Solo Andata

Ecco una nuova rubrica, Letizia si occuperà di riportarci articoli o informazioni interessanti dal mondo della carità o del sociale: un modo per farci sentire partecipi del mondo intorno a noi. Iniziamo con un riferimento musicale significativo.

“Solo andata” è un brano che tratta il dramma dei migranti, composto da Erri De Luca, e musicato dal Canzoniere Grecanico Salentino, storico gruppo di musica popolare. A valorizzare il tutto, un video d’impatto realizzato da Alessandro Gassmann, finanziato da Apulia Film Commission e Oh!Pen Italia.

Ecco il testo:

Siamo gli innumerevoli
raddoppia ogni casella di scacchiera
lastrichiamo di corpi il vostro mare 

per camminarci sopra

Non potete contarci:
se contati aumentiamo,
figli dell’orizzonte
che ci rovescia a sacco.

Nessuna polizia può farci prepotenza
più di quanto già siamo stati offesi
faremo i servi, i figli che non fate
le nostre vite i vostri libri di avventura.

Portiamo Omero e Dante,
il cieco e il pellegrino
l’odore che perdeste
l’uguaglianza che avete sottomesso.

Da qualunque distanza
arriveremo a milioni di passi
noi siamo i piedi e vi reggiamo il peso
spaliamo neve, pettiniamo prati.

Battiamo tappeti
raccogliamo il pomodoro e l’insulto

noi siamo i piedi
e conosciamo il suolo passo a passo
Noi siamo il rosso e il nero della terra
un oltremare di sandali sfondati
il polline e la polvere
nel vento di stasera

Uno di noi, a nome di tutti, 

ha detto “non vi sbarazzerete di me

va bene, muoio, ma in tre giorni

risuscito e ritorno”.

In conclusione De Luca recita un riadattamento di una sua poesia, “Naufraghi”:

In braccio al Mediterraneo
migratori di Africa e di oriente
affondano nel cavo delle onde.
Il pacco dei semi portati da casa
si sparge tra le alghe e i capelli
La terraferma Italia è terrachiusa.
Li lasciamo annegare per negare.

La collaborazione tra Erri De Luca e il Canzoniere Grecanico Salentino rappresenta un fortunato incontro tra parole e musica. Infatti, le parole rimangono chiuse in un libro, in una pagina a disposizione dei pochi curiosi lettori, ma quando esse incontrano la musica (in questo caso di qualità, tra i violini e le pizziche pugliesi) vengono sollevate da un’energia nuova, in grado di raggiungere direttamente la gente.
Il suggestivo video è ambientato nel Salento: a poco a poco dal mare emergono le figure di alcuni migranti, che stremati raggiungono la riva. Il tutto si svolge sotto gli occhi di un pescatore, che vedendo quelle immagini rievoca il ricordo della madre, anch’essa migrante1.
Amnesty International Italia ha conferito al brano il premio “Arte e Diritti Umani 2014”.
Penso che il testo possa suggerire molti spunti sul tema dell’immigrazione e del razzismo, anche in relazione alle vicende di questi giorni a Tor Sapienza, e ricordarci che chi se ne va è perché non ha libertà di restare.

Letizia Carenzi – Lodi

 

Dopo Montserrat, la speranza

Quale speranza?
Questa è la domanda che molti si pongono in questi giorni tragici di 3^ guerra mondiale – come diceva papa Francesco – fatta di tragedie dell’IS (vedi l’intervista nella sezione “Cristiani perseguitati”); di carneficine di tanti giovani in Mexico; di un numero crescente di suicidi giovanili anche in Italia.
Quale speranza? Non chiedo per il domani, ma per l’oggi?
È la speranza che nasce dalla fede nell’amore provvidente di Dio che alcuni giovani delle nostre comunità barnabitiche d’Europa hanno vissuto e testimoniato lo scorso 14/15 novembre a Barcellona e Montserrat per celebrare la solennità della Provvidenza.
Giovani sconosciuti tra loro, ma legati dalla stessa spiritualità zaccariana, dalla medesima devozione alla “nostra” Madonna della Provvidenza, per dare speranza e sostegno alle nostre comunità spagnole, testimoni inermi di un’indifferenza religiosa, che non trova uguali in Europa.
Giovani stupiti dalla bellezza della Sagrada Familia, dove l’esplosione dell’arte, della fede e dell’ingegno umano ha trovato risposta nella preghiera umile e corale, così come Antonio Gaudy voleva suscitasse la sua opera.
Giovani contenti di pregare nelle proprie diverse lingue davanti alla Morenita, la statua della Madonna di Montserrat.
Piccoli semplici segni, come piccola è la nostra famiglia barnabitica, come piccolo è il seme di senape da cui nasce una grande pianta.
La speranza germina da questo saper essere insieme per pregare, così da fondare un saper fare nelle proprie comunità.
La speranza nasce dal voler rendere ragione della propria fede e dal voler ragionare e condividere i propri ragionamenti come si cerca di fare su questo Blog.
La speranza è questa conoscenza di Dio che vuole farsi stile di vita, arma efficace per combattere indifferenza e violenza.
Questo credo sia il grande risultato del pellegrinaggio della Provvidenza e di questo siamo chiamati a rendere gloria a Dio e volontà di continuare a camminare uniti al di là di ogni ostacolo che potrebbe abbattere la speranza.

Padre Giannicola M. Simone

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San Carlo Borromeo

Sapete che oggi la Chiesa ricorda san Carlo Borromeo (Arona, 2 ottobre 1538 – Milano, 3 novembre 1584), pastore della chiesa e della diocesi di Milano?

Sapete che san Carlo e patrono dei Barnabiti, proprio in forza della profonda stima, amicizia e collaborazione vicendevoli? Infatti grande fu l’influsso di san Carlo sulla crescita e le attività dei primi Barnabiti.

San Carlo cominciò a frequentare assiduamente i Barnabiti quando, a 34 anni, Alessandro Sauli divenne padre generale dell’Ordine. Da queste frequentazioni nacque una collaborazione pastorale e spirituale di cui ancora oggi sentiamo l’eredità e il profumo e non solo nelle chiese che ci affidò nel 1500 (S. Alessandro M., a Milano, S. Maria al Carrobiolo, Monza, S. Carlo ai Catinari, Roma), ma anche nello stile di vita dei Barnabiti.

Per quale motivo san Carlo amava tanto i Barnabiti? Perché li vedeva santi e sempre dediti alla causa del prossimo attraverso la predicazione e la carità. Basti pensare al suo rapporto amicale con Carlo Bascapé, poi vescovo di Novara, fino al punto che fu questi a chiudere gli occhi di san Carlo Borromeo alle tre del mattino del 4 novembre 1584.

Anche quando la peste (1576) infierì su Milano decimando i Barnabiti san Carlo non mancò di sostenerli e incoraggiarli nel riprendere le attività pastorali, che il Signore li avrebbe ricompensati.

Anche noi non smettiamo di chiedere la sua intercessione per continuare a operare nello spirito della riforma di noi stessi e del Vangelo.

Tutti i santi 2014

Solennità di tutti i santi, 2014

Cari amici, da un po’ non scrivo direttamente su qs nostro blog, anche perché scrivo altrove e comunque coordino il lavoro di tutti voi: una bella impresa, seppure non facile.
La solennità di Tutti i Santi è l’occasione, anche perché tutti voi battezzati siete santi e dobbiamo festeggiarci gli uni gli altri.
La festa di Tutti i Santi è festa della Speranza; è un’eco della Pentecoste.
Come nel cenacolo terreno di Gerusalemme Gesù donò lo Spirito santo per rendere salda la comunione tra Dio e l’umanità, così con questa festa di Tutti i santi Dio ci fa comprendere che quella comunione è salda e definitiva nel regno dei cieli.
La festa di Tutti i Santi non è una festa per scappare dalla realtà o per una consolazione passiva quando le cose vanno male: è la festa della Speranza che diventa realtà!
Speranza perché la comunione dei santi ci dice che la nostra vita non si perde nella limitatezza del calendario, ma ha un oltre! Perché il Battesimo ci ha inseriti nell’eternità di Dio: siamo per sempre!
Attenzione, però, non “per sempre” al modo di qualche replicante o alla Dorian Gray, bensì “per sempre” perché Cristo è per sempre: ieri, oggi e sempre.
Infatti questa festa è posta al termine della stagione agricola, quando la campagna si addormenta, “muore”, le giornate diventano più buie. Ma anche prima della commemorazione dei fedeli defunti: la vita cristiana non termina con la morte terrena.
Eppure questa festa è anche una festa terrena: non si può essere santi solo nell’al di là o solo per qualche miracolo. Si è santi perché si ama! Si ama qui e ora! Non domani o dopodomani o chissà dove. Per essere santi nel cielo, prima di tutto bisogna essere santi sulla terra.
Le beatitudini del vangelo di oggi (anche di domani 2 novembre) dicono della felicità celeste che si può raggiungere solo essendo santi, beati qui sulla terra.
Sorge spontanea la domanda: quanto siamo santi? Quanto la mia persona è santa? Nella Chiesa, nella società? Quale beatitudine cerco di incarnare a partire da questa festa di Tutti i santi? Faccio tutto ciò che è in mio potere per rendere la terra più santa?
Concludo con un pensiero di Alcide De Gasperi alla figlia poco prima di morire:
«Adesso ho fatto tutto ciò che era in mio potere, la mia coscienza è incapace. Vedi, Il Signore ti fa lavorare, ti permette di fare progetti, ti dà energia e vita. Poi, quando credi di essere necessario e indispensabile, ti toglie tutto improvvisamente, ti fa capire che sei soltanto utile, ti dice: ora basta, puoi andare. E tu non vuoi, vorresti presentarti al di là col tuo compito ben finito e preciso. La nostra piccola mente umana non si rassegna a lasciare ad altri l’oggetto della propria passione incompiuta».
Giannicola M. prete

Muffin per Milot

In occasione della festa di Ognissanti gli studenti del nostro Istituto Denza di Napoli hanno organizzato una vendita di Muffin per raccogliere fondi in favore del Progetto Rilindja (www.barnabitalbania.com) che sostiene con borse di studio studenti liceali della nostra missione di Milot.
L’attività ha fruttato circa € 380,00.
grazie a quanti hanno collaborato.
gruppo volontari Denza

La bicicletta verde

Tra le strade polverose di Riyad, in mezzo a donne col burqa ed ecomostri incompleti, cresce una ragazzina di nome Wajda. Indossa Converse nere, ascolta musica inglese, ha un migliore amico maschio e vuole una bicicletta.
Questo è il soggetto dal quale il film parte. Un film forte, forte della sceneggiatura e dell’idea di base.
Un film che non si dimentica. Un film che ha la caratura della testimonianza documentaristica e di una narrazione quasi neorealista per l’uso di attori non protagonisti, acerbi ma comunque capaci di comunicare la forza di un vissuto condiviso.
La storia è di una semplicità disarmante ma non per questo banale.
Wajda desidera una bicicletta e per averla partecipa a un concorso sulla recitazione del Corano indetto a scuola. La bambina è già fuori dalle righe rispetto a quanto l’educazione oppressiva dell’Arabia Saudita preveda, si ribella alle costrizioni sul vestiario, ascolta musica in lingua inglese, sviluppa un desiderio ancora più rivoluzionario e lotta per esaudirlo sfruttando ciò che la società le porge, ma mai si piega veramente. Seguendo questa traccia il film cristallizza la condizione femminile partendo dall’ambito scolastico che plasma i comportamenti futuri delle giovani menti femminili.
“La bicicletta verde” è un racconto di donne, per donne, audacemente controcorrente, che descrive una cultura a noi sconosciuta, troppo distante. Raggelante per l’insieme di costrizioni e regole così prodigiosamente introietatte da tutti attraverso un sistema di indottrinamento e di conseguente esclusione sociale alla prima presunta violazione che si fonda sul testo religioso e sulla struttura sociale maschilista che ne deriva. E nel farlo si sceglie un mondo di donne in cui le donne sono attori in pieno, vittime e carnefici di se stesse, in cui gli uomini sono sorridenti e mai impositivi, placidi amici anch’essi intrappolati in un gioco che spesso non condividono nei fatti.
Un film soffocante che palesa pochissime vie di fuga, in cui tutto ruota nel mettersi in gioco e approfittare di quei margini di tolleranza che sono un po’ ovunque e che, fomentati dall’esempio di alcune coraggiose, nel tempo può comportare anche il minimo cambiamento.
In 100 minuti si respira tutta la violenza delle religioni volte a piegare il femminile fino a cancellarlo dallo spazio pubblico, con un obbligatorio happy ending di circostanza, perché nel futuro più che sperare non si può.
Forse quello che manca di più è un’elaborazione registica, ma il sopravvento di quanto si racconta è imperioso.

Mi domando solo se sia stato distribuito in patria.

Fabio Cambielli

Madeleine Delbrel una donna, una credente

Cari amici,
la maggior parte di voi non conosce la persona di cui sotto: vale la pena almeno ricordarla nell’anniversario della sua scomparsa 50 anni fa.

Nel 1964 muore improvvisamente, negli anni della sua piena maturità umana e cristiana, Madeleine Delbrél, testimone dell’Evangelo. Nata nel 1904 a Mussidan in Dordogna, Madeleine aveva subìto da ragazza l’influsso dei liberi pensatori frequentati da suo padre, finendo così per unirsi al coro di coloro che proclamavano in quegli anni: «Dio è morto». Ma proprio a partire da quell’affermazione, dalla scoperta della non necessità di Dio per la sua vita, Madeleine si aprì a una straordinaria ricerca degli altri, che la porterà a ritrovare anche l’Altro, Dio stesso, dapprima nella preghiera, e poi in un rapporto vitale e quotidiano con l’Evangelo. Operata la sua conversione, al tempo stesso minima eppure radicale, Madeleine studiò da assistente sociale, giungendo nel 1933 a Ivry, nella periferia scristianizzata e comunista di Parigi. E a Ivry visse l’altra metà della sua vita da semplice laica, condividendo con una piccola comunità di donne la sua sobria dimora, una casa aperta a tutti. Madeleine seppe testimoniare l’Evangelo nella compagnia degli uomini anzitutto con la vita. Aveva infatti compreso che dietro all’ateismo si celano non poche colpe dei cristiani, pronti spesso ad annunciare un Dio da contrapporre agli altri, anziché una verità che non può mai darsi senza l’altro, dal momento che coincide, in ultima istanza, con la carità. Madeleine visse tenendo insieme, con audacia e perseveranza, fino all’ultimo dei suoi giorni, ascolto delle ragioni di Dio e ascolto delle ragioni degli uomini, irradiando pace e gioia a tutti coloro che la incontravano.

TRACCE DI LETTURA

Vi è una grazia dell’ospitalità. Vorremmo ritrovarne la genuinità, quale fu conosciuta e vissuta dalle prime comunità cristiane. Ospitalità significa che gli altri si trovino da noi come in casa loro. Ai pasti sono attesi anche se non sono invitati. Il nostro tetto è il loro. Il loro ingresso nella nostra vita comporta il loro ingresso nella nostra casa. L’ospite non è trattato con il metro della giustizia, ma dell’amore. Non può essere giudicato, ma considerato nella misericordia. Fra lui e noi i debitori siamo noi, perché pochi misteri evangelici sono più ricchi di quello dell’ospitalità. In lui noi riceviamo Gesù in una sorta di comunione collettiva, con lui riviviamo l’esperienza di Gesù che nella sua vita ha portato a compimento la legge ebraica e orientale dell’ospitalità: per mezzo di lui abbiamo l’opportunità di obbedire a precetti carichi di promesse. «Dove due o più sono riuniti nel mio nome, io sarò con loro»: vivere in comunità è un esprimere per il mondo una sorta di sacramento. E un garantire la presenza di Gesù. La testimonianza di uno solo, che lo voglia o meno, porta soltanto la sua firma. La testimonianza di una comunità porta, se questa è fedele, la firma del Cristo.

(Madeleine Delbrél,da Comunità secondo il Vangelo)