Cari amici ci piace riprendere questo articolo “musicale” scritto per il Sole 24 Ore, dal cardinal Gianfranco Ravasi, il 13 marzo 2016.
La maggior parte dei lettori ricorda la tragica fine di John Lennon, assassinato da un fanatico a New York a soli 40 anni l’8 dicembre 1980. Per quasi trent’anni la compagna Yoko Ono ha tenuto nascosto un brano che questo famoso membro dei Beatles aveva registrato poche settimane prima, il 10 novembre di quell’anno. È una sorta di sorprendente testamento spirituale che sconfina in un’invocazione orante: «Aiutami, Signore, aiutami, Signore, sì, ti prego, aiutami, Signore, aiutami ad aiutare me stesso!». Questa implorazione drammatica – Help me to help myself – era preceduta da una confessione: «So nel mio cuore che noi non ci siamo mai lasciati … Dicono che Dio aiuta chi aiuta se stesso e allora faccio questa domanda nella speranza che tu sarai buono con me, perché nel mio intimo profondo io non mi sono mai sentito soddisfatto».
Perché propongo questa testimonianza? Lo faccio perché due lettori si sono dichiarati positivamente sorpresi per una mia recensione nella quale tempo fa evocavo la Preghiera in gennaio del primo long playing di De André (1967) e la Smisurata preghiera, una delle sue ultime canzoni (1996), ispirata alla Desmedida plegaria dello scrittore colombiano Álvaro Mutis. Raccolgo un’ulteriore loro sollecitazione, convinto come loro che alcuni cantautori costituiscono per le giovani generazioni gli unici poeti che essi ascoltano: i due lettori, infatti, mi chiedono di svelare qualche altra mia sintonia musicale in questo orizzonte così differente da quello che si immagina più consono a un cardinale.
Fermo restando che il mio orecchio è ben più disposto e attrezzato ad ascoltare altra musica, sono stato sempre attratto anche da un orizzonte così diverso, memore del programma che san Paolo propone nel suo primo scritto, indirizzato ai cristiani di Tessalonica: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è kalós [buono/bello]» (I,5,21). È una sorta di variante del celebre motto dell’Heautontimoroumenos di Terenzio, motto ripreso da Cicerone e Seneca ma anche da s. Agostino e s. Ambrogio: Homo sum: nihil humani a me alienum puto. Ho, così, pensato subito a Lennon, ma mi sono anche accorto che avrei potuto raccogliere una lunga lista di cantautori in cui mi sono imbattuto e che si sono accostati al tema religioso in forma provocatoria (ad esempio Lou Reed), e persino quando sembravano alieni da simili interessi, a differenza, ad esempio, di un Battiato o di un Ron.
Inoltre bisogna riconoscere che talora affiora negli autori anche più “laici” una spiritualità implicita, affidata all’intensità di certe interrogazioni radicali umane: penso a Guccini o a Gino Paoli coi quali ho avuto occasione di interloquire durante un “Cortile dei Gentili”, cioè un incontro tra credenti e non credenti all’università di Bologna. La stessa osservazione vale, ad esempio, per un Lucio Dalla che, però, nel 2007 aveva intitolato una sua canzone con un esplicito I.N.R.I., acronimo dello Iesus Nazarenus Rex Iadaeorum del cartiglio di condanna affisso sulla croce di Cristo, e che riconosceva: «Di cercarti io non smetterò, abbiamo tutti voglia di parlarti».
Ma Dio ha tempo di badare a noi dall’alto della sua trascendenza, come ironicamente lo provocava Ligabue nella canzone Hai un momento Dio del 1995? Egli, infatti, era desideroso di sapere dal Creatore «se il viaggio [della vita] è unico e se c’è il sole di là». È la stessa attesa che appariva – sempre in tono ironico – in Wake up dead man (1997) della band irlandese U2: «Gesù aiutami, non solo in questo mondo… So che tu stai vegliando su di noi. Forse, però, le tue mani non sono libere. Tuo Padre ha fatto il mondo in sette giorni, ma ora si occupa del cielo. Puoi mettere una buona parola per me?». Anche la grande Mina in Accendi questa luce (2010) scongiurava Dio così: «Non puoi lasciarci qui da soli, non siamo liberi dal male se tu non ci sei».
Già nel 1990 con Uomini soli i Pooh ricordavano al «Dio delle città e dell’immensità» che noi «quaggiù non siamo in cielo e se un uomo perde il filo è soltanto un uomo solo». Un tema che verrà ripreso da un cantante popolarissimo come Jovanotti, una figura a mio avviso molto interessante per conoscere il linguaggio e il mondo dei giovani di oggi, nonostante anagraficamente sia ormai cinquantenne. In Questa è la mia casa (1997) pregava così: «O Signore dell’universo ascolta questo figlio disperso che ha perso il filo e non sa dov’è e che non sa neanche più parlare con te». E ancora questa idea dello smarrimento dell’uomo contemporaneo, privo di una stella polare e di una meta verso cui orientare i suoi passi, emerge nella cantante pop canadese Céline Dion, divenuta famosa per la colonna sonora del film Titanic con My heart will go on. A lei dobbiamo una Prayer (1999) in cui invoca Dio così: «Prego che tu sia i nostri occhi e ci protegga lungo il cammino … Quando perdiamo la strada, guidaci alla meta con la tua grazia … La fede che hai acceso in noi sento che ci salverà».
C’è, dunque, la consapevolezza di un deficit di senso nell’esistenza, di un procedere che è più simile a uno sbandamento, di un viaggio fuori pista, come confessava Claudio Baglioni in Per incanto e per amore (2003): «Fa’ che il viaggio di un uomo non sia la bugia di una meta, ma la verità della strada che è lunga e segreta». E l’approdo malinconico non può essere solo quello che Guccini rappresentava in modo folgorante in un disco del 1976, Via Paolo Fabbri 43: «Ognuno vive dentro ai suoi egoismi, vestiti di sofismi, e ognuno costruisce il suo sistema di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali scordando che poi infine tutti avremo due metri di terreno» (Canzone di notte n. 2).
La mia è, dunque, solo una libera e frammentaria evocazione di voci tra le mille che risuonano nell’orizzonte musicale affollatissimo dei nostri giorni. Voci che sono certamente superate negli stadi o nelle discoteche dalle esplosioni del rap o del rock più duro amato dalle giovanissime generazioni. Per loro il Bob Dylan di Blowin’ in the Wind è forse remoto quanto Buxtehude… Quelle voci custodivano talora al loro interno un anelito quasi mistico. Per concludere, scelgo solo due esempi di personaggi “mitici”. Innanzitutto Elvis Presley, che in Chi sono io? (Who Am i?) descriveva l’Incarnazione e la Redenzione in termini cristologici corretti: «Dio ha abbandonato la sua gloria ed è venuto a me, ha vissuto con gli essere insignificanti come me. Per me e in vece mia ha preso su di sé vergogna e umiliazioni. Essere oggetto di simili attenzioni! Chi sono io? Per me il Re è morto versando il suo sangue. Chi sono io? Egli ha pregato per me».
E un altrettanto mitico Bob Marley, morto nel 1981 a 36 anni, emblema del reggae giamaicano, nel 1970 esprimeva il suo Thank you Lord così: «Grazie, Signore, per quello che hai fatto per me; grazie, Signore, per quello che fai ora; grazie, Signore, per ogni piccola cosa … Io amo pregare». Un vero e proprio minisalmo moderno di ringraziamento a Dio.