10 giornata per il Creato

Oggi si celebra la X giornata di preghiera per la cura del creato. Per noi BarnabitiAPS e GiovaniBarnabiti ha un significato particolare perché cade al rientro dalla nostra missione nella foresta amazzonica, luogo dove più che altrove si coglie la preoccupazione per il Creato.
Un giovane della nostra missione in Brasile diceva: «di fronte a tanto bisogno di bene che senso ha la mia “elemosina” di sorrisi e aiuto di qualche giorno?» alle persone, al Creato?
Scriveva l’economista Leonardo Becchetti: «Nessuno chiede a nessuno di risolvere da solo i problemi del mondo. Gli studi empirici sulla felicità ci insegnano però che la gratuità è uno dei fattori chiave della felicità e costruire una relazione e prendersi carico di una e una sola persona arricchirebbe in modo straordinario la vita.»
Prendersi carico anche di una sola porzione del Creato oltre e insieme a una persona è proprio il modo di attivare il vangelo di ieri (Luca 14,1.7-14) che chiede di invitare al banchetto poveri, storpi, zoppi, ciechi; proprio perché non hanno da ricambiarti.
Non potremo essere tutti imbarcati sulla Global Sumud Flotilla per portare pane a e solidarietà a Gaza, ma cominciare a prenderci cura di questa persona o di quella parte di creato significa già invertire l’azione del male, del peccato che apre ferite nell’ambiente e di conseguenza nelle persone, specialmente più povere, che nell’ambiente e dell’ambiente vivono. (Leone XIV, messaggio).
Papa Leone, sulla scorta dell’insegnamento di papa Francesco, ci chiede di essere seme di pace e di speranza, «seme che si consegna direttamente alla terra e lì, con la forza dirompente del suo dono, la vita germoglia, anche nei luoghi più impensati, in una sorprendente capacità di generare futuro.»
Perché il seme che siamo chiamati a essere possa crescere «Insieme alla preghiera, sono necessarie la volontà e le azioni concrete che rendono percepibile questa “carezza di Dio” sul mondo (cfr Laudato si’, 84). La giustizia e il diritto, infatti, sembrano rimediare all’inospitalità del deserto… In diverse parti del mondo è ormai evidente che la nostra terra sta cadendo in rovina… senza considerare gli effetti a medio e lungo termine della devastazione umana ed ecologica portata dai conflitti armati» che colpiscono maggiormente i più poveri ed esclusi, specialmente le comunità indigene.
E non basta: la natura stessa talvolta diventa strumento di scambio, un bene da negoziare per ottenere vantaggi economici o politici per le materie prime, per l’acqua! penalizzando do le popolazioni più deboli e minando la stessa stabilità sociale.
«Queste diverse ferite sono dovute al peccato. Di certo non è questo ciò che aveva in mente Dio quando affidò la Terra all’uomo creato a sua immagine (Gen 1,24-29)… La giustizia ambientale – implicitamente annunciata dai profeti – non può più essere considerata un concetto astratto o un obiettivo lontano. Essa rappresenta una necessità urgente, che va oltre la semplice tutela dell’ambiente. Si tratta, in realtà, di una questione di giustizia sociale, economica e antropologica. Per i credenti, in più, è un’esigenza teologica, che per i cristiani ha il volto di Gesù Cristo, nel quale tutto è stato creato e redento.»
Ogni credente è chiamato alla custodia dell’opera di Dio, a lavorare con dedizione e tenerezza per far germogliare pace e speranza secondo le proprie possibilità e responsabilità che non si possono demandare o procrastinare. Anche piccole purché continuative azioni sono utili per custodire il Creato.
Non possiamo restare con le mani in mano, restare sul divano, diceva papa Francesco, non lasciarci inquietare ribatteva papa Leone.

Fotografare e amare A floresta!

16 agosto 2025, Seminário Mãe da Divina Providência – Benevides – Pará, Brasile

Durante i giorni di missione qui in Brasile abbiamo avuto il piacere di conversare con il Professor Mario Tito, docente presso l’Università dell’Amazzonia (UNAMA), la Facoltà Cattolica di Belém e l’Università Statale del Pará (UEPA). Ma soprattutto il prof. Tito è anche un grande amico dei Giovani Barnabiti, nonché della Barnabiti APS ed ancora una volta ha deciso di dedicarci il suo tempo.
In Brasile, dove siamo venuti per il secondo anno consecutivo, abbiamo l’obiettivo di affiancare attività di promozione sociale e sensibilizzazione sul tema ambientale alle attività ludiche con i ragazzi, sia nelle scuole che nelle comunità barnabitiche di Benivedes. La fotografia verrà impiegata come medium poiché grazie alla sua immediatezza e universalità è un modo interessante per dialogare con i ragazzi brasiliani (vista anche le difficoltà di parlare lingue diverse) e ancor di più per stimolarli a studiare i luoghi che abitano con un nuovo sguardo, ma sempre attraverso i loro occhi.
Il prof. Tito, fortemente interessato al nostro progetto, ha sottolineato come questo permetterà di fotografare la situazione della foresta, la sua bellezza ma anche la sua devastazione e il degrado che troppo spesso si incontra nei dintorni di Belem, la capitale dello stato federale Pará che a novembre ospiterà la COP30.
Ritrarre la foresta e i suoi abitanti dal loro stesso punto di vista – ci ha detto il professor Tito – è un modo intelligente per insegnare qualcosa di pratico come la fotografia e allo stesso tempo sensibilizzare sulla preservazione dell’Amazzonia. Insegnare e riflettere insieme, al contrario dei conquistadores europei di oggi e di allora (il post-colonialismo è ancora realtà in tanti paesi del mondo), permette di lasciare un segno duraturo che potrà germogliare col tempo. O almeno questa è la nostra speranza.
Insieme ci sentiamo responsabili della cura della foresta polmone del pianeta, tesoro inestimabile di rara bellezza e testimone dell’immensa forza della natura. Ma i veri custodi non possono che essere i suoi abitanti, nonostante non tutti abbiano questa consapevolezza.
Spesso – ci ha spiegato il prof. Tito – gli abitanti non si sentono parte della floresta perché questo termine viene utilizzato per indicare le aree più ricche di vegetazione. Ma l’Amazzonia è così vasta da contenere città grandi e paesini, autostrade e fabbriche. Con circa 6 milioni di chilometri quadrati attraversa vari paesi: inizia in Venezuela e termina in Bolivia, ma è il Brasile a ospitarne la maggior parte, il 63%. Ecco perché oltre a floresta si può anche utilizzare la parola mata, un termine che include anche le zone più urbanizzate.
L’Amazzonia, grazie alle sue risorse, è un tesoro che fa gola a molti; in particolare alle multinazionali come Nestlé, Johnson&Johnson, Coca Cola, Pepsi, Heineken. Multinazionali che proprio a partire da queste ricchezze costruiscono i loro imperi.
Ad oggi – prosegue il professore – le attività che distruggono la foresta sono principalmente quattro: l’estrazione mineraria (in Amazzonia si ricavano oro, bauxite, allumina e terre rare), la produzione di soia (e in generale il settore agroalimentare), gli allevamenti intensivi e il prelievo di acqua.
L’Amazzonia, infatti, è la più grande riserva di acqua potabile al mondo. Proprio l’area di Benevides, ad esempio, è ricca di acqua dolce con qualità particolari. Importanti produttori di birra e bevande come Heineken o Coca Cola costruiscono proprio qui i loro stabilimenti.
Sempre rimanendo nello stato del Pará, recentemente sono stati scoperti nuovi giacimenti di petrolio nell’Atlantico di fronte a Belem. Il governo brasiliano, capitanato da Lula, sembra intenzionato ad autorizzare le estrazioni (seppur a certe condizioni), ma sarà uno dei temi caldi che verranno discussi nella COP30.

Come BarnabitiAPS tenteremo di apportare il nostro piccolo, forse per alcuni insignificante, contributo per un’inversione di rotta: l’Amazzonia non è una terra da saccheggiare ma da amare perché colma di biodiversità e culture.
Di fronte al disastro ambientale e sociale in corso, l’Europa non può non riconoscere le proprie responsabilità. Il modello economico inventato nel vecchio continente e poi esportato in tutto il mondo non è sostenibile e crea un divario sempre più ampio tra sfruttati e sfruttatori. Se gli interessi economici in Amazzonia sono così forti è perché il nostro mercato, il più ricco al mondo, richiede continuamente beni a cui non siamo disposti a rinunciare.
La nostra volontà è quindi innanzitutto quella di lavorare sui noi stessi e in secondo luogo di rendere più consapevoli gli abitanti della foresta, i primi a subire le cause dello sfruttamento dell’Amazzonia.

Luigi C. – Roma

2025: 2 agosto 1980

Il 2 agosto 2025 è stato celebrato il 45° anniversario della strage della stazione di Bologna. Gli eventi organizzati dalla città iniziavano già l’1 agosto, ma quello più partecipato, come ogni anno, è stato il corteo diretto alla stazione ferroviaria. Migliaia sono state le persone che si sono dirette da via Ugo Bassi fino a piazza Medaglie d’Oro, tra loro anche i familiari delle vittime, il sindaco di Bologna Matteo Lepore, il presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione del 2 agosto 1980 Paolo Bolognesi, e diversi altri rappresentanti delle istituzioni.
Migliaia i partecipanti, sì, ma pochi erano i giovani presenti alla cerimonia di un anniversario così importante per la storia di Bologna e dell’Italia intera. La quantità di piccolissimi accompagnati da genitori e nonni è ovviamente un segnale incoraggiante, ma ciò che ha allarmato maggiormente il sottoscritto, un giovane di vent’anni, è stato il ridotto numero di suoi coetanei presenti alla manifestazione poiché realmente consapevoli dell’importanza di questa ricorrenza.
Partecipare a un corteo come quello organizzato ogni anno per celebrare la strage del 2 agosto 1980 è certamente un atto politico, motivo per cui sarebbe stata auspicabile una maggiore adesione da parte di adolescenti.
I giovani, infatti, vestono un ruolo fondamentale nel mantenere vivo il ricordo di ciò che accadde in quel giorno dell’agosto del 1980, soprattutto per non permettere di dimenticare la matrice neofascista dell’attentato. Quest’ultima, purtroppo, viene sempre più spesso “accidentalmente” trascurata anche da alcuni dei massimi esponenti della politica italiana, tra cui la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Meloni, come di consuetudine, anche quest’anno ha rilasciato una dichiarazione in ricordo della strage di Bologna, senza però mai menzionarne la chiara e ormai accertata matrice neofascista. Questo un estratto delle sue parole: “Il 2 agosto di 45 anni fa il popolo italiano ha vissuto una delle pagine più buie della sua storia. Il terrorismo ha colpito con tutta la sua ferocia la città di Bologna, con un attentato che ha disintegrato la stazione, uccidendo 85 persone e ferendone oltre duecento. Oggi ci stringiamo ai familiari delle vittime e a tutti i bolognesi, e ci uniamo al loro dolore e alla loro richiesta di giustizia”.
Se Meloni parla di un generico terrorismo senza nominare la vera origine dell’attentato, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo intervento del 2 agosto 2025, ne ha invece ricordato la matrice neofascista e ha sottolineato ancora una volta l’importanza dei giovani: “La strage della Stazione di Bologna ha impresso sull’identità dell’Italia un segno indelebile di disumanità da parte di una spietata strategia eversiva neofascista che mirava a colpire i valori costituzionali, le conquiste sociali e, con essi, la nostra stessa convivenza civile. […] Merita la gratitudine della Repubblica la testimonianza dell’Associazione dei familiari delle vittime, che ha sempre tenuto accesa la luce sul percorso che ha portato a svelare esecutori e mandanti, prezioso esempio di fedeltà ai valori costituzionali, specie per i giovani.”
Arturo M. – Bologna

GIOVANI EGOISTI?

Mi domandano spesso, meglio spesso si afferma che i giovani oggi sono egoisti. Eppure parlando con alcuni di loro si raccolgono riflessioni stimolanti.
L’egoismo è la tendenza generalizzata all’accumulo di risorse a discapito della condivisione, una persona a cui non interessa il bene degli altri e che pensa solo a sé, ignorando i bisogni altrui.
Egoismo è una parola forte, indica in maniera estremizzata la predisposizione del singolo ad anteporre i propri interessi rispetto a quelli del gruppo, anche quando ha un surplus di… tutto.
Penso che chiunque si rispecchi un minimo in questa descrizione, d’altronde è normale pensare ai propri interessi di vita e valorizzarli di più in quanto propri e personali. Il problema è che spesso quel giusto egoismo proprio di ogni persona spesso diventa cupidigia o avidità.
Crediamo ci sia una tendenza molto individualista di tanti giovani oggi, perché si punta al proprio profitto (anche economico) senza contare le ripercussioni che si hanno sulla società, non stimolando così l’aiuto reciproco. Perché si educa alla meritocrazia in tutto tranne che verso il prossimo! Che dovrebbe essere il bene maggiore da possedere.
L’egoismo diventa tale quando è accompagnato dall’indifferenza, quando non ci si rende conto di ciò che ci circonda perché non ritenuto importante. Così si sfocia nell’arroganza e nell’abuso, non pensando più alle persone che abbiamo davanti e alle loro anime bensì a strumentalizzarle per il nostro tornaconto. Ma siamo tutti sulla stessa barca, e se si fora la prua ben presto ne risentiranno anche a poppa, ed è questa la cosa più difficile da comprendere.
Non si può attendere che le situazioni drammatiche intorno a noi arrivino a bussare alla nostra porta per renderci conto di come sia importante e necessario superare l’egoismo che ci portiamo dentro. Non possiamo aspettare di finire anche noi sotto le macerie.
Certo gruppi come l’esperienza scout o associazioni cristiane o di altro genere abituano a pensare non solo se stessi, ma anche al prossimo. Bisognerebbe parlarne di più. Bisognerebbe anche avere più testimoni, specialmente adulti, che possano dimostrare come l’alternativa dell’altruismo possa portare bene a tutti. Bisognerebbe avere più spazi sociali che ci abituino a osservare i bisogni altrui, diciamo una “terra buona in cui seminare l’altro”! Ciò che è più importante adesso sono il sostegno e la fratellanza, quell’umanità che ci rende tali e che sembra stia svanendo ultimamente.
Probabilmente per chi crede Dio è un buon modello di altruismo, ma è necessario che le persone abbiano a disposizione diverse declinazioni perché ognuno possa trovare chi li guidi. La fede può donare sicuramente una speranza a chi vive un momento difficile, auspicando un domani migliore, ma di fronte a certi abomini c’è anche chi la fede la perde, tormentato dai perché.
Eppure l’umanità, che è l’altra parola opposta a egoismo, si vede anche nei piccoli gesti, nel condividere una fetta di pane o un riparo per la notte, o un sorriso o una attenzione qualsiasi, la primordiale forma di empatia.
Per combattere l’egoismo è necessario donare e avere fiducia, con tutti le sfide che la fiducia porta con sé!

A cura di Francesco T. – Firenze; Gaetano B. – Bari; Gruppo Decima GNGEI Milan

La radice umana della crisi ecologica

Nel terzo capitolo dell’enciclica Laudato sì, che stiamo rileggendo con voi, la riflessione di Papa Francesco si concentra sulle radici umane della crisi ecologica su un’analisi del paradigma tecnocratico dominante.
La riflessione inizia con un elogio dei progressi tecnologici e scientifici, che sono in grado di produrre “cose preziose”, trovando rimedi per i mali che affliggono l’essere umano e aiutandolo a compiere un salto nel mondo della bellezza. La tecnica infatti esprime la tensione dell’uomo verso il graduale superamento dei suoi limiti materiali.
Allo stesso tempo, però, le nostre acquisizioni scientifiche e tecnologiche offrono un enorme potere a coloro che detengono le conoscenze e le risorse economiche per sfruttare la conoscenza che nel corso della storia l’essere umano ha acquisito, i quali possono sfruttare tale conoscenza come forma di dominio sul resto del mondo. A questo proposito vengono citate le bombe atomiche e gli strumenti via via più tecnologicamente avanzati che vengono sempre più usati in guerra.
Il grande problema, afferma Papa Francesco, è che l’uomo moderno “non è sato educato al retto uso della potenza”, poiché la crescita e lo sviluppo tecnologico non sono stati accompagnati da un necessario sviluppo morale, di valori e di coscienza, ma anzi l’uomo si trova a vivere in un’epoca in cui le pretese principali sono di utilità e sicurezza (Laudato Sì, cap. 3.I).
Le cause di tale processo sono da rintracciare nel paradigma tecnocratico che è stato adottato dall’uomo nella sua interazione con la tecnologia, nel quale il soggetto non si trova più ad assecondare e accompagnare le possibilità offerte dalle cose stesse, ma è teso a comprendere progressivamente per poi possedere l’oggetto che si trova all’esterno, per estrarre tutto quanto è possibile dalle cose.
Questo paradigma tecnocratico, così diffuso e omnicomprensivo da portare l’uomo a avanzare pretese di dominio sulla natura, si applica non solo alla tecnica in senso stretto ma anche all’economia e alla politica, sottoposte alle logiche utilitaristiche del profitto. L’economia, infatti, assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza considerare eventuali conseguenze negative per l’essere umano, soffocata dalla logica della finanza internazionale. Papa Francesco sottolinea come la logica economica dominante, tutta improntata al profitto e alla crescita del mercato, non considera a sufficienza fattori di sviluppo umano e di integrazione sociale, portando a quello che viene definito un “supersviluppo umano dissipatore e consumistico che contrasta con perduranti situazioni di miseria disumanizzante” (Laudato Sì, cap. 3, II).
A questo si ricollega una riflessione generale sulla specializzazione economica, che porta a frammentazione, atomizzazione e mancanza di uno sguardo di insieme che si soffermi sulle relazioni fra le cose. Questa visione così frammentata sarebbe una delle cause alla base della difficoltà di risolvere problemi così complessi come la crisi climatica e la povertà, questioni indissolubilmente interconnesse ma che richiederebbero uno sguardo di insieme più ampio.
Per questo quindi la cultura ecologica si dovrebbe porre agli antipodi rispetto a questa visione frammentata e proporsi come uno sguardo diverso, un pensiero, una politica e un programma educativo alla base di uno stile di vita nuovo. Quindi ciò che è necessario è che l’uomo agisca non come sottomesso al paradigma tecnocratico, ma metta la tecnica al servizio degli altri con un tipo di progresso sano, umano, sociale e integrale.
Tale ecologia integrale deve avere come fondamento il valore fondamentale del lavoro. L’intervento umano che favorisce lo sviluppo del creato, infatti, è il modo più adeguato per prendersi cura del creato stesso ed è quindi il modo con cui l’uomo si pone a strumento di Dio. È pertanto necessario recuperare una corretta concezione del lavoro, poiché in esso si esplica il fulcro dell’interrogativo circa il senso e la finalità dell’azione umana sulla realtà. Il lavoro dovrebbe essere l’ambito in cui avviene il multiforme sviluppo personale dell’essere umano, mettendo in gioco la propria creatività, le proprie capacità, l’esercizio di valori, la relazione con gli altri. Tuttavia, le crisi economiche e la perdita di posti di lavoro intaccano questo processo di maturazione, di sviluppo e di realizzazione, oltre che causare ulteriori danni economici.
La riflessione di Papa Francesco, infine, si conclude con un breve accenno alle questioni etiche sollevate dalla questione degli OGM e degli interventi umani a modificare il mondo vegetale e animale, affermando che secondo la Chiesa, le sperimentazioni in tali campi sono legittime solo se si mantengano in limiti ragionevoli e contribuiscano a salvare vite umane, e che on ogni caso è contrario alla dignità umana infliggere sofferenze sugli animali e non rispettare l’integrità della creazione. In ogni caso, è sempre necessario considerare gli impatti sociali che tali interventi hanno in zone del pianeta già fragili, a vocazione agricola, in cui tali colture finiscono nelle mani di grandi produttori, determinando perdite di lavoro, migrazioni, povertà e perdita di diversità. (continua)
Giulia C. – Firenze

AUGURI DA PHOTOVOGUE FESTIVAL

Oggi compiamo 11 anni e li festeggiamo con una intervista a Alessia Glaviano Head of Globla PhotoVogue che ringraziamo per il tempo e l’attenzione dedicataci.

L’ultima Edizione del PhotoVogue Festival, “The Tree of Life: A Love Letter to Nature”, è stata dedicata, come suggerisce il nome, ad esplorare la natura e il rapporto che l’essere umano ha con essa. Da cosa è nata la scelta di dedicare un’edizione proprio a questo tema?
Ogni edizione del PhotoVogue Festival nasce da una mia riflessione personale, da una domanda che mi pongo sul mondo che abitiamo e su ciò che ritengo urgente esplorare attraverso le immagini. In passato abbiamo affrontato temi come il female gaze, l’inclusività, la necessità di riscrivere la storia da nuovi punti di vista; abbiamo dedicato un’intera edizione a Susan Sontag per interrogarci sull’effetto dell’ubiquità delle immagini sulla nostra capacità di sentire, o ci siamo confrontati con le questioni etiche sollevate dall’intelligenza artificiale nella produzione visiva.
Nel concepire The Tree of Life: A Love Letter to Nature, riflettevo su l’assurdità della violenza sistemica che infliggiamo agli animali — sull’ipocrisia che ci porta a considerare degni di amore e rispetto un cane o un gatto, ma non un maiale o una mucca. Da lì, mi sono imbattuta nel concetto di kinship, l’idea di una parentela estesa a tutte le forme di vita. Studiando questo approccio, ho trovato nelle visioni delle culture indigene una consapevolezza profonda e rivoluzionaria: una comprensione relazionale dell’esistenza che noi, moderni, abbiamo in gran parte smarrito. Da questa scintilla è nato il desiderio di costruire un’edizione che fosse, appunto, una lettera d’amore alla natura e alla nostra interconnessione con ogni forma vivente.
Quali temi legati all’ambiente sono stati esplorati nelle fotografie di questa edizione?
Abbiamo voluto esplorare la relazione tra essere umano e natura in tutta la sua complessità, evitando rappresentazioni univoche o semplicistiche. I progetti selezionati attraversano temi che spaziano dalla crisi climatica alla giustizia ambientale, dalla sacralità del mondo animale fino alla possibilità di un’ecologia affettiva, interspecie, capace di restituire dignità anche a ciò che abbiamo storicamente marginalizzato.
Abbiamo parlato di attivismo e santuari, ma anche di riciclo creativo nella moda, di comunità indigene che custodiscono visioni cosmologiche dove la terra è soggetto e non risorsa, e di artisti che reinventano il linguaggio visivo per restituire meraviglia alla materia naturale. Il nostro intento non era tanto “documentare” l’ambiente, quanto costruire immaginari alternativi, capaci di far emergere nuove forme di empatia, consapevolezza e responsabilità.
La fotografia come può sensibilizzare le persone su tematiche ambientali?
La fotografia ha la capacità unica di generare un contatto immediato e viscerale. Non si limita a “mostrare” ma può far sentire, creare legami emotivi che rendono impossibile restare indifferenti. In un’epoca in cui la parola “crisi” è diventata quasi un rumore di fondo, le immagini possono rompere la saturazione informativa e aprire fessure di consapevolezza.
Credo profondamente che un’immagine potente possa modificare il nostro sguardo — e cambiare lo sguardo è il primo passo per cambiare il mondo. A volte, la fotografia riesce a smuovere coscienze più di una legge, proprio perché agisce in quel territorio ambiguo tra etica ed estetica, tra intelletto e corpo. E quando tocca entrambi, accade qualcosa: si attiva una possibilità di trasformazione.
In che modo la fotografia racconta il cambiamento climatico?
Il cambiamento climatico non è solo un fenomeno scientifico, ma anche un’esperienza vissuta, un trauma collettivo, una crisi di senso. La fotografia può raccontarlo su molteplici livelli: documentando le sue conseguenze tangibili — desertificazione, inondazioni, incendi — ma anche rendendo visibili le connessioni invisibili tra sistemi, storie e soggettività.
Molti artisti oggi si interrogano non solo su cosa fotografare, ma su come rappresentare l’emergenza climatica senza cadere nel voyeurismo del disastro. Alcuni scelgono l’astrazione, altri il simbolismo, altri ancora il linguaggio del corpo o della performance per suggerire la fragilità dell’ecosistema e la nostra complicità.
Altri ancora, invece, scelgono di raccontare le storie di chi resiste, protegge, rigenera: comunità indigene, attivisti, agricoltori, artigiani, progetti collettivi che incarnano un altro modo di vivere sulla Terra. Perché è importante mostrare non solo ciò che si perde, ma anche ciò che può essere salvato, imparato, trasformato. In questo senso, la fotografia diventa un linguaggio stratificato: al tempo stesso archivio, denuncia, elegia e atto di resistenza.
Una sezione intera della mostra era dedicata a fotografie dall’America Latina, area geografica su cui anche noi ci stiamo concentrando in vista della Cop30 che si terrà a Belem, in Brasile, il prossimo novembre. Perché avete deciso di dedicare una sezione specifica a questa area geografica e cosa ci raccontano di diverso le foto che provengono da questa regione?
La sezione latinoamericana era già prevista all’interno del festival, perché avevamo lanciato un’open call per celebrare un anniversario di Vogue Mexico and Latin America. Ma non potevo immaginare quanto i lavori che avremmo ricevuto sarebbero stati straordinari. Sono rimasta profondamente colpita dalla qualità, dalla varietà e dalla forza delle proposte: una tale concentrazione di talento non l’avevo mai vista.
La sorpresa più grande è stata accorgermi di quanto fossero in perfetta sintonia con il tema del festival The Tree of Life, pur essendo nati in un altro contesto. Tantissimi progetti affrontavano con profondità il rapporto con la natura, le cosmovisioni indigene, l’eredità del colonialismo, la spiritualità legata alla terra, l’idea di kinship — quella parentela estesa a tutte le forme di vita che è stata per me il punto di partenza curatoriale. È come se, da due lati diversi del mondo, stessimo cercando di dire la stessa cosa.
Ma non è solo una questione di contenuto: c’è anche un’estetica potente e coerente che attraversa molti dei lavori ricevuti. Una tensione tra corporeità e paesaggio, un uso del colore viscerale, una capacità di fondere l’intimo e il politico, il personale e il collettivo. Molti artisti attingono alle tradizioni visive locali, ma con un linguaggio estremamente contemporaneo, visionario, spesso sperimentale. In alcune immagini si percepisce una carica quasi mistica, in altre un’urgenza militante, ma tutte contribuiscono a costruire un immaginario alternativo, radicale e necessario.
Per questo abbiamo voluto dare alla regione uno spazio centrale. Perché non si tratta solo di ascoltare nuove voci, ma di riconoscere nuove visioni capaci di influenzare e arricchire il discorso globale.
Cosa ne pensa lei di Cop30 e quale può essere il ruolo della fotografia in contesti di questo tipo?
La COP30 sarà una tappa storica, anche solo per il fatto che, per la prima volta, si terrà nel cuore dell’Amazzonia. È una scelta altamente simbolica, che pone al centro uno degli ecosistemi più vitali e vulnerabili del pianeta, ma anche un territorio carico di tensioni storiche, economiche e culturali.
Mi auguro che questa edizione rappresenti un vero momento di svolta e non solo una dichiarazione d’intenti. In particolare, spero in un coinvolgimento autentico e paritario delle popolazioni indigene, che da secoli custodiscono conoscenze ecologiche profonde e visioni del mondo fondate sulla reciprocità e sul rispetto. Qualsiasi strategia ambientale seria non può più prescindere dalla loro voce e dal riconoscimento dei loro diritti.
In questo scenario, la fotografia può avere un ruolo chiave: non solo come strumento di denuncia o documentazione, ma come spazio di ascolto e rappresentazione etica. Può dare visibilità a chi spesso viene escluso dai tavoli decisionali, può restituire emozione e complessità a questioni troppo spesso ridotte a cifre. E, forse soprattutto, può contribuire a immaginare — e a far immaginare — futuri diversi.
Lei è a conoscenza del nostro progetto “dalla Quercia alla Foresta” in cui alcuni nostri volontari collaboreranno con dei giovani di Benevides alle porte dell’Amazzonia. Pensa che progetti di questo tipo possono aiutare anche le popolazioni locali dei luoghi fotografati e afflitti dal cambiamento climatico?
Sì, conosco il vostro progetto e lo trovo estremamente importante, anche perché risponde a un’urgenza che sento profondamente. Per troppo tempo, molte iniziative — anche quelle mosse da buone intenzioni — si sono rivelate, di fatto, neocoloniali: calate dall’alto, incapaci di riconoscere la complessità dei territori, e spesso più interessate alla narrazione che alla realtà.
Oggi è fondamentale rovesciare questa dinamica: le culture indigene devono avere voce, ma soprattutto controllo. Devono essere protagoniste attive, non comparse nel racconto di qualcun altro. È bello e incoraggiante vedere che anche voi siete mossi da questa stessa consapevolezza, e che cercate di costruire progetti fondati sullo scambio, sull’ascolto, sulla co-creazione.
Solo così la fotografia — e più in generale la narrazione visiva — può davvero diventare uno strumento etico, relazionale, trasformativo. Non si tratta solo di rappresentare il cambiamento, ma di contribuire, con rispetto e responsabilità, a immaginarlo insieme.

Giulia C. – Bologna

ADOLESCENTI SANI LE RISPOSTE

Ballare, ballare, ballare

Luigi Peragine (22 anni) nostro amico da sempre, è un ballerino di danza classica, che ieri sera ha debuttato nel balletto Caravaggio, con Roberto Bolle a Firenze: approfittiamo per scambiare due parole con lui!
Cosa significa debuttare in uno spettacolo, come ti accadrà qs sera?
Debuttare significa finalmente mostrare al pubblico il frutto di tutto il lavoro svolto in sala prove. L’emozione di salire sul palco è un qualcosa di unico, magico, difficile da descrivere a parole. È il luogo nel quale riesco a essere completamente me stesso e a esprimermi al meglio attraverso la danza.
Quando hai scoperto che la danza classica non era solo un sogno da bambino ma la tua vita?
La danza vive dentro di me da sempre. Sin da bambino ero certo di quello che volevo diventare, ma solo crescendo sono diventato più consapevole di ciò che avrei dovuto affrontare per realizzare quel sogno.
Quali i sacrifici principali?
I sacrifici in questo percorso sono stati molti. Lasciare la mia famiglia all’età di 13 anni per perfezionare la tecnica in un’accademia in Germania è stato uno dei primi passi più difficili. Ogni giorno è una sfida costante, fisica ma soprattutto mentale, perché bisogna spingersi oltre i propri limiti per diventare la versione migliore di sé stessi.
E le gioie più … gioiose?
Ogni progresso tecnico, ogni miglioramento e ogni esibizione sono piccole vittorie che ripagano tutti i sacrifici e ci spingono, come ballerini, ad andare sempre oltre, a non arrenderci mai. La mia gioia più grande, finora, è stata sicuramente il diploma ottenuto nel 2022 all’Accademia del Teatro alla Scala e l’ingresso nel corpo di ballo del Teatro. Quel momento ha rappresentato la realizzazione concreta di anni di impegno, passione e determinazione.
Perché la danza è così di nicchia?
La danza, soprattutto in Italia, non è adeguatamente valorizzata. La progressiva scomparsa dei corpi di ballo e la mancanza di investimenti nel settore ne sono un chiaro segno. Molte persone crescono senza sviluppare una vera comprensione di quest’arte. Nonostante sia vista fuori dal comune, numerosi giovani sono animati dal desiderio di intraprendere questo percorso e andare oltre i pregiudizi. Tuttavia, le scarse opportunità lavorative e l’assenza di un reale sostegno istituzionale finiscono per scoraggiare l’interesse generale.
Quando parliamo di danza pensiamo solo ai ballerini famosi, ma c’è tutto il resto intorno: cosa significa fare parte di un corpo di ballo? cosa insegna alla vita?
Il corpo di ballo è un insieme di danzatori che creano scene corali di grande impatto visivo e costruiscono atmosfere che valorizzano la presenza in scena dei ballerini principali. Senza di esso il balletto risulterebbe vuoto. Farne parte è il sogno di ogni ballerino perché insegna a saper lavorare in gruppo con disciplina e attenzione per creare la magia dell’insieme. Oggi debutterò nel balletto “Caravaggio” di Mauro Bigonzetti al Teatro Maggio Fiorentino di Firenze, nel quale il corpo di ballo ha una grande importanza perché presenterà al pubblicò molteplici danze caratterizzate da grande rigore tecnico e musicale.

L’opera più bella che vorresti ballare?
Vorrei… vorrei ballare nel ruolo principale del balletto “La bella addormentata”!
In bocca al lupo Luigi.

Quale politica per le foreste?

Il nostro percorso di riflessione in preparazione alla COP30 (10/21 Novembre 2025 a Belem, in Brasile), prosegue oggi con un’intervista a Maurizio Martina, vicedirettore generale della FAO, la “Food and Agriculture Organization” delle Nazioni Unite, con il quale abbiamo avuto modo di parlare dello stato delle foreste, degli effetti del cambiamento climatico e dell’attività umana su di esse, degli impatti sociali dei danni forestali, ma anche di possibili soluzioni di policy e di piccole attività quotidiane, necessarie per preservare il patrimonio forestale.

Prima di tutto cos’è la FAO? Poiché molti dei nostri giovani non lo sanno.

La FAO, ovvero l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura è una delle agenzie specializzate dell’ONU con sede centrale a Roma e uffici dislocati in oltre 130 paesi del mondo. Ha preso vita in un contesto storico caotico, a seguito della fine della Seconda Guerra Mondiale, per ridare la giusta luce a temi cruciali che erano passati in secondo piano e facendosi portavoce di un ambizioso ma necessario obiettivo: eliminare la fame nel mondo costruendo sistemi alimentari sostenibili, equi e resilienti. È importante sottolineare che lo spettro su cui la FAO lavora attivamente ogni giorno è molto vasto, ed include cibo, terra, acqua, foreste e pesca. Per essere più concreti, la FAO si propone di migliorare notevolmente l’allarmante dato conoscitivo secondo il quale, ancora oggi, 733 milioni di persone soffrono la fame (rapporto SOFI 2024). Ma non si tratta meramente di una “lotta alla fame” in senso stretto, ma anche di declinare politiche mirate di sviluppo economico, sociale, culturale e protezione ambientale, attraverso un approccio sistemico ed integrato.
Per fare questo la FAO adotta una strategia a 360 gradi, che include ad esempio: il supporto degli agricoltori nella produzione, la promozione di un’alimentazione sana e sostenibile, la tutela della biodiversità, l’intervento in caso di emergenze naturali o innescate da conflitti a stretto contatto con i Governi e altri stakeholder. La nostra bussola ed il nostro motto sono chiari: “Una produzione migliore, un’alimentazione migliore, un ambiente migliore ed una vita migliore per tutti, senza lasciare nessuno indietro”.
La collaborazione con realtà come la vostra (Giovani Barnabiti, progetto “Esta è a Floresta”), per noi risulta vitale per raggiungere questi obbiettivi, in quanto siamo fermamente convinti che la trasformazione nasca dal territorio, attraverso il dialogo continuo e lo scambio di conoscenze ed esperienze.
Quale è l’attuale stato delle foreste a livello globale e quali sono le principali minacce che colpiscono le foreste?
Secondo il nostro più recente rapporto della FAO “The state of the World’s Forests” (SOFO) del 2024, le foreste ricoprono circa il 31% dell’intera superficie terrestre, estendendosi per 4,1 miliardi di ettari, ospitando più del 80% della biodiversità del nostro pianeta. Questi dati rendono quindi chiaro che le foreste siano uno dei pilastri vitali della Terra, in quanto svolgono funzioni cruciali per il suolo, per l’acqua, per il clima e conseguentemente per la sicurezza alimentare. Secondo il rapporto citato in precedenza lo stato attuale di questa risorsa è motivo di enorme preoccupazione per via della forte pressione a cui è sottoposta. Infatti, i dati segnalano che nel lasso temporale dal 1990 al 2020, abbiamo assistito ad una perdita complessiva di 420 milioni di ettari di foreste, rappresentando analogicamente un’estensione superiore a quella del territorio dell’India. Nonostante il dato sensibile, è però bene segnalare anche gli elementi che dimostrano un cambio positivo di rotta. Infatti, paragonando i dati dello stesso periodo, la deforestazione globale dimostra un calo di più di 5,6 milioni di ettari rispetto ai principi degli anni 90.
I dati postivi raccolti non sono però sufficienti per ribaltare il critico bilancio globale, che testimonia una perdita annua di milioni di ettari di foresta, dimostrando che il motore del miglioramento è ancora troppo lento.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, le minacce concrete alle foreste risultano essere molteplici. Prima tra tutte il cambiamento climatico, che porta con sé svariati “effetti collaterali”, rendendo le foreste più inclini a stress ambientali, come parassiti e malattie, incendi e siccità, che risultano in una sostanziale perdita di biodiversità e frammentazione degli habitat, alterando l’equilibrio degli ecosistemi e la sopravvivenza di specie vegetali ed animali.
Risulta critico, nell’ottica di preservare gli ecosistemi forestali anche il tema dell’intensificazione della domanda di prodotti, sia di derivazione del legno che da piante e frutti, la cui produzione ha toccato il livello record di quattro miliardi di metri cubi all’anno, dato di cui si prevede un ulteriore incremento.
Ultimo elemento, ma non per importanza, concerne la minaccia sostanziale delle crescenti e continue disuguaglianze sociali, che marginalizzano le comunità che vivono nelle foreste, impedendo loro di essere partecipi nei processi decisionali ed escludendoli dalla suddivisione dei benefici della gestione delle risorse.
Queste minacce sono strettamente interconnesse l’una con l’altra, e la loro sovrapposizione risulta inevitabilmente deleteria e non mitigabile dai progressi raggiunti in questo campo fino a questo momento.
Qual è il legame tra il cambiamento climatico e la deforestazione?
Il cambiamento climatico e la deforestazione sono essenzialmente due facce della stessa crisi ambientale globale, che, alimentandosi vicendevolmente, creano un circolo vizioso pericolosamente nocivo. Infatti, la deforestazione contribuisce notevolmente ad incrementare gli effetti del cambiamento climatico. E, se consideriamo che le foreste sono dei veri e propri serbatoi naturali di carbonio, e quindi fondamentali per assorbire anidride carbonica (CO₂), la deforestazione danneggia questa funzione benefica cruciale. Secondo il SOFO 2024, le foreste hanno assorbito dal 2000 al 2018 circa 2 miliardi di tonnellate di CO₂ ogni anno, contribuendo dunque a raffreddare il clima. Questo dato è importante per comprendere che quando le foreste vengono distrutte, non solo si riduce la capacità di assorbimento di anidride carbonica, ma, vengono anche rilasciati gas serra nell’atmosfera, generando dunque un duplice rischio, accelerando di conseguenza il cambiamento climatico.
Dall’altra parte, è lo stesso cambiamento climatico a contribuire pericolosamente all’indebolimento delle foreste, favorendo la creazione di condizioni climatiche proficue per incendi e per la diffusione di parassiti e malattie.
Si tratta dunque di un instancabile effetto domino che va categoricamente arrestato.
In che modo le foreste sono importanti per contrastare il cambiamento climatico?
Le foreste sono lo strumento naturale più potente che abbiamo a disposizione nella lotta al cambiamento climatico, sono da intendere infatti come parte integrante della soluzione, e non come un dettaglio marginale.
Infatti, le foreste contribuiscono in modo efficace e diretto all’assorbimento di carbonio, che è uno dei principali motori del riscaldamento globale, contribuendo quindi a mitigare in modo sostanziale questa problematica rallentando l’accumulo di gas serra nell’atmosfera. Risulta quindi logico comprendere che, quando una foresta viene distrutta, l’equilibrio climatico vacilla, e proteggerle è una forma di giustizia sociale e climatica.
Inoltre, le foreste sono fondamentali strumenti per la regolazione dei microclimi, in grado di limitare l’impatto di eventi climatici estremi – come ondate di calore, siccità ed inondazioni – grazie alla loro intrinseca capacità di rinfrescare l’aria, di mantenere umidità, di contribuire alla generazione di piogge e di proteggere il suolo (altra risorsa naturale fondamentale per la vita) dall’erosione.
É evidente quindi che preservare le foreste sia imprescindibile per la salvaguardia climatica. La FAO lavora attivamente su questo fronte, comprendendo la centralità del ruolo delle foreste, ed elevandole quindi come uno dei pilastri della nostra strategia climatica 2022-2031, in linea con l’obbiettivo SDG13 (Climate Action).
Quali sono gli impatti sociali della deforestazione?
I dati del nostro rapporto SOFO 2024 dimostrano che al giorno d’oggi il sostentamento di oltre 1,6 miliardi di persone dipende direttamente alle foreste, tra cui 350 milioni che vivono all’interno di aree forestali.
Inoltre, se prendiamo in considerazione la quantità di persone che fa utilizzo di prodotti di derivazione forestale – legnosi e non – i dati salgono esponenzialmente, segnalando che oltre i 3/4 della popolazione mondiale sarebbe colpita dalla problematica in modo sia diretto che indiretto.
Chiaramente, gli effetti su quella fetta di popolazione per cui le foreste sono fonte primaria di sostentamento, sia in termini di cibo e acqua ma anche di reddito, sono pericolosamente più catastrofici. Basti considerare che, nella maggior parte dei casi, gli individui che hanno questo tipo di relazione diretta con le foreste vivono già in condizioni vulnerabili, soprattutto nelle aree del Sud Globale.
La deforestazione estremizza le marginalizzazioni sociali in quelle aree. In primo luogo, funge come amplificatore delle disuguaglianze sociali già esistenti, in particolare di genere e giovanili, in quanto sono queste categorie a pagarne per prime l’altissimo prezzo.
Inoltre, una tematica rilevante è quella delle popolazioni indigene, che più di tutte conoscono e custodiscono i saperi tradizionali della preservazione di quelle aree geografiche. Sembrerebbe quindi logica una loro inclusione nei processi decisionali inerenti alle loro terre, mentre invece, è comune assitere ad una esclusione delle popolazioni indigene da questi importanti processi.
Un ulteriore elemento da considerare è anche quello dei flussi migratori delle comunità che risiedono nelle foreste, spinte dalla deforestazione, ed un potenziale rischio per la materializzazione di un ciclo ulteriore di marginalizzazione.
Nel suo ultimo articolo pubblicato su Avvenire il 5 marzo, parla di “miglioramento di processi di gestione forestale, sociale, politica e istituzionale, come nuovi sforzi per coinvolgere meglio donne, giovani e popolazioni indigene nello sviluppo di soluzioni guidate a livello locale”: in che modo il coinvolgimento di questi gruppi sociali, spesso esclusi o marginalizzati nel dibattito pubblico, può migliorare e contrastare la deforestazione e salvaguardare l’ambiente?
Come spesso accade per quanto concerne le sfide ambientali attuali, le soluzioni più efficaci nascono anche dal territorio, perché è bene tenere a mente che, in questo caso la deforestazione non è esclusivamente una questione tecnica, ma una problematica di carattere profondamente sociale e politico. Non includere i gruppi sociali più esposti e più fragili nei processi decisionali della governance forestale non è solo ingiusto, ma anche controproducente, come dimostrato dai dati riportati dal nostro rapporto SOFO 2024.
Infatti, l’inclusione dei gruppi vulnerabili – come donne, giovani e comunità indigene – viene spesso considerata una componente residuale, mentre invece costituiscono sia un bagaglio nozionistico, culturale e sociale dal valore inestimabile.
Diversi studi indicano che una governance femminile in queste aree, ad esempio, consentirebbe una gestione più consapevole dei prodotti forestali, in quanto sono le donne a svolgere un ruolo cruciale nella loro raccolta e nella trasmissione del sapere. Il potenziale ruolo dei giovani invece, porterebbe idee ed energie nuove, e soprattutto innovazioni tecnologiche e scientifiche. I giovani, infatti, non vanno considerati esclusivamente dei futuri beneficiari, ma soprattutto una forza motrice di cambiamento duraturo ed immediato. Allo stesso modo, le conoscenze tradizionali detenute dalle comunità indigene sono da considerare una risorsa preziosa. Queste comunità, infatti, più di chiunque altro hanno piena consapevolezza di quale sia il migliore approccio per preservare gli ecosistemi forestali, avendo come strumento una tradizione secolare che ha già dimostrato in passato di essere vincente per un corretto mantenimento delle foreste.
La FAO propone come soluzione ottimale a questa problematica una forma di governance condivisa, che risulta essere senza alcun dubbio una sintesi efficacie tra sapere tradizionale ed innovazione scientifica, consentendo una gestione sostenibile dal punto di vista economico, sociale e culturale.
Cosa possiamo fare come singoli individui per contribuire alla protezione delle foreste?
Nonostante sia evidente che molte delle strategie mirate nella lotta alla deforestazione derivino da decisioni prese a livelli istituzionali ed aziendali, il ruolo diretto di cittadini e consumatori rimane comunque cruciale nell’ottica di un impatto reale globale.
Infatti, il nostro rapporto SOFO 2024 segnala come causa principale della deforestazione la conversione in uso agricolo delle foreste.
Tradotto in termini pratici e concreti, quello che possiamo fare noi in qualità di cittadini, è rimodellare il nostro consumo e il nostro stile alimentare ai fini di renderlo più sostenibile e consapevole. Possiamo contribuire nel nostro piccolo a ridurre sprechi selezionando prodotti locali e di stagione, evitare lo spreco di carta, legno e cibo, selezionare prodotti certificati sostenibili, e preferendo aziende che siano trasparenti in merito alle pratiche adottate e sull’origine delle materie prime, e che agiscano nel pieno rispetto della copertura forestale e del suolo in generale.
Il consiglio è, dunque, quello di non essere dei cittadini passivi, ma di dare il giusto peso all’educazione ambientale, approfondendo il tema della deforestazione e condividendone le buone pratiche, sostenendo iniziative e progetti concreti di riforestazione, e supportando leggi e politiche che diano il giusto peso alla sostenibilità ambientale.
Giulia C. – Bologna / Firenze

Quando muore un papa

Papa Francesco è morto. Non è la prima volta che un papa muore. Sapevamo tutti che ciò sarebbe accaduto e l’accadere all’ombra della Pasqua ci ha lasciati un sapore di bellezza e verità e sicuramente di stupore. Quando una persona muore affiorano pensieri di ogni genere, lacrime e domande e per alcuni liberazione.
Un dato mi ha fatto pensare.
Quando succede un fatto, quando muore qualcuno tanti di noi preti si gettano sui i social per dire la propria. È morto il papa, papa Francesco ma non ho letto, visto, percepito messaggi di cordoglio o post di riflessione. Le preghiere non sono mancate e non giudico io se tante o poche se buone o cattive, ma nessuna condivisione di pensieri.
Non altrettanto ho raccolto da tanti laici del popolo di Dio e laici non credenti. Anzi da questi ultimi la preoccupazione per la fine di una storia, delle tante porte rimaste aperte ormai nel vuoto è più forte che tra tanti credenti.
Forse avranno colto solo quanto interessava loro e non l’interezza della riflessione di Francesco? Ma noi credenti abbiamo colto tutto o solo quello che credevamo più giusto o coerente con il nostro pensare limitato?
Ho sicuramente mal pensato che molti di noi sacerdoti ci siamo tolti … un peso. Il peso di una certa “confusione” o modalità di vivere la fede in tutti i suoi aspetti, propria di questo papa venuto dalla fine del mondo, poco consoni alla consuetudine.
Ma torno ai laici, credenti e non.
Il papa non è tutto Gesù o tutta la Chiesa, ne è una porzione. È una porzione buona se si inserisce nel grande cammino anche faticoso della vita cristiana. Quello che un papa, che anche questo papa ha testimoniato se è vero continuerà nella Chiesa con i tempi che lo Spirito santo saprà dettare.
Papa Francesco sicuramente ha cercato di camminare in quella Chiesa tracciata dal Concilio Vaticano II e sapientemente riproposta da san Paolo VI. Non ho dei dati statistici ma i riferimenti di papa Francesco al magistero di Montini sono sicuramente maggiori che a tutti gli altri papi. Questo allora ci dice che la sua preoccupazione all’apertura al dialogo con tutti, con tutte le sue fatiche è il naturale proseguio dell’Ecclesiam Suam. Questo ci dice che la preoccupazione per i poveri e l’ambiente altro non è che l’evoluzione della poco ricordata Populorum Progressio.
Allora, caro laico, posso confermarti che alcune preoccupazioni di papa Francesco, di questo papa che ti ha portato sulla soglia della fede, se sono sane e rispondenti al Vangelo non moriranno e troveranno le loro strade per svilupparsi.
L’importante è che tu continui a scendere dal tuo divano e non smetti di fare chiasso anche quanto i divani dovessero invadere la terra e il chiasso essere coperto dai rumori di una società opulenta (due degli inviti di Francesco ai giovani).
Papa Francesco si affidava a s. Teresina di Lisieux chiedendole non di risolvergli i problemi ma di aiutarlo a portarli. Facciamolo anche noi.
E poiché sono un barnabita manteniamo quella discrezione tipicamente zaccariana, così come l’ha testimoniata il paliotto dell’altare della Confessione [1] mentre passava il feretro di papa Francesco e preghiamo perché sappiamo accogliere il nuovo pastore che la Provvidenza ci donerà nei prossimi giorni.
Giannicola M. prete

[1] Il paliotto dell’altare della confessione è il medesimo utilizzato nel giorno della canonizzazione di sant’Antonio Maria Zaccaria rappresentato al centro. Una presenza reale e discreta.