Dal momento in cui l’economia è stata definita scienza, sempre più aspetti della vita dell’uomo hanno iniziato a essere soggetti a valutazioni economico-numeriche e finanziarie; come se il fine ultimo fosse l’economia stessa, la moneta, cosa che ha comportato nel tempo fenomeni come la sproporzionata distribuzione della ricchezza e il collasso dei mercati. In altre parole, l’economia non viene più vista come strumento per migliorare la vita dell’uomo, bensì diventa il fine ultimo, ciò per cui ognuno di noi lotta durante la propria quotidianità.

Il mondo economico, inteso in senso più ampio, ossia come sistema economico moderno, dovrebbe esistere a servizio dell’uomo, non come padrone di esso; in effetti è molto sottile il confine tra le due cose e vale la pena analizzare la questione partendo da un aspetto fondamentale, forse il più importante, legato all’economia sin dai tempi più antichi: il lavoro. Il lavoro è stato oggetto di dibattito nel corso dell’intera storia dell’uomo, in particolar modo negli ultimi due secoli, teatro nell’industrializzazione che ha invaso e modificato in modo permanente il sistema economico e che ha poi portato, negli anni, ai meccanismi economico-finanziari moderni. Si pensi, ad esempio, a Karl Marx, che vedeva il lavoro svolto dagli operai (da lui definiti “proletari”), nel mondo capitalistico, come alienazione degli stessi; oppure Frederick Taylor, ingegnere e padre del c.s. Taylorismo, che esegue un’analisi scientifica sul lavoro operaio, tanto da far sembrare gli operai come macchine, strumenti e non più come uomini: tutto ciò per aumentarne l’efficienza e, in altre parole, la produttività.

Su tale aspetto si è soffermata anche la Chiesa la quale ha inteso elevare l’elemento “lavoro” a un concetto ben più nobile rispetto a un semplice atto quotidiano e strumentale alla produzione di valore per l’impresa. Il lavoro è: “la chiave essenziale di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo” (Giovanni Paolo II, Laborem exercens, 3, 1981) avente “due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale […] (e) di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura” (Leone XIII, Rerum novarum 34, 1891- concetto del “dualismo del lavoro”).

Proprio da tali spunti, peraltro presenti anche (e a maggior ragione) all’interno del libro della Genesi (lavoro come ordine Divino “riempite la terra e sottomettetela” e lavoro come mezzo di sostentamento “con il sudore della tua fronte tu mangerai il tuo pane”), la Dottrina Sociale della Chiesa ha definito in senso più moderno e pratico il valore e l’importanza del lavoro, riconoscendo, fra gli altri, il grave errore dell’economia moderna di anteporre il materialismo economico alla dimensione spirituale di essa, ossia l’operare dell’uomo, i valori morali e simili, errore tutt’altro che latente nella scienza economica.

Detto ciò, assistiamo a uno scenario mondiale in cui è l’uomo a essere al servizio dell’economia e non, invece, l’economia a essere al servizio dell’uomo, come dovrebbe essere. Tale paradosso, com’è comprensibile, ha numerosi effetti sull’umanità e il più lampante e immediato è quello della disoccupazione. Il motivo di ciò è facilmente comprensibile, in quanto l’esubero della forza lavoro è condizionato dalla necessità e dalla natura della produzione di beni e servizi, secondo leggi dettate dall’economia stessa, dalle sue esigenze e, non, da quelle dell’uomo.

Infatti, la legge economica che disciplina l’esubero di un macchinario o di qualsiasi strumento produttivo, disciplina anche l’esubero di forza lavoro, riducendo l’essere umano alla stessa stregua di un oggetto. Ciò riassume tutto il male cui vanno contro i principi della Dottrina Sociale della Chiesa, ossia i principi di personalità, di bene comune, di sussidiarietà e di solidarietà.

Il primo, forse il più importante ed emblematico, identifica l’uomo come soggetto, fondamento e fine della vita sociale, cui deve esserne strumento l’economia e non viceversa; il secondo, invece, ha finalità ben precise identificate, fra le molte altre, nell’occupazione, nell’evitare categorie sociali privilegiate e nella proporzione tra salari e prezzi; i terzo indica l’intervento compensativo e ausiliario degli organismi sociali più grandi a favore dei singoli e dei gruppi sociali più piccoli; il quarto, infine, definisce e promuove l’importanza della carità, volta a combattere l’egoismo e l’auto-centrismo sociale che si è ormai radicato come un cancro nelle società moderne.

Alla luce di quanto esposto, risulta con chiarezza solare come il problema di base sia da identificarsi nel sistema in sé, quel sistema su cui si basa l’intera società moderna, che mira all’efficienza produttiva piuttosto che al soddisfacimento delle necessità di tutti gli esseri umani; che predilige il guadagno di pochi rispetto ad un’equa distribuzione della ricchezza; che persino, in molti casi, riduce la religione ad un mero compito che si manifesta nell’”andare in chiesa” e “lasciare l’offerta” invece di seguire i principi della Dottrina Sociale della Chiesa ed interrogarsi su ciò che davvero è giusto, etico e qualificante per l’essere umano come vera dimensione da salvaguardare e da anteporre al resto. Quel sistema che, d’altra parte, è stato creato dall’uomo stesso. Infatti,

«Gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. […] Da una parte infatti, come creatura, esperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni e chiamato ad una vita superiore (Gaudium et spes 21)».

Tommaso Carretta

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