intervista a Alessandra Carati, scrittrice
“Dopo Londra non è stato più lui, come se il destino lo avesse aspettato per voltare pagina in modo irreversibile. Ero convinta che gli servisse un recinto capace di segnare in modo chiaro il confine tra ordine e disordine.”
Abbiamo scelto queste parole, tratte dal romanzo “E poi saremo salvi”, per introdurne l’autrice, Alessandra Carati. Donna, scrittrice, finalista del Premio Strega Giovani 2021, si racconta in un’intervista che, traendo spunto da riflessioni sul suo più celebre romanzo, un libro che parla di bambini, adolescenti, adulti, un percorso generazionale attraverso le varie fasi della vita, approda a tematiche profonde sulla società e complessità umana. Alessandra Carati, donna, scrittrice, finalista premio strega giovani 2021.
1) Nel suo libro incontriamo la protagonista, poco più che bambina, e la seguiamo nel suo percorso di formazione: è davvero così difficile crescere?
La vita nella sua totalità è complessa. Per i protagonisti del libro forse ancora di più, poiché incontrano degli ostacoli ulteriori. La guerra li costringe a scappare, è un moltiplicatore di fatica e di dolore. Quando conosciamo Aida, la protagonista, ha solo sei anni. Oltre ad attraversare le normali difficoltà del diventare adulti ha quindi un fardello da sciogliere molto pesante. Il trauma della guerra impatta sulla sua famiglia direttamente e il padre li porta a vivere in Italia per salvarli. Vengono strappati all’improvviso dalla loro realtà rurale e quotidiana, dove la comunità ha una sua forza e una sua vitalità, per andare a vivere a Milano. La guerra ha conseguenze non solo su Aida ma su tutta la sua famiglia, su tutte le generazioni che la compongono, dai genitori fino ai nonni, lasciando in ciascuno ferite diverse.
2) Quale è il rapporto dei personaggi del romanzo con la religione?
Il modo in cui vivono la religione non ha niente di trascendente, non hanno dimensione religiosa realmente viva. La religione diventa una qualità per identificarsi in una situazione in cui si sentono esclusi, quasi a voler marcare una differenza e rivendicare l’appartenenza a qualcosa. Stanno attaccati ad essa come ad una formalità. Neppure il fratello riesce a trovare questa dimensione, anche quando cerca di ricomporre qualcosa nella sua dimensione di delirio, quando tenta di riunificare la sua dimensione psichica attraverso la lettura dei testi sacri delle tre grandi religioni monoteiste. L’unico momento in cui pare esserci un una ricerca di una dimensione trascendente è quando il padre porta Aida sulla tomba della nonna: in quell’istante entrano in contatto con l’invisibile, anche se non direi in senso propriamente religioso.
3) È veramente necessario un evento così traumatico come una guerra per indurci a riflettere maggiormente su noi stessi?
La guerra sicuramente funge da moltiplicatore di emozioni, portandone ad una fortissima ed eccezionale intensificazione. Eppure, questo ci dovrebbe far riflettere. Quante volte anche noi siamo alla ricerca di intensificatori di emozioni, come se il quotidiano non fosse bastante. Forse perché oggi è sempre più rarefatto lo spazio per la propria intimità. L’attenzione assidua al nostro corpo, al nostro involucro, ci ha forse fatto dimenticare la necessità di un ascolto di noi stessi in modo più organico. Il nostro copro non è solo lo strumento che ci permette di fare delle cose, ma preferiamo forse ridurlo a questo per una innata paura della solitudine, di cui non riusciamo a comprendere appieno l’importanza per comprendere realmente noi stesso e le relazioni con l’altro.
4) Allontanandoci dalla specificità del romanzo, cosa è per lei la scrittura e quando è nata la sua passione per essa?
La scrittura per me è stata una sorta di vocazione che, tuttavia, non ho coltivato da subito. Prima di ritornavi, infatti, mi sono “dispersa” in altri ambiti professionali, creando un bagaglio di esperienze che confluiscono nel processo creativo. Per me scrivere è sempre stato un atto di condivisione di esperienza umana, da vivere in primo luogo come una pratica, qualcosa di tangibile, che sta nelle mie mani ancor prima che nel mio intelletto. Qualcosa che avviene con il corpo tramite un contatto con la materia. È un’azione fisica in cui racchiudiamo emozioni, commozioni, sensazioni.
Nello scrivere vi è sicuramente una parte professionale, ma anche una parte più intima che non necessariamente confluisce in un libro, un’attività intima dello scrivere, di cui tutti noi abbiamo fatto esperienza. Scrivere ci nutre, riusciamo ad oggettivare ciò che sentiamo e ciò che proviamo, permettendo di guardare le cose in modo diverso.
Citavo prima la componente fisica della scrittura: oggi, in realtà, poche persone scrivono a mano, abbiamo diversi supporti. È rimasta la scrittura a mano libera solo quando scriviamo qualcosa che è ancora caldo, dobbiamo annotare una sensazione momentanea, un pensiero improvviso. Il supporto cambia molto la temperatura di ciò che si scrive.
5) Come sceglie il materiale e gli argomenti su cui scrivere?
Non scelgo il materiale su cui scrivo, è il materiale che mi sceglie. Ho sempre bisogno di scrivere qualcosa. Mi interessa l’umano, le esperienze biografiche anche lontane dalle mie.
Il romanzo “E poi saremo salvi” ad esempio, nasce da incontro con una mia studentessa, come precipitato di tante storie diverse, scoperte dopo la conoscenza, il dialogo e l’ascolto con una comunità di ex profughi. Ascoltare è una conditio sine qua non per la scrittura, componente essenziale del processo creativo.
Il momento in cui scrivo fisicamente sono pochi mesi, ma sono preceduti da tanti anni di studio di materiale umano, incontri. Per questo libro, ad esempio, ho dedicato molto spazio allo studio teorico, geografico, geopolitico e antropologico, alla lettura di opere di scrittori bosniaci. Tutto questo per me è già scrittura, che diventa così la sintesi di diversi input in contatto diretto con la materia viva, il risuonare dei racconti. Come un grande calderone da ci traggo materia narrativa. Più è stratificato più il processo di sintesi è lungo.
Infine vi è il momento in cui sento di essere pronta a scrivere. I mesi immediatamente precedenti sono periodi di grande sofferenza, è come se stessi covando qualcosa che tuttavia non arriva. In un mondo così orientato alla performatività e alla produttività, questi mesi in cui apparentemente sembra di non fare niente sono in realtà cruciali per la composizione dell’opera.
6) Quali sono alcune sue strategie di comunicazione e scrittura efficaci?
Non credo che ci siano delle strategie di comunicazione. Ci possono essere degli strumenti. La parola strategia suscita in me un sentimento di manipolazione, ma io credo in una forma di scrittura che sia onesta. Il sentimento è qualcosa di estremamente complesso, che ha bisogno di cultura e riflessione, non deve essere forzatamente suscitata.
intervista a cura di Giulia C. – Firenze
puoi vedere e ascoltare l’intervista sul nostro canale youtube: https://youtu.be/5WHAKTcmJqk