Giovani dello Zaccaria – Milano

P. Ambrogio M. Valzasina, rettore dell’Istituto Zaccaria di Milano, in occasione del 25 anniversario di ordinazione sacerdotale gli abbiamo posto alcune domande sui giovani con i quali da sempre lavora. Per la gioia dei nostri lettori ne è risultato un breve e simpatico botta e risposta che con poche righe ci aiuta a continuare il nostro cammino di riflessione in preparazione al Sinodo dei Giovani.

  1. In tempi di selfie e instagram, la prima fotografia che faresti dei giovani con cui lavori?

Un selfie che esprima comunione e condivisione di cammino espressione di gioia.

  1. Il tuo continuo “lavoro” con i giovani, cosa ti ricorda della tua gioventù, in positivo e in negativo?

La vita può essere affrontata come obbligo che si fa impegno nella responsabilità, o, in negativo, il richiamo della chiusura nel privato:

  1. Cosa scopri o “riscopri” nel tuo “lavoro” quotidiano?

Le sorprese di una vita aperta al futuro.

  1. C’è una lontananza ormai confermata dei giovani dalla fede, dalla religione che ne consegue: perché?

Siamo noi che siamo lontani dai giovani. Se sei vicino tutto può accadere.

  1. Il lavorare con persone abbienti rende più facile o difficile la trasmissione di valori cristiani?

Tutto dipende dall’aria che facciamo respirare ai giovani che siamo chiamati a crescere. Se l’aria è buona per essi diventa più facile assumere ed elaborare i valori cristiani.

  1. Quale tratto zaccariano vivi o meglio trasmetti nel tuo servizio ai giovani?

Crescere di virtù in virtù; scoprire il proprio lato debole e/o vizio capitano 

  1. Siamo in vista del Capitolo Generale dei PP. Barnabiti e del Sinodo dei Vescovi sui Giovani: quale consiglio offriresti?

Non penso che il mio consiglio possa servire al discernimento. Siamo umili servitori nella vigna del Signore.

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10. Tommaso, Milano

Papa Francesco continua a sottolineare l’importanza dei giovani (come accade anche nel vangelo) per la capacità e la naturale tendenza al rinnovamento culturale e che rappresentano le “nuove foglie” ma senza dimenticare l’importanza dei “vecchi”, forieri di tradizione e che rappresentano le radici della nostra cultura. In modo combinato, quindi, il suo discorso ai giovani (e anche il Sinodo, forse) vuole essere un passaggio di consegne, di testimone, fra coloro che fino a ora hanno mantenuto le radici della cultura (attraverso un “testimone” che a loro volta hanno ricevuto dalle loro generazioni precedenti) e coloro cui spetterebbe, ora, il compito di portare avanti detta cultura, con il rinnovamento che l’inarrestabile lancetta dell’orologio del tempo necessariamente impone: il progresso.

Credo che in questo periodo storico il passaggio di testimone sia più complesso e delicato rispetto a prima, perché noi giovani di oggi siamo più scostanti nei confronti della Chiesa e della nostra cultura; questo è un aspetto che ha evidentemente allertato tutti, anche i piani alti della Chiesa (ma non solo: anche i politici, gli assessori alla cultura o al patrimonio artistico), infatti in questi anni c’è una vera e propria corsa alla salvaguardia della cultura.

Il mondo sta cambiando, le popolazioni si mischiano sempre di più, le culture si incrociano. La Chiesa, ormai, è diventata internazionale, ma in Italia, luogo storico della Santa Sede, i giovani autoctoni che lottano per la tradizione e la spiritualità sono pochi, anche se (secondo me) sono in crescita, forse grazie proprio al lavoro “educativo” che negli ultimi anni è stato fatto.

Ciò premesso, credo che Papa Francesco abbia colto il problema delicato del passaggio di testimone e l’iniziativa del Sinodo è un momento storico, in cui la Chiesa si gira ad ascoltare la voce dei giovani: forse perché ne ha un disperato bisogno, forse perché, invece, ha davvero la genuina intenzione di dare ai giovani quell’importanza che la Chiesa stessa (e il Vangelo) attribuisce loro, forse entrambe le cose; la Chiesa è tradizione, ma è anche Fede. Non deve essere né tradizione della fede né fede per la tradizione: deve essere Fede e Tradizione.

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10. Giuseppe, Aversa

Molto bello e oggettivo l’articolo da lei scritto. [Lasciare la poltrona per un trampolino sul quale farsi guidare quanto basta per spiccare il tuffo. Ndr.]

Rimanere sulla poltrona credo sia una frase emblematica di due elementi che “travaricano” nella nostra società.

Uno è l’incapacità di guidare se stessi, l’altro è l’impossibilità di agire per raggiungere un obiettivo che possa sublimare la nostra esistenza. La pigrizia, il restare sulla poltrona o sul trampolino ad aspettare quello che potrebbe essere il giorno giusto, sono uno degli ostacoli più grandi del cammino evolutivo di ognuno di noi.

Io le colpe di questo disfacimento, di questa pigrizia, di questa incapacità le do parzialmente alla Chiesa, ma dal punto di vista antropologico, per il semplice fatto che (condivido tutte le cause della Chiesa, perché non chiede carte di identità o documenti) accoglie il dolore qualsiasi esso sia, dal più comprensibile al più impossibile da comprendere; su questo c’è tutta la benevolenza e tutta la condivisione che è propria della funzione della Chiesa.

Mi trovo in contrapposizione quando si vede che fondamentalmente la fede, i portatori di fede (laici o consacrati) si ostinano a proporre strategie per affrontare il dolore o con un solo modello, univoco. Nel mio caso una sorta di ossessione mi ha portato a mettere da parte la mia persona, con l’intento inconsapevole di volermi distruggere. La complessità del mondo, dell’individuo che è spappolabile all’infinito è così articolata che non possiamo ridurre il cammino evolutivo personale o interpersonale, solo dietro a una parola di conforto che può guarire momentaneamente ma non di più.

Io sogno un giorno, se dovessi uscire da questa mia dimensione attuale, di vivere e lavorare nelle “sedi” del dolore o meglio, dove si cerca di esorcizzarlo.

La massima espressione della realtà maledettamente complessa nel quale siamo, vuoi o non vuoi, incastrati la vedo in drogati, alcolisti, anoressici, bulimici, orfani ecc… Le crisi di astinenza dei tossici, la psicopatia di una donna, il delirio di uno schizofrenico sono elementi che rappresentano l’essenza stessa della vita.

La sofferenza è alla base dell’apprendimento e dell’adattamento. Fino a che non ci si convince dell’oggettività di questo cammino, il dolore non verrà mai ridotto, nemmeno di un centimetro. Si cerca, invano, di poter sostituire il dolore con protesi materialistiche, che in certi casi non fanno che alimentarlo. Se il mondo non è l’inferno, resta sicuramente una trascrizione del Purgatorio.

[Ma forse il trampolino per la vita si può trovare! Ndr]

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7. Martina, Roma

Non credo di essere una persona che ha paura di buttarsi, anzi molto spesso mi butto anche troppe volte perché quando decido di fare una cosa cerco di farla al 100%.

Alle volte ti capita di allontanarti da una realtà, da degli impegni, non per pigrizia o voglia di non fare nulla, ma perché spesso le persone con cui ci si trova non vogliono più crescere.

Crescere insieme significa fare passi gli uni verso gli altri, ma pochissimi realmente si impegnano veramente, ma solo e sempre “quando posso lo faccio”.

A me piace essere disturbata, salire su un trampolino non per restarci, bensì per buttarmi.

Ma voglio essere disturbata da gente della quale posso fidarmi con cui posso lavorare insieme con costanza e non in maniera sporadica.

Il papa dice che “la chiesa non è dei preti e delle suore”.

Perché molto spesso a noi sembra così? Ci sentiamo trattati sempre come quel “peso” in più che fa lavorare troppo i sacerdoti, quasi una presenza scomoda, forse perché noi giovani abbiamo domande, voglia di fare, di cercare di migliorare qualcosa?

Il papa ci chiede di collaborare, di buttarci e di rischiare, ma come? In che modo? Infatti molto spesso questo diventa quasi impossibile se ci sentiamo lasciati soli dalle figure di riferimento che abbiamo.

La Chiesa in che modo vuole stare accanto ai giovani? Come vorrebbe farli riavvicinare ed allontanare dalla loro realtà consumistica?

Ancora il papa ci chiede di essere profeti, purché sappiamo prendere i sogni dei vecchi.

Come si può far crescere il dialogo tra giovani-chiesa-adulti-anziani? Perché in molte realtà è quasi inesistente, non c’è un confronto costruttivo, un dialogo che porta tutti a crescere.

Per esempio, poiché viviamo in un mondo in cui tutto ormai viene dimostrato, tutto è basato sulle prove (o quasi), come un confronto tra generazioni potrebbe aiutare a conciliare queste due realtà?

Oppure. Viviamo un tempo in cui i molti giovani hanno perso la voglia di informarsi, di leggere libri o giornali, di sentire i tg per sapere che sta succedendo nel mondo; questo porta a disinformazione, a non farsi una vera idea propria sulle cose, ma solo a seguire la massa, per pigrizia.

Come potete aiutarci voi a combattere questa pigrizia?

Infine. È solo utopia pensare di poter rivivere l’esperienza di fiducia e collaborazione dei tre fondatori dei Barnabiti: Antonio M. Zaccaria, Bartolomeo Ferrari e Giacomo Morigia?

8. Stefano, Napoli

Il tratto più caratteristico dell’epoca che ci troviamo a vivere è fortemente nichilistico. Chi più dei giovani oggi può accorgersene?

L’uomo si è sempre mosso, o meglio lanciato dal trampolino, per cause finali e non per cause efficienti. Ciò significa che se non c’è un fine, un appiglio a cui aggrapparsi, uno spiraglio da dove guardare si attiva un processo inverso che porta all’autodistruzione di sé o si manifesta anche con il senso di disprezzo per la società e i suoi valori. Basta guardare il numero dei suicidi giovanili che aumentano sempre di più.

Il problema ancora più grande che vive l’epoca moderna è che non si sente più l’altro, come altro da me, diverso, ma unica strada per capire chi sono.

Poiché le generazioni attuali sono perse, l’unica strada per riuscire a riemergere da questa grave situazione sarebbe la rieducazione dei nuovi giovani a sentire l’altro; bisognerebbe però prima tirarli fuori dalle loro realtà virtuali chiuse, con esempi concreti e tangibili di vita. Al di là di ogni Dio o morale che si segua o si professi.

Bisogna iniziare di nuovo a farli amare.

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Continuano le risposte dei nostri giovani per il Sinodo

5. Samuele, Genova

“Rimanere” dà l’idea della staticità, della immutabilità, di una stabilità infeconda.

Noi giovani non siamo infecondi, noi giovani sprizziamo energia e voglia da tutti i pori se stimolati in modo giusto. Forse è questo che manca alla Chiesa: personaggi in grado di prenderci per mano di coinvolgere una generazione che si lascia attirare più da un pomeriggio di nulla facenza davanti a schermi di playstation che a far giocare i bambini in oratorio.

Siamo una generazione che rischia di crescere senza veri valori, che va dietro a mode e a falsi miti solo perché sono “in”. Abbiamo paura di distinguerci, rischiamo di diventare sempre più giovani da divano. Abbiamo bisogno di una scossa, un rinnovamento, un qualcosa o un qualcuno che ci proponga esperienze, esperienze vere.

Non manca la voglia di lottare per qualcosa, ma non sappiamo esattamente cosa, in un certo senso ci sentiamo smarriti in un mondo ancora troppo grande per noi. Abbiamo bisogno di una guida, di un nostro Virgilio, di un nostro capitano che ci risvegli dal nostro torpore e al quel punto questo mondo lo cambieremo, lo cambieremo per davvero.

Noi giovani ci siamo, abbiamo solo bisogno di qualcuno che da dietro ci spinga dal bordo del trampolino e a quel puntopotremo tutti ammirare il tuffo da 10/10 che faremo!

6. Luciano, Ostuni

Poltrona o trampolino.

Proprio come quando qualcuno abbia già lavorato per te: un’inclinazione delegatizia.

Questo atteggiamento trasuda in parte dei miei coetanei. Appunti, tesi, scelte musicali, gusti: il campo di gioco è vario. Il singolo si perde nella massa recettiva oramai soltanto a stimoli globalizzati, amorfi e di dubbia provenienza. Non c’è utilità nell’ascoltare il silenzio. Né nel farsi domande troppo serie o meglio nel farsi – in gergo – paranoie.

Il trampolino non viene più visto trampolino ma poltrona. Si spengono gli istinti di risposta agli stimoli esterni con la forza della “leggera” indifferenza.

Ma forse stanno cambiando solo i tempi? Forse la vita, oggi, è più comoda? Forse, oggi, papino mi garantisce di più e più a lungo così che io non debba poi fare di necessità virtù così in fretta?

Una fitta trama di cose futili che hanno la parvenza macroscopica di essere indispensabili. Un corteo di bisogni, dai quali, prima o poi, tutti ci scopriamo di essere stati ingannati.

Ecco il rimanere.

Lo faccio, lo penso, “mi piace” e lo followo perché sì. Pochi hanno il coraggio di mettersi in discussione. Parlo delle cose più pratiche e quotidiane. Mi fermo lì, non vado oltre.

Sul confronto con i più grandi o con i diversi da me, con una “guida”, penzola la spada di Damocle: è un rischio da pochi.

Who’s that guy?

Who’s that guy?
Non si arrabbierà Madonna, la cantante, se approfittiamo del titolo di una sua famosa canzone generalizzando in un più generico ragazzo per introdurre il nostro ragionare sui giovani e i giovani e la Chiesa oggi.
Questa domanda infatti è ben presente in questo anno di riflessione e preparazione del prossimo sinodo per i giovani, I giovani, la fede e il discernimento vocazionaleche interpella molte diocesi e, forse un po’ meno, la nostra Congregazione.
La risposta non chiede fare chissà che o di partecipare a eventi particolari, anche se le diverse diocesi non mancano di proposte, ma almeno di mantenere vive la preghiera e alcune piste di riflessione. Sarebbe questo già un bel contributo per crescere con le nuove generazioni e far si che non debbano essere “una parte di Chiesa che manca” nella compagine della nostra azione pastorale.
Preoccupati di “non far mancare questa parte di Chiesa” così necessaria noi di GiovaniBarnabiti abbiamo proposto ad alcuni giovani vicini e lontani il nostro recente articolo rimanere sulla poltrona http://giovanibarnabiti.it/2018/04/28/rimanere-sulla-poltrona/ ) chiedendone un commento. Ne sono nati spunti brevi o più articolati che volentieri pubblichiamo per voi lettori di seguito e nei prossimi post.

  1. Luigi, Roma

Cambiare, tentare e provare, anche rischiando, sono la base del cambiamento.
Ma da sempre l’uomo ha paura di lasciare le poche sicurezze che ha, preferendo rimanere nelle proprie piccole comodità.

2. Bianca, Firenze

La paura di tuffarsi dal trampolino perché si è soli esiste ed è meglio, a volte, rimanere fermi per evitare di tuffarsi e farsi male. Però dà speranza percepire una Chiesa che si è accorta di questa paura di molti giovani e sta cercando di salire sul nostro trampolino per aiutarci a tuffarci nella vita.

3. Erika, Roma

Stare fermi, immobili su una poltrona, non è una cosa per me: preferisco i trampolini. È un tema interessante che chiede tempo per scriverne, preferisco operare!

4. Riccardo, Monza

È facile travisare il concetto di rimanere, come dici tu, e cadere in una sorta di immobilismo, ma si rischia anche di buttarsi troppo.
Sento tutto ciò in prima persona perché sto ricevendo una serie di proposte molto interessanti in ambiti diversi (sia universitari che nel mio giro di musicisti) e sono tentato di accettare tutto e cercare di conciliarlo con gli impegni che ho già. Il risultato potrebbe essere ottimo, ma anche pessimo e non fare nulla bene.
Quello che servirebbe è forse una guida che aiuti a capire come comportarsi in queste situazioni, a scegliere, a capire a quanto equivalga il “quanto basta” riguardo il trampolino da cui tuffarsi.
Non solo nella Chiesa, anche in Uni[versità] è difficile trovare una guida che possa “crescere con te”. Quindi forse il rimanere sulla poltrona è anche un meccanismo di difesa, per evitare di buttarsi troppo, perché non si capisce effettivamente quando si raggiunga questo troppo.

Parlate a noi adulti

Di questo siamo tutti sicuri: il Sinodo dei Vescovi sui giovani è un evento storico, che rappresenta un avvicinamento della Chiesa a quel mondo dei giovani sempre percepito unicamente come destinatario degli insegnamenti, dell’istruzione e dei rimproveri degli adulti, specialmente quando il rapporto è Giovani – Chiesa. Con il Sinodo i giovani diventano attori, sono loro a parlare. Proprio questo è stato il suggerimento di Papa Francesco durante la riunione presinodale tenutasi a Roma dal 19 al 24 marzo e ce lo dice Gabriella Serra, Presidente Nazionale femminile della F.U.C.I. (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), che vi ha partecipato e che ci ha gentilmente concesso una breve intervista, per raccontarci quanto vissuto durante l’incontro, ma anche la percezione di cosa sta avvenendo, che ha come esito finale e tanto atteso proprio il Sinodo dei Vescovi sui giovani.

«Si sta vivendo un ottimo momento – dice Gabriella – nel quale i giovani vengono coinvolti veramente, in prima persona, attraverso una partecipazione attiva e concreta». Infatti, Papa Francesco, durante la riunione presinodale ha chiesto con forza ai giovani di “parlare” a gran voce avendo il coraggio di esprimersi e raccontarsi, perché la Chiesa ha più che mai bisogno di capire i giovani e per questo è necessario un dialogo aperto con essi.
Papa Francesco ha ricordato che tutti siamo parte della Chiesa, anche i giovani e, per questo, ognuno ne è responsabile, aggiungendo: «anche se noi adulti tacciamo, voi dovete parlare»; proprio da ciò, ci dice Gabriella: «Si intuisce quanto a Papa Francesco stia a cuore la causa; è proprio lui il grande promotore di questo Sinodo, nuovo nella forma di coinvolgimento. È lui che ci ha dato e continua a darci la forza, il coraggio e la speranza».

Ripercorrendo il documento finale della riunione presinodale, ci si accorge di quanto siano stati ridotti e assottigliati gli spazi che hanno da sempre separato la struttura fortemente gerarchizzata della Chiesa con il popolo giovanile. Papa Francesco ha parlato a tutti i giovani presenti in modo diretto, colloquiale, paritetico e la prova di ciò sta anche nella riuscita di quella che era una grande sfida: riunire tutti e 5 i continenti del monto durante questo evento a Roma, 300 ragazzi più molti altri collegati via web.
Dal Documento emerge anche un tema cruciale, specialmente in questo periodo, non solo per la Chiesa ma anche per la società: la donna. Si è ricordato quanto importante sia e debba essere il ruolo che la donna ricopre all’interno della società e della Chiesa, chiedendosi quale sia l’apporto che la donna può dare all’interno della società e della Chiesa.
Infine, «È stato dato spazio anche a un altro rilevante tema: il volontariato. Si è sottolineato come il volontariato sia un metodo adeguato per permettere ai giovani di sentirsi utili, responsabilizzati e coinvolti all’interno della società e della Chiesa. Un modo per sentirsi vicini al prossimo in modo attivo e concreto, corresponsabili del mondo che si abita e dei luoghi che si vivono», visto il riscontro di una recente problematica giovanile legata proprio a uno scoraggiamento generale per la scarsa responsabilità che si sentono di avere all’interno della società e, di conseguenza, maturano una percezione, spesso inconscia, di essere inutili.

Dalle parole di Gabriella si sente la grande soddisfazione di aver assistito e partecipato in prima persona all’evento, facendo trasparire una grande emozione e un grande entusiasmo, accompagnati da profonda consapevolezza, da lei sottolineata: l’importanza storica dell’evento.
Noi GiovaniBarnabiti ringraziamo Gabriella per l’esperienza vissuta e per averla raccontata e condivisa rendendoci partecipi, anche se indirettamente, delle emozioni vissute e dell’impegno profuso. Le auguriamo un grande “in bocca al lupo” per il futuro, sperando che le nostre strade possano incrociarsi ancora.

Tommaso C. Milano

Papà e figlio, #buoncompleanno2

Aiutare a diventare uomini

Ci vuole anche un po’ di buona sorte per essere genitori in questa stagione complessa e veloce. È stato un bene veder cadere molti dei dogmi del passato, ma la nostra società non ha ancora appreso a gestire la propria libertà. Il compito di aiutare i ragazzi a diventare uomini s’è fatto ancora più difficile. Nella confusione di principi e di valori – intesi qui nel senso laico – il rapporto con i figli trova nuove ragioni di difficoltà che i padri e le madri faticano ad affrontare.
Noi siamo stati una famiglia fortunata, almeno sinora. Abbiamo scampato anche la crisi adolescenziale, quella in cui i “Vaffa” volano gratis. È stato merito del destino benigno, delle circostanze ambientali, dell’indole di nostro figlio e del modo in cui abbiamo trasformato il nostro amore in attenzione, cura e indirizzo. Il ruolo dei genitori è centrale. Quando vedo affermarsi l’incomprensione, mi rendo conto che è quasi sempre il frutto di padri e madri inadeguati, egoisti e disattenti.
Mia moglie ha dato tutta sé stessa per nostro figlio. Ha rinunciato a una parte della sua vita per coltivare quella che aveva generato. È stata una madre fantastica, che ha colmato con il suo affetto le mie assenze. Da parte mia, ho tentato sin dall’inizio di stabilire un rapporto in cui non fossi solo quello che spuntava la sera tardi o il fine settimana, e neanche tutti. Da che ha avuto quattro anni, mio figlio ed io abbiamo fatto una vacanza a due (oltre a quelle a tre) per conoscerci a fondo e affrontare insieme le cose. Abbiamo scoperti terreni comuni e li abbiamo coltivati. Un esempio? Suonare insieme la domenica mattina o andare a visitare luoghi storici ricostruendo eventi lontani e raccontandoceli a nostro modo. È un dono che si ripete ancora adesso che il ragazzo è diventato uomo.
Siamo stati severi, a tratti. Gli altri dicevano “troppo”. A tratti. Ma ci siamo impegnati a spiegargli cosa ritenevamo fosse giusto e sbagliato – sono scelte difficili, ma inevitabili -, fargli entrare bene in testa che si poteva vedere ogni spettacolo, a patto di pagare il biglietto. Andare bene a scuola voleva dire fare belle cose nel tempo libero. Dire la verità era meglio che mentire su un errore di quelli che se ne fanno tanti. Era importante che capisse come, nella vita, andare avanti richiede fatica e impegno. E che se ci si vota a fare le cose bene e seriamente, presto o tardi, riesce a realizzare il sogno che ha in testa. Basta crederci.
Credo che questo sia il messaggio chiave per tutti i giovani di buona volontà (e non solo). Là fuori la vita è sempre stata dura e, oggi, non lo è meno. Bisogna imparare a conoscere i propri limiti, ad accettare sé e gli altri. È necessario ricordare che non esistono scorciatoie, che nessun chitarrista suonerà bene senza aver studiato a lungo e nessuna ballerina danzerà alla Scala senza sacrifici. La nostra società in preda all’edonismo, al commercio fine a sé stesso, al tradimento delle nostre coscienze sempre più frequente, alla corruzione degli spiriti (detto in senso laico), ci chiede di essere forti e determinati nei confronti delle nostre giuste ambizioni, ma anche pienamente solidali con chi non ha avuto la stessa fortuna. A nostro figlio abbiamo cercato di spiegare che la gioia, la consapevolezza e la realizzazione personale nel rispetto degli altri richiedono fatica. Lo abbiamo fatto sentire autonomo e sicuro. Quando lo guardo negli occhi, sento che l’impegno e l’amore non sono stati seminati invano.

Marco Zatterin, Torino (papà e vice direttore La Stampa)

Suburra, #buoncompleanno3

Le nostre Suburra
Fra tanta overdose di film e telefilm, incominci a seguirne uno o l’altro senza riuscire a finire la stagione. In uno di quei incontri sono arrivato, prima al film, poi alla serie dal titolo Suburra (il quartiere più popolare dell’antica Roma, fra il Quirinale, il Viminale, il Celio e l’Appio, socialmente “male abitato”).
Già dalle prime puntate ho pensato che è facile parlare di malavita, aldilà di qualche città o quartiere in particolare, oggi nel mondo tutto. Ci basta aprire bene gli occhi o le finestre e incominciamo a vedere come la violenza e gli abusi di potere fanno parte della nostra vita. Una volta pensavamo che restandosene lontani la tossicità della malavita non ci avrebbe inquinata. Ma oggi non basta rinchiudersi e sbarrare le porte perché la forza coinvolgente della tentazione di fare un torto, entra con forza nel nostro quotidiano.
Sono tante le Suburra disseminate per il mondo intero; io scrivo dal terzo mondo – da una città alquanto violenta e da una cultura coinvolta dalla corruzione –, ma il terzo mondo te lo trovi dappertutto, anche nelle importanti città del “primo mondo”.
Segnali di degrado, quartieri costruiti non a misura umana, controllati dalle mafie (quelle fuorilegge o quelle che noi abbiamo votato), mancanza di convivenza umana, ineguaglianze vergognose di opportunità, educazione e lavoro. Anche il divertimento oggi è rimasto lontano dalle possibilità dei più poveri: le super palestre e shopping sono luoghi a cui molti non possono neanche pensarci.
I personaggi di Suburra, Gomorra, Chapo o tante altre serie sono svariati ma accomunati nella ricerca del male e dell’ingiustizia come metodo di arricchimento e della violenza come sistema di controllo. A ciò arrivano ragazzi di vita, persone “importanti” e persino quelle “perbene” perché tentate da un potere economico facile. I giochi macabri di potere e violenza si filtrano persino nelle nostre istituzioni benemerite. E le vittime vanno restando lungo le strade delle nostre città e le nostre vite.
Ho letto che “la fiction è ottima, allora la realtà è pessima” e parrebbe essere questo che attira l’attenzione dello spettatore senza un giudizio morale o valorico appropriato. Così la nostra capacità di stupore va perdendonsi ogni volta e aumentando il nostro menefreghismo. Poco o niente ci interessa quello che accade là fuori. Anche se, quando ci è conveniente, pure noi siamo ingiusti e non minimamente morali.
Il controllo sociale dei mass media (difficile in una cultura dei fakes) il valore dell’uso appropriato delle reti sociali indubbiamente sono uno strumento per migliorare questa cultura della morte e del degrado. Ma dobbiamo fare il possibile per trasformare il nostro piccolo senza lasciare spazio a quello strapotere che inghiotte le forze e le vite delle persone. Quel dragone di Roma che canta la sigla di Suburra:
“…Un gigante che ti culla tra le urla che non sente… Ti compra, ti vende, ti innalza, ti stende… Ti usa se serve, ti premia, ti perde…”.

MiguelAngel Panes Villalobos, Rio de Janeiro

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Essere felici

«Puoi avere difetti, essere ansioso e perfino essere arrabbiato, ma non dimenticare che la tua vita è la più grande impresa del mondo. Solo tu puoi impedirne il fallimento.
Molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano.
Ricorda che essere felici non è avere un cielo senza tempesta, una strada senza incidenti, un lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.
Essere felici significa trovare la forza nel perdono, la speranza nelle battaglie, la sicurezza nella fase della paura, l’amore nella discordia. Non è solo godersi il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza. Non è solo celebrare i successi, ma imparare dai fallimenti. Non è solo sentirsi felici con gli applausi, ma essere felici nell’anonimato.
Essere felici non è una fatalità del destino, ma un risultato per coloro che possono viaggiare dentro se stessi. Essere felici è smettere di sentirsi una vittima e diventare autore del proprio destino. È attraversare i deserti, ma essere in grado di trovare un’oasi nel profondo dell’anima. È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita.
Essere felici è non avere paura dei propri sentimenti ed essere in grado di parlare di te. Sta nel coraggio di sentire un “no” e ritrovare fiducia nei confronti delle critiche, anche quando sono ingiustificate. È baciare i tuoi figli, coccolare i tuoi genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche quando ci feriscono.
Essere felici è lasciare vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È avere la maturità per poter dire: “Ho fatto degli errori”. È avere il coraggio di dire “Mi dispiace”. È avere la sensibilità di dire “Ho bisogno di te”. È avere la capacità di dire “Ti amo”.
Possa la tua vita diventare un giardino di opportunità per la felicità … che in primavera possa essere un amante della gioia ed in inverno un amante della saggezza.
E quando commetti un errore, ricomincia da capo. Perché solo allora sarai innamorato della vita.
Scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta. Ma usa le lacrime per irrigare la tolleranza.
Usa le tue sconfitte per addestrare la pazienza. Usa i tuoi errori con la serenità dello scultore. Usa il dolore per intonare il piacere. Usa gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza. Non mollare mai …
Soprattutto non mollare mai le persone che ti amano.
Non rinunciare mai alla felicità, perché la vita è uno spettacolo incredibile».

Non so dirvi se sia veramente di papa Francesco, ma me l’ha inviata Sofia, la nostra fotografa ufficiale e questo basta per augurare buon compleanno.