Dio a modo mio

Pubblichiamo volentieri un intervento di Roberto Lagi, Laico di san Paolo, sui giovani con l’augurio possa suscitare qualche discussione.

GIOVANI A MODO MIO. La transizione difficile

In questi giorni ho letto un libro pubblicato da Vita e Pensiero che contiene i risultati di una ricerca dell’Università Cattolica di Milano: Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia (P. Bignardi, R. Bichi e altri a.c., 2015). Vorrei sintetizzare alcuni argomenti emersi e riassunti dall’autrice nelle conclusioni (pp. 173).

  1. L’attuale generazione dei giovani di oggi dal punto di vista religioso, è al confine tra due generazioni: quella di un passato che non c’è più e di un futuro che non c’è ancora… Sono una “generazione di mezzo”, potremmo anche definirla “interstiziale”, collocati storicamente tra un modello culturale tipico del passato, tradizionale-istituzionale, a cui sono stati, dolenti o nolenti, socializzati nella maggioranza dei casi, e un modello culturale presente, emergente e de-istituzionalizzato, che si sta diffondendo proprio in questi anni. Quest’ultimo, concedendo maggiore libertà all’individuo e rifiutando di esercitare la normatività tipica del modello tradizionale, apre la strada tra i giovani a nuove modalità di vivere la fede, più personali, meno “convenzionali”, seppur “autentiche e consapevoli”. Il loro è il travaglio di chi soffre il venir meno di un modello percepito come inadeguato e insoddisfacente e per questo respinto, e vorrebbe trovare un modo nuovo di vivere il rapporto con Dio, la ricerca di un’autenticità di vita, la strada verso la speranza e la felicità. Conoscono le forme della religiosità del passato, istituzionali, tradizionali, definite: le hanno ricevute dal catechismo, dall’oratorio, in famiglia, dai nonni. Ma non sanno come quelle possano rispondere alle domande che essi portano dentro di sé, esigenti e inedite; le tracce di un modo diverso di vivere la fede si fanno strada dentro di loro a fatica. Percorso difficile e rischioso, anche perché spesso vissuto in solitudine, talvolta in compagnia di adulti che vorrebbero continuare ad essere i maestri per un tempo che non c’è più.
  2. Da queste premesse una serie di ulteriori considerazioni. Intanto la confusione fra la fede e l’etica: spesso essere cristiani coincide con un’etica identificata con i dieci comandamenti o, per alcuni, con il detto “ama il prossimo tuo come te stesso”.
  3. I giovani vedono la Chiesa cattolica come Istituzione, raramente hanno un ricordo gioioso della loro iniziazione cristiana: La formazione ricevuta da bambini ha generato in loro un’idea di vita cristiana piena di obblighi e divieti, di impegni che hanno poco a vedere con la voglia di vivere e con le domande tipiche della loro età.
  4. Inoltre: Questi giovani hanno acquisito un’idea piuttosto esteriore di vita cristiana, con poca anima e soprattutto priva della percezione che l’essere cristiani ha a che fare con Gesù Cristo e con il Vangelo.
  5. Da ciò deriva che i giovani hanno una visione della vita cristiana rigida, definitiva e senza tempo, dentro la quale non trovano posto le domande personali o la sensibilità che soggettivamente vorrebbe reinterpretare il senso della fede. Da questo modo di credere essi prendono le distanze, abitando lo spazio dell’esperienza cristiana in modo soggettivo e individualistico, quello che il titolo della ricerca definisce “Dio a modo mio”.
  6. Non che ai giovani manchi un anelito di infinito, un’apertura al divino, il problema è che: a un modello pastorale tutto orientato a comunicare una visione della vita o a proporre una serie di impegni andrebbe oggi sostituito un modello impostato sul dialogo: un dialogo vero, che è scambio, ascolto profondo, personalizzazione dell’annuncio e accompagnamento a collocare le ragioni della fede dentro percorsi personali, originali e irripetibili, cosa che purtroppo difficilmente si realizza.

Concluderei riportando ancora una frase della Bignardi: Educare i giovani alla fede significa consegnare loro la fede così come noi adulti l’abbiamo vissuta? O piuttosto mettere nel loro cuore l’essenziale, insieme ad una passione che dia il desiderio e la volontà di reinterpretarlo per il loro tempo, nel loro tempo? …. Vi è un intreccio molto stretto tra le generazioni: i più giovani imparano dalla testimonianza degli adulti che cosa significhi credere; ma il loro apprendimento non è passivo. Mai come oggi esso è critico, attento a discernere, ad accogliere ma anche a rifiutare. In questo i giovani, mostrandoci le inautenticità dei nostri percorsi, ci costringono ad aprirci alla novità e al futuro. Resistere a questa esigenza avrà come esito non solo lo smarrimento delle nuove generazioni, ma l’inaridimento della generazione adulta. Che resterà pateticamente superata, gente di altri tempi, testimoni di un cristianesimo che non sa cercare e intuire i segni del tempo e pertanto non riesce a stare dentro la vita.

In Atti 1,8 il Risorto invia i discepoli dicendo: avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra. Testimone non è, in questo contesto, colui che si limita a parlare di ciò che è accaduto, ma chi testimonia con la propria vita l’autenticità di ciò che dice e questo in ogni tempo e luogo.

Sapremo essere anche oggi dei veri testimoni del Risorto soprattutto per i giovani?

Roberto Lagi, Fiesole

Un perfetto sconosciuto non per i nostri giovani

Un perfetto sconosciuto se non addirittura «un prigioniero di lusso»: ecco cos’è lo Spirito Santo per i molti cristiani ignari che è lui a «muovere la Chiesa», portandoci a Gesù, e a renderci «reali» e «non virtuali». Queste le parole di papa Francesco in questi giorni che ci preparano alla festa di Pentecoste.

Non così però per i tanti Giovani Barnabiti sparsi per le nostre comunità in Italia. Infatti, proseguono gli incontri di preghiera e riflessione in preparazione alla festa di Pentecoste 2016. Dopo Milano, Roma, San Felice oggi tocca ai giovani volontari del Denza di Napoli.

Pur restando nelle proprie diverse città tutti i nostri giovani stanno meditando sull’ “impresa” che lo Spirito santo ha cominciato in loro grazie al carisma di S. Antonio M. Zaccaria (L VI). C’è un’impresa della vita che ogni uomo è chiamato a scoprire e vivere da solo o in compagnia dello Spirito santo.

Lo Spirito santo non ci lascia soli, evidenza il nostro SAMZ; lo Spirito santo stimola la nostra memoria perché possiamo continuare a costruire la storia in cui siamo stati posti; lo Spirito santo invita ognuno di noi a creare il domani con la nostra creatività e libertà.

Illuminati da queste indicazioni i nostri Giovani Barnabiti stanno “affocando” le proprie città anche con l’impegno di invocare ogni giorno «Vieni Spirito santo e soffia su di noi!», per una rinnovata effusione che sarà capace di riformare l’impresa cominciata dal nostro SAMZ.

Grazie cari giovani

Giannicola M.

Il cielo nella coscienza

Viviamo oggi una delle feste cristiane più particolari e delicate da comprendere perché riassume tutto il movimento della proposta di Dio per la nostra salvezza: la festa dell’Ascensione di Gesù.

Infatti, la crocefissione ha ancora un che di umano e comprensibile; la resurrezione ci costa un po’ più di fatica, ma in un certo senso ci fa anche “piacere” credere in un Dio che fa qualche cosa di differente. Ma l’Ascensione va completamente al di là del bisogno di concretezza che sempre abbiamo, che contrasta con la nostra idea dell’al di là, del dopo la morte. Dobbiamo invece convincerci che questo è il mistero riassuntivo di tutta la vita di Gesù.

Volere capire tutto è una pretesa di onnipotenza che toglie a Dio la possibilità di essere Dio: sapere che non possiamo comprendere tutto ci aiuta a voler camminare ancora, ci aiuta a voler cercare ancora, ci aiuta a scoprire che Dio ci vuole bene proprio è più grande di noi.

Ma come riconosciamo e verifichiamo questa grandezza?

Forse perché egli sale al cielo? Perché si allontana da noi in un luogo irraggiungibile? Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù ritornerà come vi ha promesso (leggiamo nel Vangelo). Il cielo.

Il cielo non è tanto ciò che c’è sopra di noi; il cielo è il segno della grandezza di Dio, del suo amore. E dove è il luogo, lo spazio dell’amore di Dio se non la coscienza dell’uomo?

Contemplare che Gesù sale al cielo significa riconoscere che egli ama abitare nel vero tempio di Dio che è la coscienza di ogni uomo; il cristiano è colui che per rivelazione dello Spirito santo riconosce e comprende che Gesù abita in Dio nella sua coscienza e nella coscienza parla all’uomo come a un amico!

Perché Gesù ascende al Padre, nella coscienza dell’uomo? Per insegnarci ad andare verso il Padre, per portarci verso il Padre suo e Padre nostro.

Quel Dio che Mosè non poteva vedere nel volto, questo Dio ora si è fatto amico dell’uomo nel volto di Gesù che chiede di abitare in noi e così ci prepara al suo ritorno. Il mistero dell’Ascensione infatti non è il mistero di Gesù che scappa, ma l’opportunità per imparare a vivere con fervore nell’attesa del suo ritorno definitivo.

La domanda che emerge è perciò: come attendo questo ritorno di Gesù, della gloria di Dio?

Non guardando il cielo, ma vivendo una vita “affocata” dell’amicizia con Gesù, nella testimonianza tra gli uomini. Stavano nel tempio lodando Dio. Nell’attesa della potenza di Dio, lo Spirito santo.

Qui è un’attesa di preghiera, ma non una preghiera passiva, bensì una preghiera che introduce alla conoscenza e alla testimonianza.

La conoscenza.

Nell’Ascensione noi entriamo in contatto con tutti i misteri della vita di Gesù, riconosciamo la sua preesistenza. Dobbiamo ricordarci della sua eternità se vogliamo entrare nell’eternità. L’Ascensione è la porta da aprire per fare entrare Dio in noi: quanto apriamo questa porta?

La testimonianza.

Si è amici di Dio perché fissiamo Gesù nel volto di tutte le povertà del mondo, povertà che chiedono di essere redente, superate, eliminate.

Il mistero dell’Ascensione è necessario non solo per poter ricevere il dono dello Spirito santo, ma perché impariamo a essere portatori dello Spirito santo nel mondo.

Il mistero dell’Ascensione non è il mistero dei tiepidi, ma dei credenti infuocati dallo Spirito santo per annunciare a tutti che Gesù è vivo per noi, che Gesù agisce in noi, che Gesù tornerà per raccoglierci in un’unica famiglia.

Si crea una catena di comunione e di amore tra Dio e noi, tra noi e l’umanità.

Dobbiamo rinnovare la celebrazione di questa festa, è una festa per tutta la Chiesa, per tutti gli uomini; è la festa della consolazione per la Chiesa, per noi, per gli uomini tutti; è una festa non solo per oggi, ma per tutto l’anno.

Preghiera per Aleppo

In questa speciale domenica dedicata alla preghiera
per la pace urgente in Aleppo, Siria,
ed ovviamente ovunque essa sia necessaria,
facciamo nostre le parole della Chiesa
per chiedere a Cristo di salvare i suoi perseguitati
in Aleppo e in tutto il mondo
e lo facciamo rivolgendoci
al suo diletto amico del cuore,
San Giovanni Evangelista
di cui oggi facciamo la memoria:

Apostolo amato dal Cristo Cristo Dio,
affrettati a liberare
il popolo senza difesa:
ti accoglie prostrato ai suoi piedi,
colui che ti ha accolto
quando ti appoggiavi al suo petto,
supplicalo,
o teologo,
e disperdi l’insistente turba delle  nazioni, chiedendo per noi la pace
e la grande misericordia.

Preghiamo con fede,
certi che il Signore ci ascolterà!

Le sporche lezioni di fisica

Mi è capitato recentemente di discutere riguardo ad alcune notizie legate ai comportamenti più o meno scorretti in ambito clericale. In questi anni la stampa ha portato alla luce diverse vicende sul comportamento di alcuni servi di Dio. Si passa dai peccati più materiali come lo scandalo riguardante il cardinal Bertone a faccende decisamente più serie come i fatti legati alla pedofilia.

Ciò che più sorprende è proprio la contrapposizione tra il messaggio puro che questi uomini dovrebbero trasmettere e il degrado delle loro azioni.

Tuttavia si tende poi a unificare il messaggio con il messaggero, dimenticandoci che siamo tutti peccatori, anche chi, in linea teorica, dovrebbe esserlo “di meno”.

La stessa situazione in realtà la ritroviamo nell’ambito della ricerca scientifica.

I personaggi che hanno creato la relatività e la meccanica quantistica, sono considerati universalmente dei geni o comunque il meglio a cui un essere umano possa aspirare. Eppure ci si dimentica, volutamente o meno, che anche loro erano dei peccatori.

Si prenda Einstein, scienziato e filosofo, ormai elevato a semidio dalle masse. Ebbene ciò che spesso non viene raccontato nei documentari è il suo rapporto con la moglie, di cui il risultato furono delle regole di comportamento che la consorte era obbligata a rispettare, che vanno da “smetterai di parlare quando ne farò richiesta” a “ti assicurerai che riceverò tre pasti al giorno”.

Il grande scienziato Paul Ehrenfest quando comprese che la scienza stava avanzando troppo velocemente perché lui potesse tenerne il passo, mise fine non solo alla sua vita ma anche a quella di suo figlio, affetto dalla sindrome di Down.

Erwin Schroedinger aveva inclinazioni che oggi definiremmo pedofile, infatti amava intrattenersi con ragazzine in età puberale. La sua famosa equazione venne concepita durante un soggiorno di due settimane con l’amante sulla Alpi Svizzere, mentre la moglie era ad attenderlo a Zurigo.

Richard Feynman era un abile adescatore di donne, che nei suoi scritti erano paragonate a un oggetto sessuale o poco più.

Werner Karl Heisenberg, autore del famosissimo principio di indeterminazione, premio Nobel nel 1932, viene ricordato per il suo appoggio al regime nazista Tedesco. Egli cercò in tutti i modi di costruire l’atomica per il regime ma non ci riuscì. In seguito, finita la guerra, dichiarò che in realtà egli si oppose alla costruzione dell’atomica ma i documenti storici suggeriscono il contrario.

Arrivando ai giorni nostri è interessante la storia di Paul Frampton, fisico delle particelle arrestato per spaccio internazionale di cocaina. Adescato da una modella su un sito di appuntamenti on-line, con l’inganno si è ritrovato a portare una valigia in aeroporto con due chili di cocaina all’interno.

Tutto ciò per insegnare che bisogna distinguere il messaggio dal messaggero. La fisica, come la religione, in sé è pura. Ma questo messaggio è trasmesso dalle persone, che in fondo subiscono le tentazioni che noi tutti subiamo.

Roberto Nava

Il “Lord” di Bob Marley e non solo

Cari amici ci piace riprendere questo articolo “musicale” scritto per il Sole 24 Ore, dal cardinal Gianfranco Ravasi, il 13 marzo 2016.

La maggior parte dei lettori ricorda la tragica fine di John Lennon, assassinato da un fanatico a New York a soli 40 anni l’8 dicembre 1980. Per quasi trent’anni la compagna Yoko Ono ha tenuto nascosto un brano che questo famoso membro dei Beatles aveva registrato poche settimane prima, il 10 novembre di quell’anno. È una sorta di sorprendente testamento spirituale che sconfina in un’invocazione orante: «Aiutami, Signore, aiutami, Signore, sì, ti prego, aiutami, Signore, aiutami ad aiutare me stesso!». Questa implorazione drammatica – Help me to help myself – era preceduta da una confessione: «So nel mio cuore che noi non ci siamo mai lasciati … Dicono che Dio aiuta chi aiuta se stesso e allora faccio questa domanda nella speranza che tu sarai buono con me, perché nel mio intimo profondo io non mi sono mai sentito soddisfatto».

Perché propongo questa testimonianza? Lo faccio perché due lettori si sono dichiarati positivamente sorpresi per una mia recensione nella quale tempo fa evocavo la Preghiera in gennaio del primo long playing di De André (1967) e la Smisurata preghiera, una delle sue ultime canzoni (1996), ispirata alla Desmedida plegaria dello scrittore colombiano Álvaro Mutis. Raccolgo un’ulteriore loro sollecitazione, convinto come loro che alcuni cantautori costituiscono per le giovani generazioni gli unici poeti che essi ascoltano: i due lettori, infatti, mi chiedono di svelare qualche altra mia sintonia musicale in questo orizzonte così differente da quello che si immagina più consono a un cardinale.

Fermo restando che il mio orecchio è ben più disposto e attrezzato ad ascoltare altra musica, sono stato sempre attratto anche da un orizzonte così diverso, memore del programma che san Paolo propone nel suo primo scritto, indirizzato ai cristiani di Tessalonica: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è kalós [buono/bello]» (I,5,21). È una sorta di variante del celebre motto dell’Heautontimoroumenos di Terenzio, motto ripreso da Cicerone e Seneca ma anche da s. Agostino e s. Ambrogio: Homo sum: nihil humani a me alienum puto. Ho, così, pensato subito a Lennon, ma mi sono anche accorto che avrei potuto raccogliere una lunga lista di cantautori in cui mi sono imbattuto e che si sono accostati al tema religioso in forma provocatoria (ad esempio Lou Reed), e persino quando sembravano alieni da simili interessi, a differenza, ad esempio, di un Battiato o di un Ron.

Inoltre bisogna riconoscere che talora affiora negli autori anche più “laici” una spiritualità implicita, affidata all’intensità di certe interrogazioni radicali umane: penso a Guccini o a Gino Paoli coi quali ho avuto occasione di interloquire durante un “Cortile dei Gentili”, cioè un incontro tra credenti e non credenti all’università di Bologna. La stessa osservazione vale, ad esempio, per un Lucio Dalla che, però, nel 2007 aveva intitolato una sua canzone con un esplicito I.N.R.I., acronimo dello Iesus Nazarenus Rex Iadaeorum del cartiglio di condanna affisso sulla croce di Cristo, e che riconosceva: «Di cercarti io non smetterò, abbiamo tutti voglia di parlarti».

Ma Dio ha tempo di badare a noi dall’alto della sua trascendenza, come ironicamente lo provocava Ligabue nella canzone Hai un momento Dio del 1995? Egli, infatti, era desideroso di sapere dal Creatore «se il viaggio [della vita] è unico e se c’è il sole di là». È la stessa attesa che appariva – sempre in tono ironico – in Wake up dead man (1997) della band irlandese U2: «Gesù aiutami, non solo in questo mondo… So che tu stai vegliando su di noi. Forse, però, le tue mani non sono libere. Tuo Padre ha fatto il mondo in sette giorni, ma ora si occupa del cielo. Puoi mettere una buona parola per me?». Anche la grande Mina in Accendi questa luce (2010) scongiurava Dio così: «Non puoi lasciarci qui da soli, non siamo liberi dal male se tu non ci sei».

Già nel 1990 con Uomini soli i Pooh ricordavano al «Dio delle città e dell’immensità» che noi «quaggiù non siamo in cielo e se un uomo perde il filo è soltanto un uomo solo». Un tema che verrà ripreso da un cantante popolarissimo come Jovanotti, una figura a mio avviso molto interessante per conoscere il linguaggio e il mondo dei giovani di oggi, nonostante anagraficamente sia ormai cinquantenne. In Questa è la mia casa (1997) pregava così: «O Signore dell’universo ascolta questo figlio disperso che ha perso il filo e non sa dov’è e che non sa neanche più parlare con te». E ancora questa idea dello smarrimento dell’uomo contemporaneo, privo di una stella polare e di una meta verso cui orientare i suoi passi, emerge nella cantante pop canadese Céline Dion, divenuta famosa per la colonna sonora del film Titanic con My heart will go on. A lei dobbiamo una Prayer (1999) in cui invoca Dio così: «Prego che tu sia i nostri occhi e ci protegga lungo il cammino … Quando perdiamo la strada, guidaci alla meta con la tua grazia … La fede che hai acceso in noi sento che ci salverà».

C’è, dunque, la consapevolezza di un deficit di senso nell’esistenza, di un procedere che è più simile a uno sbandamento, di un viaggio fuori pista, come confessava Claudio Baglioni in Per incanto e per amore (2003): «Fa’ che il viaggio di un uomo non sia la bugia di una meta, ma la verità della strada che è lunga e segreta». E l’approdo malinconico non può essere solo quello che Guccini rappresentava in modo folgorante in un disco del 1976, Via Paolo Fabbri 43: «Ognuno vive dentro ai suoi egoismi, vestiti di sofismi, e ognuno costruisce il suo sistema di piccoli rancori irrazionali, di cosmi personali scordando che poi infine tutti avremo due metri di terreno» (Canzone di notte n. 2).

La mia è, dunque, solo una libera e frammentaria evocazione di voci tra le mille che risuonano nell’orizzonte musicale affollatissimo dei nostri giorni. Voci che sono certamente superate negli stadi o nelle discoteche dalle esplosioni del rap o del rock più duro amato dalle giovanissime generazioni. Per loro il Bob Dylan di Blowin’ in the Wind è forse remoto quanto Buxtehude… Quelle voci custodivano talora al loro interno un anelito quasi mistico. Per concludere, scelgo solo due esempi di personaggi “mitici”. Innanzitutto Elvis Presley, che in Chi sono io? (Who Am i?) descriveva l’Incarnazione e la Redenzione in termini cristologici corretti: «Dio ha abbandonato la sua gloria ed è venuto a me, ha vissuto con gli essere insignificanti come me. Per me e in vece mia ha preso su di sé vergogna e umiliazioni. Essere oggetto di simili attenzioni! Chi sono io? Per me il Re è morto versando il suo sangue. Chi sono io? Egli ha pregato per me».

E un altrettanto mitico Bob Marley, morto nel 1981 a 36 anni, emblema del reggae giamaicano, nel 1970 esprimeva il suo Thank you Lord così: «Grazie, Signore, per quello che hai fatto per me; grazie, Signore, per quello che fai ora; grazie, Signore, per ogni piccola cosa … Io amo pregare». Un vero e proprio minisalmo moderno di ringraziamento a Dio.

Una ecologia integrale

Scheda 6,

Un’ecologia integrale

Tutto è in relazione, da qui la necessità di una cultura ecologica integrale.

L’ecologia richiama a prima vista l’ambiente, ma l’ambiente fa riferimento a una particolare relazione, quella tra la natura e la società che la abita e all’interno di ciò il tempo, lo spazio, la fisica, la chimica, la biologia sono ulteriori relazioni intrecciate tra loro. Ne consegue che l’inquinamento di una parte non può risolversi da una sola prospettiva; assistiamo oggi a una sola e complessa crisi socio-ambientale. Dobbiamo perciò tenere sempre più presente l’ecosistema naturale e l’ecosistema sociale.

«Oggi l’analisi dei problemi ambientali è inseparabile dall’analisi dei contesti umani, familiari, lavorartici, urbani, e dalla relazione di ciascuna persona con se stessa, che genera un determinato modo di relazionarsi con gli altri e con l’ambiente. C’è una interazione tra gli ecosistemi e tra i diversi mondi di riferimento sociale, e così si dimostra ancora una volta che “il tutto è superiore alla parte”» (141).

(Pensiamo al consumo delle droghe, 142).

Tutto ciò comporta anche una ecologia culturale, che porti al rispetto dei singoli contro un appiattimento globale. «È necessario assumere la prospettiva dei diritti dei popoli e delle culture, e in tal modo comprendere che lo sviluppo di un gruppo sociale suppone un processo storico all’interno di un contesto culturale e richiede il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura» (144). «In questo senso, è indispensabile prestare particolare attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre…» (145).

La conseguenza di un’ecologia integrale si deve sperimentare in una ecologia della vita quotidiana, fatta di abitazioni, di trasporti, la bruttezza degli ambienti e relativi rapporti umani, il caos delle città.

Ma specialmente «l’ecologia umana implica anche qualcosa di molto profondo: la necessaria relazione della vita dell’essere umano con la legge morale inscritta nella sua propria natura, relazione indispensabile per poter creare un ambiente più dignitoso. Esiste una «ecologia dell’uomo» perché «anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere» (B XVI) In questa linea, bisogna riconoscere che il nostro corpo ci pone in una relazione diretta con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. L’accettazione del proprio corpo come dono di Dio è necessaria per accogliere e accettare il mondo intero come dono del Padre e casa comune; invece una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato. Imparare ad accogliere il proprio corpo, ad averne cura e a rispettare i suoi significati è essenziale per una vera ecologia umana. Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere sé stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente. Pertanto, non è sano un atteggiamento che pretenda di «cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa» (154).

Un ragionamento di questo genere – e qui sintetizzo i numeri successivi – si può comprendere solo se teniamo presente il punto di riferimento iniziale del bene comune e il suo ruolo centrale e unificante nell’etica sociale. In quest’ottica il problema della famiglia e della giustizia tra le generazioni.

«L’ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazioni riceve e deve trasmettere alla generazione successiva» (159).

«L’uomo e la donna del mondo postmoderno corrono il rischio permanente di diventare profondamente individualisti, e molti problemi sociali attuali sono da porre in relazione con la ricerca egoistica della soddisfazione immediata, con le crisi dei legami familiari e sociali, con le difficoltà a riconoscere l’altro. Molte volte si è di fronte a un consumo eccessivo e miope dei genitori che danneggia i figli… perciò “oltre alla leale solidarietà intergenerazionale, occorre reiterare l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intragenerazionale” (B XVI) (162).

Uma ecologia integral

Folha 6

Uma ecologia integral

Tudo é em relazione, daqui a necessidade de una cultura ecologica integrale.

A ecologia lembra à primeira vista, o ambiente, mas o ambiente refere-se a uma relação particular, a que existe entre natureza e sociedade que vive e em que tempo, espaço, física, química, biologia são relações mais entrelaçadas entre eles.

Daqui resulta que a poluição de uma parte não pode ser resolvida a partir de uma única perspectiva; assistimos hoje a um único complexo crise sócio-ambiental. Portanto, devemos sempre ter em mente cada vez mais o ecossistema natural e o ecossistema social.

«Hoje, a análise dos problemas ambientais é inseparável da análise dos contextos humanos, familiares, laborais, urbanos, e da relação de cada pessoa consigo mesma, que gera um modo específico de se relacionar com os outros e com o meio ambiente. Há uma interacção entre os ecossistemas e entre os diferentes mundos de referência social e, assim, se demonstra mais uma vez que «o todo é superior à parte”» (141).

(Pensemos no consumo das drogas, 142).

Tudo isto envolve uma ecologia cultural, levando ao respeito do indivíduo contra um achatamento global. «É preciso assumir a perspectiva dos direitos dos povos e das culturas, dando assim provas de compreender que o desenvolvimento dum grupo social supõe um processo histórico no âmbito dum contexto cultural e requer constantemente o protagonismo dos actores sociais locais a partir da sua própria cultura.”(144). “Neste sentido, é indispensável prestar uma atenção especial às comunidades aborígenes com as suas tradições culturais. Não são apenas uma minoria entre outras…» (146).

A consequência da ecologia integral se deve experimentar em uma ecologia da vida diária, composta por habitação, transportes, a feiúra dos ambientes e sobre as relações humanas, o caos da cidade.

Mas especialmente «a ecologia humana também significa algo muito profundo: a relação necessária da vida humana com a lei moral escrita em sua própria natureza, relação essencial para criar uma atmosfera mais digna. Há uma “ecologia do homem”, porque “tambémo homem tem uma natureza que ele deve respeitar e que ele não pode manipular à vontade” (B XVI) Nesta linha, temos de reconhecer que o nosso corpo nos coloca em uma relação direta com o meio-ambiente e com os outros seres vivos. A aceitação do próprio corpo como um dom de Deus é necessária para acolher e aceitar o mundo como um dom do Pai e casa comum; em vez uma lógica de dominação sobre o seu próprio corpo se transforma em uma lógica, por vezes sutil de domínio sobre a criação. Aprender a aceitar seu corpo, a cuidar e a respeitar os seus significados é essencial para uma verdadeira ecologia humana. Também apreciar o seu próprio corpo em sua feminilidade e masculinidade é necessário para reconhecer-se no encontro com o outro diferente de você. Desta forma, é possivel aceitar com alegria o dom específico do outro ou de outra, obra de Deus, o Criador, e enriquecer-se uns aos outros. Portanto, não é uma atitude saudável que pretende eliminar a diferença sexual, porque já não sabe como lidar com ele» (154).

Um descurso deste tipo – e aqui resumo os números sucesivos – só pode ser entendida se considerarmos o ponto de referência inicial do bem comum e seu papel central e unificador na ética social. Neste contexto, a questão da família e da justiça entre as gerações.

«O ambiente situa-se na lógica da recepção. É um empréstimo que cada geração recebe e deve transmitir à geração seguinte».(159)

«O homem e a mulher do mundo pós-moderno estão em risco permanente de se tornar profundamente individualistas, e muitos problemas sociais atuais são considerados em conjunto com a busca egoísta da gratificação imediata, com a crise dos vínculos familiares e sociais, com as dificuldades de reconhecer o outro. Muitas vezes se é diante a um consumo excessivo e míope dos pais que prejudicam os filhos … por isso, além da leal solidariedade entre-geracional, precisa reiterar a urgente necessidade moral de uma renovada solidariedade no seio das gerações» (BXVI) (162).

La scienza della felicità

La radio è sempre viva. Radio3 Rai ancora di più con Fahrenheit, programma condotto da Loredana Lipperini che ultimamente ha parlato nientemeno che di felicità con Susanna Tamaro e Stefano Zamagni (questi emeriti per voi sconosciuti tra poco si riveleranno in tutte le proprie potenzialità).
La scrittrice racconta di come è stato difficile iniziare un’attività con il fine di creare nuovi posti di lavoro, soprattutto perché il problema non risiedeva nell’incompetenza o nell’inadeguatezza delle persone. Tutt’altro. Ciò che rendeva impossibile essere competitivi e addirittura affrontare le piccole incombenze quotidiane era il senso di impotenza difronte al “mostro” della burocrazia. Anche se certamente negli ultimi anni l’Italia ha dato segno di volersi rialzare dalla devastante crisi finanziaria del 2008, solamente le grandi industrie stanno registrando un reale progresso. Di fatto, le piccole aziende famigliari, una realtà molto diffusa in Italia, se non addirittura prevalente nel nostro territorio, vengono sommerse e paralizzate dai vincoli burocratici. Ogni piccola entità, con una limitata disponibilità di risorse, perde tempo cercando di capire, interpretare e uscire dalle valanghe burocratiche di un sistema malato. Sono, dunque, l’immobilismo, l’impotenza e i tecnicismi esagerati che ci conducono verso la via più diretta per l’infelicità.
L’economista Stefano Zamagni, invece, ha espresso la sua personale opinione riguardo al Rapporto Mondiale sulla Felicità, pubblicato per la prima volta nel 2012 e la cui quarta e ultima edizione è stata presentata lo scorso 20 marzo 2016 alla Banca d’Italia. In questo Rapporto l’Italia si troverebbe al cinquantesimo posto nella classifica dei paesi “felici”. Esperti mondiali di economia, psicologia, statistica, sanità, politica e non solo descrivono come i dati relativi al benessere possano aiutare a valutare efficacemente il progresso delle nazioni e classificare 156 paesi in base al loro livello di felicità. Zamagni, come il docente LUMSA Luigino Bruni, sostiene che l’Italia è la patria della felicità, perché mentre nel 1700 in Inghilterra l’economia nasceva come scienza della ricchezza, in Italia prendeva il nome di scienza della pubblica felicità. Nel mondo anglosassone felicità è sinonimo di utilità, come ben insegna il modello tayloristico del 1911. Il mondo latino, al contrario, ritrova la felicità nei rapporti interpersonali: non si può essere felici da soli, perché la felicità è una forma alta di bene comune.
Quando sono stati stabiliti internazionalmente i parametri per lo studio empirico della felicità, noi italiani non siamo riusciti a imporre i nostri indici e sono prevalsi quelli britannici. Termini validi, ma non sufficienti per descrivere esaustivamente i nostri valori. L’economista sostiene che misure prettamente legate al reddito, come quelle attualmente in uso, possono nascondere i fattori di estremo stress e ansia di competizione legati a una società che vive per produrre. Inoltre, la vita all’interno delle scuole e le università non si basa più sulla cooperazione, ma su una competizione sfrenata, un individualismo totale. Certamente la produttività aumenta, ma di pari passo la felicità diminuisce. Stefano Zamagni rimane, però, ottimista e crede che la gente stia cominciando a distinguere l’utilità dalla felicità.
La mancanza di quest’ultima ostacola, inoltre, la creatività e dunque il processo d’innovazione, la componente essenziale del vantaggio competitivo tra le aziende. Proprio per questo, gli americani si sono già dati da fare, ma non solo loro. Il nuovo welfare aziendale è un programma che prevede un orario lavorativo compatibile con la vita familiare; è già presente in un discreto numero di imprese italiane e punta a promuovere una definizione di felicità non più basata sul singolo, ma sulla presa coscienza dell’importanza della comunità.
Mai quanto oggi è indispensabile (ri)trovare la felicità e la fiducia in una comunità, che è tenuta e deve impegnarsi a promuovere il bene comune e a lottare contro l’egoismo, l’odio, la diffidenza e la violenza in ogni sua forma. Sulla scia di Tamaro e Zamagni in questo anno della misericordia forse dobbiamo aggiungere una nuova opera corporale e spirituale coltivare e realizzare la felicità.

Giorgia Lombardini