Da dove cominciare?

 

Da dove cominciare? Direi dall’inizio, la sera dell’arrivo quando ci siamo alzati uno per uno presentandoci e mostrando una facciata più che formale che si sarebbe sgretolata a breve grazie a un gomitolo che ci lanciavamo l’un l’altro per chiederci le generalità.

Sono stati solo tre giorni ma sufficienti per soffermarci un attimo, riflettere, riavvicinarci a Lui, e, con il Suo aiuto, a noi stessi. Si, perché per guardarsi dentro non serve sempre partire, ritirarsi: a volte, basta cercare lo spirito giusto e un po’ di coraggio.

In questi giorni di riflessione e condivisione abbiamo cercato il nostro specchio interiore. Per quanto tempo riesci a guardarti allo specchio? Dieci secondi? Venti? E no, non quando ti prepari la mattina o per uscire o per farti un selfie, quando ti guardi per guardarti, ma in ascensore, riflesso da solo a solo. Qui inevitabilmente il nostro “io” più profondo tenta di uscire fuori, di inviarci dei segnali che ci spiazzano in appena tre, quattro piani!

In fondo non abbiamo remore a vedere la nostra immagine riflessa dopo che non abbiamo agito al meglio? O, viceversa, non ci soffermiamo un po’ di più a guardarci quando siamo fieri di noi? A volte è così difficile guardarsi riflessi, perché diciamola tutta, ognuno di noi ha quella parte un po’ scomoda di sé che vorrebbe ignorare o mettere a tacere. Non parlo di un naso storto, di quei chili di troppo, dei capelli mai al loro posto. No, parlo dei pensieri mai al loro posto, delle emozioni scomode che scalpitano per uscire come piccole crepe dalla nostra anima.

Abbiamo uno strano modo di badare a noi stessi, l’apparire, fisico e sociale, spesso sorpassa le nostre più vere ragioni d’essere. A volte siamo talmente concentrati a condividere foto, momenti, sui vari social così da lasciarli impressi ovunque tranne che dentro di noi. Ormai sembra sempre più difficile trovare qualcosa che ci faccia dimenticare di condividerla perché siamo troppo impegnati a viverla. Forse potremmo distogliere lo sguardo da questi schermi, da questi like, da questi profili e cominciare a guardarci l’un l’altro: chi meglio di un vero amico può aiutare a guardarci dentro? Il confronto con gli altrici permette di crescere e rendere quelle crepe dei veri e propri panorami di luce. Quante volte non cerchiamo un contatto con una persona perché abbiamo paura di essere in torto, di non essere capiti o di essere di troppo. Nulla di più sbagliato. Con chi ci vuol bene abbiamo la possibilità di condividere silenzi senza “commentarli”, di ricordarci qualcosa per un odore o una canzone e non perché ce lo suggerisca facebook, di essere connessi con uno sguardo e un sorriso, senza spunte blu.

Prima ancora di guardarci dentro, potremmo provare a lasciare emergere la parte più vera di noi che, a nostra insaputa, si porta dietro tutto: sbagli, esperienze, vita, tutti i passi che ci hanno portato fino a qui.

I miei passi mi hanno portato ieri a un ritiro, oggi a scrivere, domani verso i miei sogni ma voglio che non vadano solo verso di me, ma anche verso gli altri. Come adesso, mentre vi racconto uno spicchio di vita che tanti ragazzi hanno condiviso (per davvero, senza internet!). Per trovare la nostra luce nei momenti bui, il nostro panorama oltre le crepe, sono i veri amici e chi ci ama a poterci guidare. Perché come fanno luce nei momenti bui e ci ricordano quanto siamo speciali, ci possono aiutare anche a vedere dove non vogliamo vedere, a essere i nostri occhi dove noi abbiamo posto delle bende. Così quella situazione difficile, quei cambiamenti ignorati, quei nostri modi di essere un po’ scomodi, piano piano prendono forma dentro di noi… prima sfocati e poi sempre più nitidi. Sarà allora che l’amico che ci ha aperto gli occhi, ci terrà per mano e ci aiuterà a trovare la strada. La stessa persona che ci ha aiutato a levare le nostre bende, ci aiuterà a tracciare la rotta.

Ad aspettare ognuno c’è il suo panorama, ogni mezzo dell’amicizia è consentito per raggiungerlo purché accompagnato da lealtà, fiducia, coraggio. Non ci resta allora che cominciare, partire e poi ripartire ancora, ogni volta portando dietro quel bagaglio che sono le nostre esperienze. Come quando, finito il ritiro, ci siamo salutati e abbiamo ripreso le nostre strade. Forse erano sempre le stesse che ci portavano a casa ma questa volta con un po’ più di luce dentro, sempre più vicini al nostro panorama con la certezza che ciò che è veramente condiviso non si “archivia” mai.

Valentina – Roma

Amore a 18 anni

L’amore è sempre stato uno, se non il più, comune dei sentimenti che ‘colpiscono’ l’uomo.
Tale sentimento è cambiato con il passare degli anni. dall’amore ai tempi di Dante, per molti aspetti ‘spirituale’, a quello dei tempi nostri, più di contatto ‘fisico’.
Nella nostra era di comunicazione di massa e dei social l’amore è sicuramente cambiato rispetto a 50 anni fa.
Attraverso i vari Facebook o altri, questo sentimento si è per certi aspetti ‘semplificato’. Infatti basta ‘chattare’ con la persona interessata, senza aver bisogno di vederla fisicamente, per cercare di iniziare una relazione. Questa opportunità seppure ha reso l’amarsi più semplice rispetto a molti anni fa, lo rende al tempo stesso più difficile.
Se due ragazzi si sono messaggiati per un lungo periodo, diventa arduo poi avere un contatto diretto. Attraverso i social una persona può apparire all’interessato/a in maniera diversa rispetto a quello che è realmente, andando così a complicare un loro futuro incontro. Questo però non vuol dire che valga per ogni persona. Molti ragazzi, infatti, sono fidanzati da molti anni e amano il proprio/la propria partner.
A 18 anni, quindi, è possibile innamorarsi di una persona.
L’amore a questa età, però, comporta anche delle complicazioni. I ragazzi infatti, sono nel pieno della loro gioventù, con la voglia di stare la maggior parte del proprio tempo con gli amici, rendendo difficile mantenere un rapporto stabile con un’altra persona.
Anche se per alcuni aspetti l’amore è cambiato, alcune cose sono rimaste com’erano. Un esempio è la considerazione sull’amore tra Giulietta e Romeo, visto come amore di riferimento, soprattutto tra le ragazze. Questo amore ‘mitico’ però difficilmente può inserirsi nella nostra epoca, almeno nei contesti sociali più sviluppati. Ormai non ci sono più ‘lotte’ tra famiglie, come tra i Montecchi e i Capuleti e c’è sicuramente molta più libertà nello scegliere il proprio compagno/a. Nelle zone più arretrate, o meno sviluppate culturalmente, è ancora possibile vedere una cosa simile.
Un altro esempio problematico può essere dato dalle differenti origini razziali. Se, per esempio, un nigeriano emigrato in Italia si fidanza con una di Milano, che proviene da una famiglia legata ancora alle antiche tradizioni, è possibile che possa riscontrare in vari problemi, prima di essere accettato dalla famiglia di lei.
Ma non esiste solo questo tipo di ‘amore’. Infatti con questa parola si intende anche l’amore per un proprio amico, e quindi l’amicizia, o per un proprio familiare, animale ecc. Questo anche è un sentimento fortissimo se il legame tra questi è saldo e sincero.
L’amore, inteso con tutte le sue sfaccettature, è presente da sempre nell’uomo (e … negli animali).

Alessandro Bevilacqua, Napoli

Il dramma della Palme a Napoli

Un dramma, quello che abbiamo appena ascoltato in questa domenica delle Palme, all’inizio di questa settimana santa, la settimana più importante dell’anno, è un dramma.
L’evangelista Matteo ci racconta il dramma di un Dio che diversamente da tutte le altre manifestazioni divine non ha ricusato non solo di farsi uomo in Maria affidandosi a Giuseppe; di condividere la propria vita con 12 scapestrati; addirittura lasciarsi morire così come conosciamo. Un dramma che lascia perplessi non per i patimenti ma perché questo uomo che poteva tutto ha abbandonato tutto e da tutti è stato abbandonato. Può un Dio o un eroe lasciarsi finire così!
E qui comincia anche l’altro dramma, quello dei discepoli, di Pietro in particolare, che non sanno capire questo lasciarsi umiliare del loro leader, ne restano scandalizzati. Una reazione talmente forte che li porterà al dramma del rinnegamento della sua amicizia, della sua comunione, sino a scappare, ad abbandonarlo sulla strada della Croce. Un dramma che le donne, solo le donne sapranno seguire, condividere, sostenere. Forse perché solo la donna capisce il valore profondo della vita. Almeno sino a ieri, oggi chissà!
In questo dramma siamo chiamati in causa anche noi qui presenti. Forse con un poco più di consapevolezza, poiché viviamo dopo la Pasqua, poiché leggiamo questa vicenda dopo la Pasqua.
Ma noi avremmo agito diversamente?
In questo dramma c’è tutto il dramma della nostra storia, del dolore degli innocenti, della superbia dei potenti, siano essi terroristi o russi o americani (preghiamo ancora per la Siria). Si legge che Erode e Pilato divennero amici facendo del male a Gesù! Quando diverranno nemici Trump e Putin per fare il bene della Siria e non solo?
Ma noi che centriamo con questo dramma, quali scandali o responsabilità possiamo denunciare?
A Napoli accade in questi giorni che tanti Fuffi, Bob, Cochi e altri quadrupedi di compagnia siano usciti dal dramma di essere senza diritti, senza possibilità di avere spazi propri e libertà di movimento in città. Infatti il governo locale ha istituito il “garante degli amici dell’uomo”: ce n’era proprio bisogno.
Peccato che lo stesso governo, in sintonia con la Regione Campania, abbia tagliato i fondi per il sostegno di tanti bambini e giovani disabili che non possono più permettersi di andare a scuola e non per colpa di genitori inetti o menefreghisti!
Ecco il dramma, il dramma della nostra città e noi non ci scandalizziamo!
Sapete perché Gesù ha scelto i piccoli, gli ultimi, i poveri per rappresentare se stesso? Perché sono gli unici che possono profondamente comprendere il dramma della sua passione e morte, comprendere senza scandalizzarsi o fuggire.
Chiediamo a questa Settimana Santa di aiutarci a penetrare il dramma di tanti Gesù presenti nella nostra città per comprendere meglio il dramma della passione di Cristo e imparare ad accompagnarli nella loro Via Crucis; e arrivare così alla gioia della risurrezione anche per questi nostri amici oggi trafitti da tanta ipocrisia.

pJgiannic

Carnaval – uma manifestação popular

Não é segredo para ninguém que o carnaval brasileiro é, além de uma festa popular no Brasil, um enorme espetáculo, considerado por alguns como o maior da Terra. Originário da antiga festa religiosa “carne vale”, em que se celebrava o adeus à carne antes que a Quaresma tivesse início (e começasse o período de jejum e abstinência), hoje o evento ganhou grandes proporções como festa secular.
No Brasil, o carnaval apresenta os traços culturais regionais somados às antigas tradições cristã. Em grande parte do nordeste o axé e o frevo tomam conta do momento, exportando para os quatro cantos do planeta seus artistas e atraindo fãs de todo lugar. No norte do país, acrescenta-se à festa o folclore amazonense dando ao evento a presença dos bois de Parintins em grandes desfiles. No centro-oeste a festa apresenta grande influência sertaneja; e no sul e sudeste existe a predominância de grandes desfiles em uma enorme passarela, compostos de carros alegóricos e muitas alas fantasiadas, além dos clássicos blocos de rua que arrastam multidões.
Ainda que as festas locais não agradem a todos, especialmente do ponto de vista religioso, pois por vezes toma proporções desnecessárias de promiscuidade e afins, não se pode negar que a ocasião oferece uma verdadeira e democrática variedade de oportunidades. No Rio de Janeiro, em particular, existe espaço para todos: há aqueles que aproveitam para comemorar nos blocos de rua e grandes bailes, seguindo trios elétricos pelas ruas da cidade; aqueles que preferem aproveitar o feriado por ele gerado para descansar e fazer uma pausa na correria do dia-a-dia; aqueles que se valem dos inúmeros retiros oferecidos na época pelas Igrejas, dioceses e comunidades para um maior contato com Deus; etc. Fazendo desta festa uma verdadeira manifestação artística e popular, por ser feita pelo povo e para o povo.

Ana Clara Fontenelle e Igor de França, Rio de Janeiro Parr. N.S de Loreto

Non è un segreto per nessuno che il carnevale brasiliano è, oltre una festa popolare in Brasile, un enorme spettacolo, considerato per alcuni come il più grande della Terra, del pianeta. Originaria festa religiosa “carnevale”, dove si celebrava l’addio alla carne prima che iniziasse la Quaresima (e iniziasse il periodo di digiuno e astinenza), oggi l’evento ha aumentato le sue proporzioni come festa secolare.
In Brasile, il carnevale presenta i tratti culturali regionale uniti alle antiche tradizioni cristiane.
In gran parte del Nord Este l’axe e il frevo (due tipiche danze locali) prendono in mano la situazione, esportando verso i quattro angoli del pianeta i suoi artisti e attraendo i fan da tutte le parti. Nel Nord del paese, si aggiunge alla festa il folclore dell’Amazzonia donando all’evento la presenza dei buoi di Parintins in grandi sfilate. Nel Centro Ovest la festa presenta una grande influenza dell’entroterra; e nel Sud e Sud Est vi è un predominio di grandi sfilate in un’enorme passerella, composta da carri allegorici ali di gente molto piene di fantasia; una passerella capace di bloccare la strada e trascinare le moltitudini.
Anche se le feste locali non sono gradite da tutti, soprattutto dal punto di vista religioso, anche perché a volte assumono situazioni non necessarie di promiscuità, non si può negare che l’occasione del Carnevale offre una vera e democratica varietà di opportunità per tutti.
A Rio de Janeiro, in particolare, c’è posto per tutti: ci sono quelli che approfittano di celebrare grandi incontri di strada e grandi balli, seguendo dei trios eletrico per le strade della città; quelli che preferiscono godersi il giorno di festa per riposare e fare una pausa dalla corsa di ogni giorno; quelli che godono dei numerosi ritiri spirituali offerti dalle chiese, diocesi e comunità per un maggiore contatto con Dio.
Tutto ciò fa di questa festa una vera e propria manifestazione artistica e popolare, perché fatta dal popolo e per il popolo.

La scelta di Sofia?

Spulciando il web trovo un’intervista del giornalista Aldo Cazzullo a una sconosciuta (almeno a me) Sofia Viscardi. Lei non ha ancora 19 anni e ha un milione e mezzo di follower su Instagram, 500 mila su Twitter, 200 mila amici su Facebook. (http://www.corriere.it/italiani//notizie/sofia-viscardi-vi-spiego-chi-sono-vostri-figli-a8845916-eb26-11e6-ad6d-d4b358125f7a.shtml#commentFormAnchor).

Conoscendo Cazzullo, interessato a tutto ciò che riguarda i giovani mi sono precipitato nella lettura e ne sono uscito … un poco tiepido!

Perché investe in questo modo il suo tempo? Veramente i nostri giovani vivono sulla scia di tale Sofia?

Perciò ho sollecitato amici giovani, meno giovani e genitori sull’articolo.

L’intervista piace e non piace anche se ci si chiede chi sia poi questa così famosa Sofia: basta essere una youtuber per diventare famosa, interessante?

Sofia sembrerebbe interessare come amica almeno per la carica positiva che sprigiona, ma non è il tipo di amica che si vorrebbe avere per forza.

Sicuramente chi è famoso potrebbe diventare un idolo, ma nessuno dei nostri intervistati si scambierebbe con lei. In particolar modo A. afferma che vivere la vita di altri è un po’ un rifiuto della propria, un’esigenza di scappare dai problemi personali, andando poi a rifugiarsi nella vita di chi questi problemi non li ha.

Sofia appare una ragazza grintosa ma ognuno è contento della propria grinta, anzi C. non trova Sofia particolarmente grintosa; il suo essere frizzante appare vagamente superficiale e troppo pieno di sé!

C’è poi il rapporto con i genitori nel quale tutti concordano di avere genitori capaci di sollecitare obiettivi adeguati al proprio figlio, spronati a raggiungerli.

E se Sofia fosse nostra figlia? Gli intervistati su questo sono abbastanza unanimi, non vorrebbero una figlia così, tantomeno così social sin dalla tenera età; se poi dovessero emergere delle inclinazioni particolari allora si bisogno appoggiarle. M. in special modo aggiunge: francamente non le avrei lasciato in partenza la libertà di utilizzare cellulari e web in tenera età, quindi probabilmente non avrei favorito questa inclinazione… se si fosse presentata dopo questa sua capacità o interesse avrei cercato di capirla.

Più approfondito e comprensibile la riflessione sulla scuola che seppure ha delle regole che vanno seguite dovrebbe essere più elastica nel comprendere i valori degli alunni, ma come potrebbe seguire tutti? Possibile che nessuna scuola comprenda il talento di Sofia?

Se invece gradite una risposta secca e unanime allora è quella sul sesso: richiede dei sentimenti, dei legami, non delle occasionalità, in questo Sofia ha ragione!

I social, i social, i social… strumenti così imposti, così diventati necessari, così incapaci ma anche unici a volte nel raccontare chi sei. Veramente i social raccontano la verità di te? A. attraverso i sociali noi possiamo quasi ‘trasformarci’. Ad esempio un ragazzino timido non lo fa vedere sui social. Tu diventi tutto nel social, incalza M., ma la realtà è virtuale quindi nei fatti nella vista reale sei niente. Questo è quello che penso. Sofia sta facendo molte cose ma chi è veramente? Mentre per L. i social mostrano un’idealizzazione di noi stessi. Infine, R. si chiede se siamo realmente siamo capaci di mantenere una nostra autonomia, di saper gestire noi questi strumenti o ci facciamo gestire?

Forse il sottile confine di questa intervista è sollecitarci a capire come e cosa comunichiamo o, per restare nel tema di questo numero: quale e quanto tempo dedichiamo a raccontarci e raccontare chi siamo e come siamo?

Vi farò sapere le reazioni di Cazzullo.

pJgiannic

Anoressia della compassione

Oggi vorrei parlarvi di buoni propositi.

Scrivo questo articolo proprio ora perché Gennaio è per eccellenza il mese in cui vengono stilate le liste dei propositi per l’anno nuovo; a Febbraio di ogni anno le stesse liste finiscono nel cestino; Marzo è il mese perfetto per dimenticare tutti gli elenchi e i decaloghi e ricominciare da capo, stavolta con un solo punto nell’elenco: un unico buon proposito.

Se l’anno scorso abbiamo lavorato sul coltivare le nostre emozioni, quest’anno l’obiettivo è andare oltre e smettere di limitarci a sentirci dei buoni cristiani. Quando proviamo tristezza per una qualche situazione, l’empatia che ne deriva ci fa sentire in pace con la coscienza ma non dovrebbe bastarci. «Sentiamo naturalmente un senso di malessere quando entriamo in contatto con chi soffre attorno a noi, ma per sentire fino al punto di agire, di muoverci, di andare in loro aiuto c’è bisogno di qualcosa di più della natura. Provare disagio per una vittima che incontriamo lungo la strada è naturale, prendersene cura si chiama cultura. L’empatia è naturale, la compassione no.» (L. Bruni, Anoressia della compassione).

Le preghiere e i buoni sentimenti sono condizione necessaria ma non sufficiente per creare un vero cambiamento, non saranno mai in grado di arrivare lontano quanto la nostra volontà di agire.

Un esempio pratico: alcune suore di un istituto di Napoli desidererebbero avere un gioco per poter far divertire i bambini ma non hanno la possibilità di acquistarlo, la situazione ci rattrista ma siamo decisi a non fermarci al “sentire” se possiamo fare qualcosa per aiutarli concretamente.

Nasce così l’idea dell’“aperitivo solidale”, i ragazzi di Lodi si sono riuniti con l’obiettivo di raccogliere fondi per l’acquisto di un gioco per i bambini dell’Istituto Sant’Eligio a Napoli. L’iniziativa, come vedete nella foto, ha avuto successo, e ci ha aiutato ad aprire gli occhi su ciò che significa passare da empatia a compassione. È vero, esistono situazioni al di fuori del nostro controllo ma questa consapevolezza non deve impedirci di provare, né tantomeno di agire per aiutare le piccole realtà che invece possiamo raggiungere. Non posso risolvere la situazione dei bambini massacrati ad Aleppo, ma è una buona ragione per impedirmi di portare un sorriso ad altri?

Quest’anno l’unico buon proposito che dovremmo avere è ricordarci che nella strada della compassione, l’errore più grande che possiamo commettere è quello di non fare nulla, solamente perché pensiamo di poter fare troppo poco.

 

Buon prosieguo d’anno a tutti!

 

Greta Chioda

Largest youth population all over the world

To the brilliance of Altar: A Call to priesthood among the Indian youth.

By Benson and Johness, Bibin and Sebin, youth Barnabite seminariest in Bengalure – India, some reflection about youth in this special country.

The term India has the Greek root ‘indos’ which recalls the most important river Sindhu / Indus of the subcontinent, the 7th largest nation. Later from the medieval period, the term Hindustan came into prevalence. India takes pride as one of the earliest histories, civilizations and spiritual traditions who gave shelter to the refugees and the imperial powers from Greeks to the English. Indians are Hindus by culture, convivial by nature, diverse in faith and belief, opulent in traditions, rich in linguistic diversity but unity among all and eulogise “vasudhaiva kudumbakam.” (Benson and Johness)

With this beauty of embracing ‘world as one family’ we must learn the veracity of youth in India. As UN report states, India acquires the largest youth population all over the world, even though India is less populated than China. The young are the future, for they are creative innovators, leaders and builders of India, and she always depends upon her youth for a radical change. The whole world looks at Indian youth as a source and culmination of technical brightness, constructive manpower, but misconceived that Indian youth’s talents and abilities can be bought at low costs for the great future of the world rest. The main set back of Indian youth is the optimistic attitude towards situations, politics, religion and affluent in unity and spirit amidst of diverse culture and ethnic aptitude. Indian youth have the power to lift our country from a developing nation to a developed nation. (Bibin k. Mathew)

“Truth is in thy heart. Truth lies in you, in your heart”- St. Augustine of Hippo. This same truth was haunted by M.K. Gandhi, the father of nation (India) to be successful and faithful to his mission. The technological outburst made India a guinea pig of Technopoly, breeding cyborgs, and netizens year after year. Amidst of these igeneration mania, as well as a paradigm shift from information to me-formation the land of sages and seers witnessed the presence of Jesus and heeded to his call as the labourers of his field- plentiful of harvest. The number of ordinations to priesthood that only conferred in the eastern church of Syro- Malabar was around 358 and many more in the Latin Dioceses in 2016. Amidst of the heaviness of gadgets and gadget mania Indian youth equate themselves with the desire of his holiness pope Francis that “I wish to have saints who use internet, saints who use mobile phones and latest applications, but sin”. Indian youth especially catholic youth are pretty sure about the necessity of God in their lives amidst of all possessions and possessiveness lured by the world albeit of new historicism. The religious education and training they acquired can generate God fear and commitment to the society therefore saving their souls by saving other’s for Christ. The Indian youth witnessed God experience in others saying “Aham Brahmasmi” (God resides in me) and “Tatwamasi” (thou art that). (Sebin Varghese)

Europa 60

Troppo importante l’anniversario di domani 25 marzo per non scriverne.

60 della firma dei Trattati di Roma, trattati che hanno sancito la fine di divisioni e guerre secolari all’interno del “vecchio” continente e un’espansione di non poco conto seppure non manchino, oggi, problemi non irrilevanti.
In questi giorni molto si è scritto riguardo questo anniversario e i limiti e le prospettive della cerimonia di domani.
L’idea originale dei padri fondatori, pace e solidarietà, non ha esaurito il suo corso, forse si è esaurita la capacità di lavorare insieme causa i mille egoismi ai più diversi livelli dell’Europa.
Ognuno, al proprio livello, economico, sociale, nazionale, culturale, politico, locale sta soffrendo di un egoismo, di un sentirsi l’unico ad avere dei diritti che invece di far progredire le intuizioni fondative le ha quasi del tutto bloccate. L’egoismo chiude ogni persona o gruppo in «un cerchio ristretto e soffocante e che non consente di superare la limitatezza dei propri pensieri e “guardare oltre”».
L’egoismo non permette di considerare il bisogno di continuare a sviluppare la centralità dell’uomo, della persona messa alla base dei Trattati, la solidarietà e la pace, conseguenze logiche di questa centralità.
L’Europa come Unione ha un senso di essere se pensiamo alla sua storia romana, cristiana e carolingia; ma ha un senso di essere se consideriamo lo svilupparsi di popoli ed economie emergenti nel mondo sempre più ricche e forti che avranno buon gioco di fronte a un’Europa di tante piccole nazioni.
L’Europa come progetto di Unione non ha finito il suo corso se le persone politiche prima di tutto e comuni non cessano di far riferimento ai fondamenti per costruire il futuro. Certo qui l’azione politica diventa necessaria e imprescindibile, ma deve essere un’azione politica capace di guardare oltre, oltre i vari mal di pancia locali, non per ignorarli ma per affrontarli nel più ampio contesto del corpo intero.
Non so ancora se domani tutti i 27 paesi firmeranno il rinnovato trattato di Roma, forse la Polonia si defilerà se non otterrà quanto richiesto. A un compromesso si dovrà arrivare, mi auguro che non sia un compromesso verso il basso ma anche se lo fosse dipenderà poi dalle diverse parti farlo diventare un trampolino di lancio per un rilancio di questa nostra Unione.
Un dato è certo da sviluppare qualunque sarà l’esito della cerimonia di domani.
Se nella storia europea libertà e uguaglianza sono stati già sviluppati, con esiti purtroppo anche drammatici dopo le rivoluzioni francese e sovietica, manca ancora da sviluppare la fraternità che poi è un altro modo di dire quella solidarietà da cui sono partiti i trattati del 1957 che domani vogliamo non solo ricordare ma anche rinnovare.
GMS

Tentazioni

I^ domenica di Quaresima 2017 / A

È cominciata la Quaresima, il tempo in cui Dio chiede di entrare più profondamente in noi, per rendere più santa la nostra vita.

Facciamo attenzione: non siamo noi a fare la Quaresima, è lo Spirito santo che bussa con più forza alla porta della nostra vita, la coscienza, per accompagnarci a penetrare il mistero della Pasqua: passione, morte, sepoltura, risurrezione di nostro Signore Gesù.

Facciamo attenzione: non cadiamo nella tentazione di sentirci bravi perché faremo delle cose in questa Quaresima: più preghiera, più digiuno, più elemosina.

Facciamo invece attenzione a entrare nella dinamica dello Spirito santo, l’anima stessa di Dio, l’amore del Padre e del Figlio, per crescere nell’amicizia con Gesù, per annunciare al mondo che il peccato dell’egoismo non prevarrà.

Le tre letture di oggi ci annunciano una realtà molto semplice ma spesso dimenticata o nascosta dalla nostra mentalità efficientista e egocentrata, ci annunciano che Dio è sempre con l’uomo.

Nella prima lettura Dio è con l’uomo, ma l’uomo e la donna vogliono fare da sé, non vogliono ascoltare Dio. Non è Dio a permettere il male, è l’uomo che vuole dividersi da Dio, dalla sua parola.

Nel Vangelo lo Spirito santo è con Gesù, l’uomo nuovo ma Gesù non farà da sé, si lascia accompagnare dallo Spirito santo. Non è Dio a permettere il male e Gesù non si lascia dividere da Dio per colpa del demonio.

Diavolo significa colui che divide! Il confine tra Dio e il Diavolo, tra il bene e il male è molto sottile, il demonio lo sa è vuole dividere questo confine tentando Gesù, l’uomo nuovo, nei gangli vitali di ogni uomo: la fame, il farsi di Dio, il potere sugli uomini.

Digiunare, pregare, fare elemosina (le tre parole chiave della Quaresima) saranno validi se mettono in discussione le nostre fami di pane, di egocentrismo, di potere.

L’uomo, quello serio, vero, è consapevole delle proprie fami anche delle fami negative.

L’uomo, quello serio, sa che è difficile combattere le proprie fami:

non è facile consumare quanto basta, evitando gli sprechi;

non è facile accogliere se stesso, non pensare di essere Dio;

non è facile rispettare l’altro, le cose del mondo, perché dominare è più facile.

Il cristiano di questo millennio sa che il male si può combattere, però se si parte da sé, però se ci si lascia avvolgere dalla parola di Dio.

Adamo ed Eva non hanno ascoltato la parola di Dio e sono caduti; Gesù ha ascoltato la parola di Dio ed è rimasto in piedi; s. Paolo scrive della forza di questa parola ascoltata e detta per noi: questa Parola è la nostra salvezza.

Leggere e ascoltare la parola di Dio ci aiuta a riconoscere le nostre debolezze e le nostre forze per arginare le prime e sostenere le secondo. L’ascolto della parola di Dio ci permette di affrontare la tentazione peggiore: sentirci incapaci, indegni di Dio oppure onnipotenti!

Stiamo vivendo ancora momenti cupi dal punto di vista politico, legale, sociale, ecologico: impariamo a digiunare da ciò che è inutile o cattivo per far emergere il bene;

impariamo a pregare di più per diventare più amici di Dio e potremo illuminare gli altri;
impariamo ad amare di più, non solo con dei soldi, ma investendo in cultura del bene e i cieli e la terra nuovi cresceranno di più.

La Quaresima è un tempo di speranza.

Lo Spirito santo non è stato dato solo per Gesù, ma per tutti noi credenti, per combattere il male, questo è la nostra speranza.

Come Gesù anche noi dobbiamo scegliere:

cedere alla tentazione di non poter fare nulla o dell’onnipotenza o affrontare la tentazione, forti dell’azione dello Spirito santo e della parola di Dio.

Il fallimento degli aiuti umanitari

Nonostante tutti gli aiuti e risorse messe in atto in Africa questa detiene ancora tutti i primati negativi. Perché? Dov’è l’errore che come un bias, errore sistematico, in un analisi statistica altera completamente il risultato?

Tutti sono d’accordo nell’affermare che il modello assistenziale non può rappresentare la strada giusta per liberare questi popoli dal loro stato di indigenza. D’altro canto dobbiamo fare attenzione a non cascare nello scontato del “prevenire è meglio che curare” oppure del “a chi ti chiede un pesce, insegna a pescare”, la famosa acquisizione del know-how.

La maggior parte delle dichiarazioni rilasciate da enti che si occupano dei PVS (paesi in via di sviluppo) si basano su una logica del genere, trasferire conoscenza e gli strumenti adatti. Però anche le strategie educative hanno avuto uno scarso risultato e un basso impatto sulla popolazione dei PVS.

Perché questo insuccesso?

Intanto possiamo sottolineare la mancanza di idee e soluzioni innovative: ci si concentra sempre e solo su assistenza sanitaria, sviluppo agricolo e industriale. Proviamo invece a sostituire l’aggettivo “scontato” con “svuotato”, infatti il nostro bias sembra essere legato a un vuoto concettuale, a una mancanza di contenuto antropologico, che possiamo riscontrare anche nel come la realtà viene letta, in base a degli indicatori di salute, benessere e sviluppo, con lo scopo di rendere la realtà misurabile, ma questo approccio è ben lontano dallo scoprire vere soluzioni al problema.

La strada da intraprendere è quella della riscoperta di senso, rispetto ad un numero o a una statistica, al di là della causa materialistica in sé. Si rende necessario trasmettere alle popolazioni dei PVS dei valori antropologici che indichino il perché e per chi migliorare, come scrive Vicktor Frankl, prigioniero nei campi di concentramento: «si può anche vivere senza saperne il perché, ma non si potrà mai vivere senza sapere per chi».

Fino a oggi negli aiuti umanitari a prevalso il “come”. Ma lo sviluppo in quanto fenomeno umano è immediatamente, un fenomeno morale: noi occidentali soffriamo di un vuoto antropologico, e di conseguenza non riusciamo a trasmettere a queste popolazioni un modello autorevole di uomo e di umanità. Infatti anche nei programmi per il personale dei PVS è rarissimo trovare corsi che si concentrino sull’importanza della promozione umana, perché e per chi apprendere?

Come in un organismo, quando una componente è deficitaria altre vanno incontro ad iperplasia. In questo caso vediamo come la ricerca biomedica ha fatto enormi passi avanti, la salute, è uno dei settori prominenti sul mercato. Ma nonostante ciò le nuove tecnologie, farmaci e macchinari più all’avanguardia rimangono a disposizione di un élite, e così è come avere un giardino dell’Eden chiuso, accessibile a pochi mentre intorno la maggior parte della popolazione si nutre di erbacce. La dichiarazione di Alma ATA (1978) lanciava come slogan “salute per tutti entro il 2000”, Primary Health Care, ovviamente questo obiettivo che sembrava già allora irraggiungibile non è stato raggiunto, ma anzi sembriamo andare verso l’esatto opposto. Così la saluta diventa il primo paradigma dell’ingiustizia sociale. C’è comunque da dire che l’UE ha intrapreso una strategia di lotta con le cosiddette Poverty Related Deseases (PRDs: AIDS, tubercolosi, malaria) cercando di finanziare economicamente le ricerche su metodi di guarigione per quelle malattie più diffuse dei PVS. Per affrontare il problema della salute nei PVS si è cercato soprattutto di trasferire conoscenze e competenze alla popolazione locale, cercando quindi oltre ad un modo per risolvere il problema salute, anche un modo per risolvere il gap professionalizzante esistente.

Ma, come già sottolineato, ci sono chiari segni della deriva puramente tecnicistica del trasferimento di tali conoscenze, ritornando sempre all’annosa questione: “perché e per chi mi do da fare?”. Dunque possiamo concludere che il primo passo non può essere soltanto operativo. Bisogna concentrarsi sul fine, e sulla ricerca di uno scopo che sta dopotutto dietro ad ogni grande scoperta e sviluppo di un popolo. L’etica può aiutarci anche nel direzionare gli investimenti economici, il problema è che molto spesso il dove orientare gli sforzi non è una decisione che può essere presa liberamente ma segue delle logiche di mercato, molto lontana dal porsi obiettivi umanitari. Per esempio è inutile spendere innumerevoli somme per un centro oncologico quando ci sono molti bambini che muoiono per mal nutrizione.

Non è tanto la formazione tecnologica del personale assegnato ai PVS quanto la loro formazione umanitaria che conta. Se scoppia un epidemia è inutile che un medico se ne stia nel suo ospedale con tutte le sue attrezzature e farmaci a disposizione aspettando che la gente vada da lui e non lui da loro. La Primary Health Care di cui si occupa la sanità pubblica si fa andando tra la gente e analizzando le necessità e i rischi che un certo popolo corre. Per quanto riguarda la formazione etica è importante che chi opera nel settore biomedico venga istruita da un punto di vista etico poiché è di importanza fondamentale per uno sviluppo corretto e sano dell’umanità.

Chiara Lagravinese – Roma