla medesima legge; ma ieri come oggi, chi costringe ad essere assoggettato a quella legge non la segue perché non l’aveva e mai l’avrà nel cuore rettamente (cfr. Gal. 6, 12-13), essendo accecati dalla propria prepotenza. Tali prepotenti infatti mai saranno in grado di comprendere l’intrinseca potenza della croce del Cristo. … Ecco perché oggi, come ieri e domani, l’essere appesi alla croce dai nostri persecutori, non è ingiuria come vorrebbero credere costoro, è anzi segno di vittoria per coloro che vi pendono, essendo la croce, da Cristo in poi, pegno di vita eterna. Ecco perché il legno della croce, irrorato oggi dal sangue innocente e coerente dei martiri di sempre, è virgulto, è fonte di vita eterna della Chiesa di un Dio che non giudica, ma che addirittura dona il suo unigenito figlio per noi, per la nostra salvezza. Preghiamo per i molti martiri di questi ultimi anni che ci insegnano la grandezza della coerenza e della bellezza della croce, chiediamo al Signore la forza di fede necessaria per questa coerenza e per così amare e comprendere la croce, strumento della nostra salvezza. padre Ntonas Haddad

Ricevuto dal papa il parroco di Gaza city

Dall’Osservatore Romano del 30 agosto 2014

Ha portato al Papa il “grazie” dei suoi parrocchiani di Gaza, un piccolo gregge di appena 136 anime che ha vissuto il dramma del conflitto sostenuto dalla vicinanza del pastore e dalla preghiera di tutta la Chiesa.
Ricevuto in udienza dal Pontefice nella mattina di venerdì 29 agosto, padre Jorge Hernández Zanni, religioso dell’istituto del Verbo Incarnato e parroco della Sacra Famiglia a Gaza, si fa voce — in questa intervista al nostro giornale — della riconoscenza dei fedeli per la vicinanza manifestata loro in più di un’occasione da Francesco.

Quali sono le sue prime impressioni dopo l’incontro con il Papa?
Il colloquio con Francesco è stato una grazia. Mai me lo sarei aspettato. Durante i giorni di guerra a Gaza, il Pontefice ha inviato alla parrocchia un messaggio via mail. Subito ho informato tutti i fedeli di questo dono. Non immagina il sollievo che ne hanno ricavato, per il solo fatto che il Papa abbia a cuore tutti noi.

Quale il contenuto del messaggio?
Innanzitutto, Francesco ci ha incoraggiato ad andare sempre avanti, a dare la nostra testimonianza, a essere “sale della terra”. Ha fatto riferimento alla visione soprannaturale della presenza dei cristiani in quel luogo. Non dimentichiamo che su quasi due milioni di abitanti a Gaza, i cristiani sono 1350, dei quali 136 cattolici e il resto ortodossi. Una minoranza importante. E il fatto che il Pontefice si occupi di noi è un gesto significativo.

E oggi che cosa ha rappresentato l’udienza con il Papa?
Ora, con questo incontro ho avuto la stessa certezza: il pastore è presente tra i suoi fedeli, offre incoraggiamento e sapienti consigli. È una grazia enorme per noi.

Com’è attualmente la situazione nella Striscia?
Grazie a Dio è stato concordato un cessate il fuoco duraturo, almeno per dare la possibilità di tornare ai negoziati in Egitto. Anche questo per noi è una grande grazia, perché le persone non ce la fanno più. Oltre ai danni, alla paura, la situazione è divenuta insostenibile per entrambe le parti in conflitto.

In questo momento qual è l’opera svolta dalla sua parrocchia?
La parrocchia della Sacra Famiglia è l’unica cattolica di Gaza. Durante il conflitto abbiamo ospitato più di milleduecento persone che scappavano dalle loro case. La nostra è stata una testimonianza di carità. Abbiamo accolto, appoggiato e sostenuto nel dolore molti rifugiati, anche fornendogli aiuti materiali, grazie alla Caritas internationalis che ci è sempre stata vicina. Devo dire che abbiamo sempre avuto l’appoggio incondizionato del patriarcato latino di Gerusalemme. Il patriarca Twal in persona si è occupato di farci avere gli aiuti umanitario e lui stesso ha telefonato più volte alla nostra comunità. Chi ha vissuto una guerra sa il valore straordinario di questi gesti. Ecco la presenza della Chiesa: una ferma testimonianza caritativa. Purtroppo, abbiamo avuto anche tre vittime tra la nostra comunità cristiana.