Tra i carabinieri in missione in Afghanistan c’è anche un ex-alunno del Collegio San Francesco di Lodi. Dopo averlo aiutato a sostenere una mamma di Herat che ha partorito 4 gemelli gli abbiamo chiesto di scriverci qualche riflessione sulla sua missione che pubblicheremo a puntate sul nostro blog. Per motivi di sicurezza non pubblichiamo il nome dell’autore.
Il mantenimento della pace mondiale dovrebbe essere, e son sicuro che lo è, un motivo d’orgoglio per l’identità nazionale; ciò possiamo comprenderlo dallo sforzo notevole che la nostra nazione ha espresso in particolar modo in questi ultimi anni.
Per la maggior parte degli italiani, il mantenimento della pace evoca immagini positive ed eroiche dei soldati che operano in ambienti difficili e spesso tragiche: un soldato che protegge un bambino durante uno scontro a fuoco; un pilota che vola in condizioni disperate al fine di portare rifornimenti i posti inaccessibili; un medico che benda le ferite di un rifugiato in difficoltà; un soldato di pattuglia nella terra di nessuno tra mille insidie e pericoli di attacchi; un ufficiale che scopre fosse comuni dopo un genocidio. Per noi soldati italiani, il mantenimento della pace è il cercare di proteggere le persone in pericolo di vita, offrendo la speranza in situazioni quasi disperate, e portando la pace e un po’ di giustizia per le comunità devastate dalla guerra in terre lontane. Si tratta di sacrificio e di un servizio mondiale.
Queste nozioni di coraggio e di servizio in passato non sono state percepite dalla nostra comunità che oggi è finalmente conscia e le ha fatte proprie. Il sostegno del popolo italiano per questo ruolo delle forze armate di mantenimento della pace è forte ed è diventata parte integrante dell’identità nazionale. Si tratta di una parte di ciò per la quale l’Italia si è resa celebre come nazione, e come popolo. I nostri soldati hanno sempre avuto un ruolo positivo, straordinario durante i loro impegni internazionali. Questo fattore ci è stato riconosciuto da tutti i paesi del mondo. Purtroppo anche il numero dei fratelli italiani che hanno dato la vita è elevato e a volte poco ricordato.
Da diversi anni partecipo alle missioni internazionali per conto del mio paese. Ho cominciato nel 1993 in Cambogia dove l’Italia partecipò alla missione UNTAC con l’invio di 75 Carabinieri quali osservatori per conto della Civil Police dell’ONU dislocati nei vari distretti di quella terra martoriata dal regime di Pol Pot al fine di permettere al quel popolo di poter scegliere il proprio futuro attraverso libere elezioni. Da giovane Carabiniere qual’ero allora, fu un’esperienza tremendamente ricca di emozioni forti che hanno lasciato il segno nella mia vita. Laggiù l’ambiente era difficile e le carenze organizzative dell’ONU spaventose. Siamo stati mandati in province sperdute del territorio cambogiano, assediati dalle zanzare senz’acqua né luce; scarsi sistemi di comunicazione, internet e telefoni cellulari non erano nenache stati inventati! Per non parlare dell’alloggio. Ma la voglia di far bene di aiutare i cambogiani ha sopraffatto le mille difficoltà.
I visi di quelle centinaia di bambini sempre sorridenti che ci accoglievano come fossimo dei babbo natale… si è stampata nella memoria! “Bye Bye UNTAT”, dicevano nell’accoglierci e noi cercavamo nelle tasche un qualsiasi cosa da poter regalare, anche una semplice bottiglia d’acqua.
Dopo la Cambogia, via via ci sono state altre missioni fino ad arrivare al 2009 quando per la prima volta vengo chiamato per l’Afghanistan. Una terra che solo a pronunciarne il nome faceva paura! Ora sono al secondo “giro” al termine del quale avrò trascorso piu’ di due anni in questa terra.
Sono lontano dagli affetti: i miei piccoli gioielli, i miei bambini, la mia amata moglie che con immensa forza e coraggio manda avanti “la baracca” come si usa ancor dire dalle mie parti. Un po’ di malinconia mi assale, ma dura poco: il sorriso dei colleghi e la riconoscenza degli afghani mi da coraggio. (Continua)