“Il carcere è diventato una basilica”. Sono le parole pronunciate da Papa Francesco dopo aver aperto la Porta Santa nel carcere di Rebibbia.
Una frase che porta con sé un significato profondo e dirompente. Trasformare un luogo spesso percepito come simbolo di esclusione, sofferenza e punizione in uno spazio sacro e comunitario ribalta la prospettiva comune, ricordandoci che la presenza di Dio non conosce barriere. Con questo gesto, il Papa ha voluto ricordarci che dietro ogni sbarra si nascondono storie, dolori e speranze. E proprio rivolgendosi ai detenuti, Papa Francesco ha ricordato che “ognuno di noi può scivolare”, sottolineando quanto sia importante non perdere mai la speranza e quanto abbiamo il dovere di proteggere sempre la dignità umana, anche in situazioni di errore o fragilità.
Ed è proprio la speranza il cuore di questo Anno Santo: con il motto “Pellegrini di speranza”, il Giubileo si fa portavoce di un messaggio universale di misericordia e riscatto, che abbraccia ogni persona, senza esclusioni.
Eppure, pronunciare la parola “speranza” per chi ha vissuto il 2024 dietro le sbarre può sembrare un lusso irraggiungibile.
Voltaire scriveva che “il grado di civiltà di un Paese si misura osservando le sue prigioni” e, leggendo il XX rapporto dell’Associazione Antigone sulle condizioni di detenzione, forse dovremmo interrogarci tutti quanti sul nostro grado di civiltà, come comunità e come Stato.
I numeri della vergogna ci dicono che oggi il tasso di sovraffollamento è pari al 132,6%, con oltre 62 mila detenuti stipati in strutture che possono ospitarne poco meno di 47 mila. Strutture spesso vecchie e fatiscenti, alcune delle quali non garantiscono il funzionamento del riscaldamento (10,3%) e dell’acqua calda (48,3%). Strutture che disumanizzano, che trasformano le carceri in luoghi di degrado e sofferenza.
Ma i dati si fanno ancora più angosciosi se si guardano i numeri dei decessi di detenuti nel 2024: 246 morti totali, di cui 90 suicidi , i numeri più alti che siano mai stati registrati. Record drammatici, che pesano come un macigno sulla nostra coscienza collettiva. Giovani, molti sotto i trent’anni, che hanno trovato nella morte l’unica via di fuga. Persone con un nome, una storia, un dolore, che dimostrano, sotto questo fronte, il nostro fallimento come società.
Il riconoscimento e la garanzia della dignità umana per tutti i detenuti è un tema che è stato trattato anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno; il Presidente, dicendo “I detenuti devono poter respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine” (alla faccia di chi, invece, nel non far respirare i criminali prova “un’intima gioia”), ci ha voluto ricordare quanto sancito dalla nostra Costituzione, all’articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Questo principio non è solo giuridico: è un imperativo morale. Garantire condizioni dignitose nelle carceri non è una concessione, è un obbligo. Guardando indietro al 2024, l’immagine che ci restituisce questo specchio è di cui vergognarsi. Ma la vergogna può essere un punto di partenza, un impulso al cambiamento.
E il 2025, con il suo messaggio di speranza, ci offre l’opportunità di cambiare. Ma il cambiamento richiede coraggio. Coraggio per affrontare il problema del sovraffollamento, per migliorare le condizioni di vita nelle carceri, per investire in percorsi di rieducazione che diano una reale possibilità di riscatto.
La speranza, per chi vive dietro le sbarre, non è un lusso: è un diritto. E per tutti noi è un dovere trattare con dignità chi ha sbagliato, che non è solo un atto di misericordia, ma una vera e propria prova di forza, oltre che un segno di civiltà.
Che questo Anno della Speranza ci insegni a guardare alle carceri non come luoghi di vendetta, ma come spazi di cambiamento e di vita nuova. Perché un Paese che abbandona i più vulnerabili tradisce se stesso. Ma un Paese che offre a tutti una possibilità di riscatto è un Paese che può rinascere.
Che il 2025, nel segno della “basilica” di Rebibbia, sia l’anno in cui il silenzio delle carceri si trasforma in voce di speranza. Per i detenuti, per le loro famiglie, per tutti noi.
Per gentile concessione di AC – Roma
Riccardo S. – Lodi
Month: Febbraio 2025
Il Vangelo della creazione
La nostra analisi dell’Enciclica “Laudato Sì” (3^ puntata) ci porta al suo secondo capitolo, quello destinato a una disamina delle “convinzioni di fede” che sostengono, per i cristiani, la necessità di sviluppare una nuova ecologia e di raggiungere il pieno sviluppo umano. Attraverso una breve esposizione ermeneutica del rapporto fra esseri umani e Mondo per come è presentato nei racconti biblici, l’obbiettivo è mostrare come i cristiani siano chiamati al rispetto dell’ambiente, non solo in quanto persone abitanti di questa terra, ma in quanto i loro doveri verso la natura, il creato e il Creatore sono parte della loro stessa fede.
Papa Francesco parte dalla consapevolezza che nel dibattito politico, la visione ecologica della religione viene rilegata all’ambito dell’irrazionale. Tuttavia, invita a uno sguardo più ampio e omnicomprensivo, che tenga conto di come scienza e religione possano fornire approcci diversi alla realtà, entrando in dialogo l’una con l’altra.
Dal racconto della Creazione, ad esempio, emerge l’immenso valore della vita della persona umana, creata per amore di Dio, a sua immagine e somiglianza, mostrando come l’impegno per la difesa della dignità degli uomini e delle donne sia profondamente radicato nel messaggio biblico.
L’esistenza umana, secondo il libro della Genesi, si basa su tre relazioni fondamentali: quella con Dio, quella con il prossimo e quella con la natura. Il Peccato rompe queste relazioni e trasforma queste relazioni da armoniose a conflittuali. L’uomo e la donna, però, sono chiamati a “coltivare e custodire” la Terra che è stata data loro da Dio, e hanno quindi una grande responsabilità nel rispettare le leggi della Natura, dal momento che tutte le creature hanno un valore in se stesse.
Tale valore intrinseco non è, però, divinizzazione: il pensiero ebraico-cristiano, infatti demitizza la natura, continuando ad ammirarla nel suo splendore e immensità, senza per attribuirle un carattere divino. A maggior ragione, quindi, è necessario l’impegno umano nei suoi confronti e l’assunzione di responsabilità nel riconoscere la fragilità di un mondo di cui gli esseri umani sono chiamati a prendersi cura, orientando coltivando e limitando il potere che esercitano.
Allo stesso tempo, questa visione non deve indurre a pensare gli esseri viventi come subordinati all’arbitrio e dominio dell’essere umano. L’immagine della natura come oggetto di profitto e interesse, infatti, porta a diseguaglianze, ingiustizie e violenza, a situazioni in cui “il vincitore prende tutto”, e si contrappone radicalmente all’ideale di armonia, giustizia e pace proposto da Gesù e dal cristianesimo. “Lo scopo finale delle altre creature non siamo noi. Invece tutte avanzano (…) verso la meta comune che è Dio”. (LSì 83).
Il Papa sottolinea come tramite la dinamica relazione fra essere umano e natura, questo impara a conoscere se stesso, scoprendo che, oltre alla rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture, il divino si manifesta anche nello “sfolgorare del sole e nel calore della notte”, in un processo di scoperta del sé in relazione alle altre creature, in cui si esplora la propria sacralità esplorando quella del mondo. In questo modo, quindi, comprendiamo il profondo significato di ogni creatura, poiché le differenze e le peculiarità di ognuna significano che nessuna può bastare a se stessa e che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, al servizio le une delle altre. La prospettiva è quindi quella in cui l’uomo ha comunque un suo valore peculiare che però, proprio per questo, implica che abbia una grande responsabilità.
L’ultima parte di questo secondo capitolo si concentra su quella che viene definita la “destinazione sociale dei beni”. La terra, infatti, è un bene comune i cui frutti devono andare a beneficio di tutti, e questo per i credenti diventa una questione di fede. La prospettiva ecologica del cristianesimo deve quindi tenere conto della dimensione sociale e dei diritti fondamentali delle persone. Riprendendo le parole di Giovanni Paolo II, papa Francesco spiega come la proprietà privata per la Chiesa sia legittima ma subordinata alla sua funzione sociale che è intrinsecamente parte dei beni che Dio ha creato per tutti, con una destinazione generale. (LSì 93). A questo seguono le riflessioni dei vescovi del Paraguay sul diritto di ogni contadino a possedere della terra per il proprio sostentamento e il diritto a un’istruzione e aiuti finanziari, e dei vescovi della Nuova Zelanda che si interrogano perché davvero il comandamento del “non uccidere” sia rispettato quando il 20% della popolazione mondiale consuma tante risorse da privare tutti gli altri di ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere.
Infine, si ricorda come Gesù stesso nei racconti biblici mostri spesso l’importanza e il valore della natura, nella sua relazione con Dio, contemplandone la bellezza e la presenza del Padre, vivendo in perfetta armonia con la natura stessa. La comprensione della realtà per il cristianesimo, infine, trova il suo completamento nel mistero di Cristo, che si fa carne, inserendosi come parte del cosmo creato, operando fin da principio con e nella realtà naturale, senza lederne l’autonomia.
Giulia C. -Bologna
SQUID GAME 2: BISOGNO DEL CERTO O DELL’INCERTO
Dopo un’attesa di 3 anni Hwang Dong-hyuk, insieme a Netflix, fa uscire la seconda stagione di una delle serie tv più iconiche degli ultimi anni: Squid Game.
Il successo mondiale è stato clamoroso e per diversi aspetti ricorda tanto quello avuto dalla Casa di Carta (vedi la divisa simbolica o le canzoni). È risaputo infatti come la società statunitense di streaming sia abile a cavalcare l’onda del momento sfruttando al meglio tutte le sue munizioni, spesso snaturandole.
Per chi non lo sapesse, la prima stagione ci mostra come la vita di Gi-Hun Seon sia alla deriva: sommerso dai debiti, un matrimonio fallito e una madre profondamente delusa che deve sopperire all’incapacità del figlio di guadagnarsi da vivere. Con i creditori alle calcagna, Gi-Hun Seon decide di accettare l’invito per partecipare a un gioco nel quale si possono vincere tanti soldi. Così si ritrova invischiato, insieme a numerosi disperati, in una competizione strutturata in una serie di giochi che ricordano l’infanzia. Inizialmente ricorda molto una Battle Royale, ma il fattore che la distingue è quel mood di nichilismo derivato da una profonda consapevolezza della propria situazione sociale che caratterizza i protagonisti della serie: non importa se chi perde muore, i protagonisti arrivano a scegliere di continuare il gioco di loro spontanea volontà anche quando gli si presenta la possibilità di interromperlo.
La seconda stagione ripercorre lo stesso credo della prima. La caratterizzazione dei personaggi, che va a creare una vicenda profondamente umana e al tempo stesso anche politica, fa sì che lo spettatore riesca a immedesimarsi creando continue situazioni di pathos.
Squid Game attraverso una serie di giochi mortali si rifà al dramma vissuto da migliaia di persone più di 40 anni fa. In Corea, qualche decennio dopo la Guerra di inizio anni ’50 e a ridosso dei giochi Asiatici del 1986 e Olimpici del 1988, furono istituiti una serie di centri di assistenza sociale per reprimere il vagabondaggio e purificare le città da quella che al tempo era considerata feccia. Migliaia erano i detenuti (con altrettanti deceduti) e la polizia veniva ricompensata per questa pulizia collettiva. La serie vuole quindi far emergere una non troppo velata critica sociale.
Al giorno d’oggi la società è sempre più composta da spazzatura (pensiamo alle pubblicità, ai social, all’ignoranza in televisione o sui giornali), persone superficiali, disposte a tutto pur di prevalere sulle altre, egoiste e disposte a tutto. È un campanello d’allarme sulla società di oggi. La serie lo denota chiaramente fino ad arrivare all’apice: la morte che non è solo una conseguenza, ma sottolinea l’assurdità della condizione umana.
Molto significativo è stato quando migliaia di persone povere, potendo scegliere un solo regalo, hanno preferito giocare d’azzardo piuttosto che mangiare. A seguito di questa scena, su internet sono diventati virali molti esperimenti di questo tipo e purtroppo anche nella vita reale ci sono state un sacco di persone senza nulla, drogate o tossiche che hanno preferito farsi regalare un gratta e vinci piuttosto che un pasto. Questo è lo specchio di una società malata dove, e lo si vede soprattutto nelle grosse metropoli, moltissime persone sono irrazionali e ragionano di pancia senza ponderare le loro scelte. È lo specchio dell’assurdità della società. Veramente ci possono essere persone che al giorno d’oggi si alterano fino a preferire l’incerto al certo nonostante abbiano bisogno del certo?
Marco C. – Milano
CALL FOR ARTIST
Torre de’ Picenardi, un piccolo ma vivace borgo vicino a Cremona, Sabato 1 febbraio
si è conclusa la mostra “Fotografare la felicità” presso il cinema teatro SOMS, realtà
sociale organizzata e curata da alcuni giovani locali.
La mostra, realizzata dal nostro volontario Andrea Bianchini con contributi di Giuseppe
della Morte e Fabio Cambielli, in collaborazione con il gruppo di volontari del comune
del cremasco, aveva l’obiettivo di promuovere le nostre missioni attraverso le
fotografie delle avventure vissute negli anni passati. Non solo mostrare delle
fotografie, ma far percepire la bellezza della felicità attraverso uno scatto.
Andrea ha raffigurato alcune scene degli incontri dei bambini, dei giovani e degli adulti
con i nostri giovani volontari nelle missioni in Albania (2015-2022), Messico (2023) e
Brasile (2024).
La mostra, in particolare, riportava come soggetti i volti delle persone incontrate in
questi anni, esponendo non solo i lati positivi ma anche le difficoltà raccolte con
stupore e attenzione durate il nostro percorso.
La mostra si è chiusa a Torre de’ Picenardi ma le fotografie continueranno a viaggiare
in altri luoghi d’Italia perché altri possano entrare in contatto con la realtà dei Barnabiti
sempre aperte ai nostri giovani.
Michele, Marta e Arturo









