4 chiacchiere con Francesco Costa sull’informazione per il 9 compleanno del nostro blog

Chiacchierata con Francesco Costa, vice direttore de ilPost.it per il 9 compleanno del nostro Blog

Celebrare un compleanno non significa soltanto contare gli anni; vuol dire anche dare senso e significato a quegli anni. Quelli passati e quelli che verranno. A ogni compleanno della nostra esistenza si fanno bilanci e propositi, si tirano somme e si progetta il futuro. E come per ogni compleanno che si rispetti, festeggiamo il nono anno di vita del nostro blog www.GiovaniBarnabiti.it, e della sua costola cartacea IlGiovaniBarnabiti, regalandoci una preziosa intervista a Francesco Costa, vicedirettore del Post.it, programmando impegni e coltivando sogni e speranze di dare voce al futuro.

Qualcuno potrebbe contestarci che sia un regalo troppo “laico” per la nostra testata, ma la tradizione barnabitica è sempre stata attenta all’incontro con il mondo intorno a sé per annunciare, per far conoscere, per imparare.

D’altra parte nella bella chiacchierata con Francesco Costa (Catania, 1984) emerge subito il dato per cui scrivere significa, prima di tutto, andare “oltre il proprio ombelico” per parlare di e con altri. È il primo consiglio che ci ha fornito Costa, in una breve riflessione sulla comunicazione, sul giornalismo odierno, con i suoi punti di forza e di debolezza, sulla scrittura come strumento per comprendere la complessità del reale.

«Scrivere, mettere inchiostro su carta – ha detto Costa – ci costringe a pensare a ciò che scriviamo, quindi a ragionarci, a confrontarci con le persone che abbiamo intorno, ci spinge a essere curiosi. Per questo può essere uno strumento molto utile per comprendere la realtà. Dovremmo provare a utilizzare la scrittura non soltanto per raccontare se stessi, ma anche per raccontare il prossimo. Attraverso la scrittura dovremmo provare ad esplorare mondi sconosciuti, ad andare oltre noi stessi, al di là di un esercizio da diario che definirei ombelicale».

In un mondo così complesso, bombardato di innumerevoli informazioni, dove anche le notizie si prestano a diventare terreno di scontro e non occasione di crescita, invitare i giovani a scrivere significa dare fiducia alle loro capacità, alla loro abilità di analisi e di prospettiva non inferiore a quella degli adulti, sottolinea Costa. E noi concordiamo: tenere aperto un blog, anche senza pretese immense deve essere l’occasione di educare a informazioni sempre fondate e ragionate. Educare all’informazione; rendere consapevole il lettore: è questa la vera sfida nell’attuale ecosistema informazione. “La rapidità dell’informazione – spiega Costa – che comunque considero un vasto arricchimento, ci ha disabituati al fatto che queste stesse informazioni andrebbero maneggiate con cautela, verificate. Non sempre il primo racconto, la prima testimonianza è quella vera. Inevitabilmente la velocità è nemica della precisione. Sono tutti elementi di cui il lettore deve essere consapevole”. Non per smettere di leggerle ma per essere per orientarsi e meglio comprendere.

«Non credo – continua – che i giovani siano più vittime di altri di questa complessità odierna delle informazioni. Anzi mi sembra che nelle abitudini di lettura ci sia nei giovani maggiore curiosità, maggiore voglia di comprendere come funziona la realtà, dunque un vantaggio in più rispetto a chi è più adulto».

Ma quanto la frammentarietà, aggiunta alla velocità dell’attuale ecosistema informazione, ne danneggia la qualità? «C’è sicuramente una crisi industriale – spiega – Meno soldi, meno pubblicità, dunque meno persone, meno tempo da dedicare alle cose, quindi meno qualità. Ma c’è anche – quasi come una conseguenza – una crisi professionale che si spiega con una diversa cultura del lavoro e con un approccio superficiale alle cose. La velocità probabilmente ha aggravato la situazione”.

In considerazione di questo scenario non possiamo che essere ancor più attenti ai giovani, specie a quelli che ancora vogliono – e ci chiedono – di pensare. Ma domandiamo: in che modo?

«Sicuramente coltivando la curiosità rispetto al mondo che ci circonda. Se pensiamo che informarsi sia importante, dobbiamo fare un piccolo investimento anche in termini di tempo: non possiamo pensare che la nostra informazione sia frutto soltanto di una selezione casuale di notizie. Che sia leggere un giornale, ascoltare un podcast, leggere libri: ognuno trovi lo strumento più adatto ai suoi interessi ma decida ogni giorno di fare qualcosa per la propria informazione. Perché sia utile».

Questa riflessione sul cercare il “tempo per” ci porta all’ultima domanda, forse la più impegnativa, come ci dirà il nostro interlocutore.

Il 27 maggio ricordiamo la canonizzazione del nostro Fondatore Antonio Maria Zaccaria (1502-1539), per noi una sorta di padre. Aldilà della dimensione specificamente religiosa che questa data ha per noi Barnabiti, e per le varie realtà legate alla nostra comunità, chiediamo a Francesco Costa, di quale paternità avrebbero bisogno – a suo parere – i giovani di oggi?

«È una domanda molto bella e impegnativa. Di una paternità che possa andare oltre l’idea biologica di paternità. Credo che i giovani abbiano bisogno di una paternità fondata sull’esempio. Mi sembra, da sempre, la cosa migliore che possano fare le persone adulte, quelle che hanno un ruolo di guida di una comunità, qualunque essa sia. Nei rapporti tra adulti e giovani l’esempio mi sembra la chiave fondamentale. Si può insegnare e parlare tantissimo, ma se manca il cuore non si trasmette ciò che si comunica».

Sarebbe stato interessante scambiarci altre idee, ma il tempo del lavoro e la saggezza di non volere il troppo ci hanno indotti ai saluti e a un ringraziamento reciproco per l’arricchente occasione di approfondimento.

Le riflessioni di Costa sulla necessità di trovare il tempo opportuno per l’approfondimento e la riflessione, l’idea di una paternità fondata sull’esempio, ben si legano a quello “stile zaccariano” annunciato dal nostro Fondatore.  Antonio Maria chiede infatti con forza di andare sempre alla profondità delle cose, di non restare nel campo della superficialità, della tiepidezza. Noi, con umiltà, impegno e costanza, ci proviamo. 

Grazie Francesco Costa e Buon compleanno GiovaniBarnbiti.it

pJgiannic e Raffaella DM

In carcere ho conosciuto Gesù

“Poichè ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” Mt 25, 31-46

Il carcere può essere, per molti, un luogo oscuro, triste, dimenticato e crudele. Si pensa che lì si trova il peggio della società, coloro che, in molti casi, non meriterebbero neanche di essere chiamati “persone”.

Oggi voglio condividere un po’ della mia esperienza come membro del gruppo Kolbe, che è parte della pastorale penitenziaria della città di Mérida, nello stato dello Yucatán, Messico.

Visitai il carcere per la prima volta 6 anni fa, e devo ammettere che me lo immaginavo giusto come si vede nelle serie TV o nei film. Avevo molti dubbi e anche un poco di paura. Credo che la mia preoccupazione più grande era sapere che avrei dovuto conversare con le persone recluse lì dentro. Posso dire con sicurezza che quella prima visita mi cambiò la vita: ho capito, infatti, che l’amore di Dio trascende luoghi e circostanze. Incontrai un Dio che vive attraverso tutti i fratelli che si trovano nel carcere.

Ho capito che anche nei luoghi più oscuri, Dio è capace di illuminare e spargere il suo amore in ogni momento. Ho conosciuto persone straordinarie, persone che si rialzano tutti i giorni con l’unico obiettivo di cercare essere migliori di ieri, persone che lavorano e si sforzano di andare avanti in mezzo alla monotonia e alla povertà che caratterizzano la vita nel carcere.

Però, non tutto è di colore rosa. Ho incontrato anche tristezza, rabbia, ingiustizia, disperazione e sete di perdono per gli errori commessi in passato.

La pandemia fu, per noi del gruppo apostolico, una sfida e una opportunità di incontrare nuove forme per restare in contatto con questi nostri fratelli carcerati. Insomma, sono passati quasi 2 anni, nei quali non abbiamo potuto visitarli! Gli abbiamo mandato lettere, generi di prima necessità, dolci, messaggi, cartelloni,  abbiamo recitato rosari virtuali pregando per la loro salute, e moltre altre iniziative. Gesù ci regalò la creatività per rimanere vicino a loro nonostante la forzata distanza.

L’anno scorso, in dicembre, ci informarono che finalmente avremmo potuto visitare il carcere. Non posso descrivere la gioia che provai. Fu una visita incredibile, nella quale ho potuto constatare che tutte le preghiere che avevamo offerto per loro avevano dato frutto. Ci ricevettero con gioia e soprattutto con una grande speranza di andare avanti nonostante la pandemia. Fu come reincontrare un vecchio amico.

A partire da gennaio, a causa dell’arrivo della variante Omicron, le visite al carcere furono sospese di nuovo. Pertanto, siamo stati molto incerti sulla possibilità di poter realizzare la tradizionale missione in carcere nella settimana santa. Ma con la benedizione di Dio, sì, ci siamo riusciti!

Questa Settimana Santa abbiamo avuto l’opportunità di visitare il carcere il Giovedì, il Venerdì e il Sabato Santo. Con l’aiuto di tutti i gruppi apostolici che visitano il carcere siamo riusciti a portare ai fratelli privati di libertà più di 1200 pacchi di generi di prima necessità, realizzare le celebrazioni liturgiche tipiche di ogni giorno, conversare, proporre attività e soprattutto portare loro un messaggio di speranza: ricordando che Gesù è vivo e che non si trattiene nel dare misericordia e amore in abbondanza.

Il mio cuore è ricolmo di amore perchè nuovamente sono riuscita a incontrare Gesù in carcere. Prego che continui a benedire tutti i gruppi che con molta allegria e dedizione visitano le carceri di tutto il mondo.

Oggi voglio invitare anche te a darti una opportunità di visitare il carcere! Sono necessari molti giovani come te e me, che trovino il coraggio di portare allegria e speranza alle persone private di libertà. Non temere! Ti prometto che non è come te lo immagini!

Ringrazio anche padre Stefano per il suo appoggio, dedizione e amore a questa missione che gli toccò realizzare. Preghiamo per le vocazioni sacerdotali!

Per concludere, mi piacerebbe lesciare questo messaggio: il carcere non è un luogo dimenticato da Dio, è un luogo che ha bisogno delle nostre preghiere e soprattutto della nostra fede. Fiducia in tutte le persone che lo abitano e che si sforzano di essere migliori per, un giorno, reintegrarsi nella società.

Grazie mille e un saluto dal Messico!

Tere Montzerrat Polanco Núñez – Merida

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Conocí a Jesús en la cárcel

“Porque tuve hambre y me diste de comer, tuve sed y me diste de beber, fui forastero y me hospedaste, estuve desnudo y me vestiste, enfermo y me visitaste, en la cárcel y viniste a verme” San Mateo 25, 31-46

La cárcel puede ser para muchas personas un lugar lleno de oscuridad, un lugar triste, olvidado y cruel. Se piensa que lo peor de la sociedad se encuentra ahí y en ocasiones que ni siquiera se le deberían llamar “personas” a todos los que se encuentran ahí.

Hoy quisiera compartirles un poco sobre mi experiencia como parte de la pastoral penitenciaria en el grupo Kolbe al que pertenezco en la ciudad de Mérida, Yucatán en México.

Hace 6 años realicé mi primera visita al penal, debo admitir que me lo imaginaba justo como en las series o películas, tenía muchas dudas e incluso un poco de miedo. Creo que mi mayor preocupación era saber de qué podía platicar con las personas de ahí adentro. Puedo decir con seguridad que mi primera visita me cambió la vida, pues pude comprender que el amor de Dios trasciende lugares y circunstancias. Conocí a un Dios vivo a través de todos los hermanos que viven en el penal.

He aprendido que incluso en los lugares más oscuros, Dios es capaz de iluminar y derramar su amor en todo momento. He conocido personas extraordinarias, personas que se levantan todos los días con la única intención de ser mejores que ayer, personas que trabajan y se esfuerzan por salir adelante en medio de la monotonía y las carencias que caracterizan a la cárcel.

Pero no todo es color rosa. También he conocido la tristeza, el enojo, la injusticia, el desánimo y la sed del perdón por los errores que se cometieron.

Como grupo apostólico, la pandemia fue un gran reto y una oportunidad de encontrar nuevas formas de estar en contacto con los hermanos del penal. Pues fueron casi 2 años en los que no pudimos visitarlos. Les mandábamos cartas, despensas, dulces, folletos y carteles, hacíamos rosarios virtuales para pedir por su salud, entre muchas otras cosas. Jesús nos regaló la creatividad para estar cerca de ellos a pesar de la distancia.

El año pasado, en el mes de diciembre, nos informaron que por fin podríamos visitar el penal. No puedo describir la alegría que sentí, fueron unas visitas increíbles en las que pude comprobar que todas las oraciones que ofrecimos por los hermanos rindieron frutos. Nos recibieron con mucha alegría y sobre todo esperanza de salir adelante incluso en medio de una pandemia. Fue como volverse a encontrar con un viejo amigo.

Debido al avance de la variante Omicrón, las visitas al penal nuevamente se suspendieron desde el mes de enero. Habíamos tenido mucha incertidumbre sobre si esta Semana Santa podríamos realizar nuestras misiones. Con la bendición de Dios ¡si lo logramos!

Esta Semana Santa, tuvimos la oportunidad de visitar el penal el Jueves, Viernes y Sábado Santo. Con la ayuda de todos los grupos apostólicos que visitamos el penal, logramos llevar más de 1200 despensas, realizar las celebraciones y oficios de cada día, platicar y realizar dinámicas y sobre todo, llevarles un mensaje de esperanza a todos los hermanos presos. Recordarles que tenemos un Jesús vivo que no se mide en misericordia y amor.

Mi corazón rebosa de amor por saber que estas misiones, nuevamente logré encontrarme a Jesús en el penal. Le pido que continúe bendiciendo a todos los grupos que con mucha alegría y entrega visitan las cárceles del mundo.

Hoy te quiero invitar a que te des la oportunidad de visitar el penal. Se necesitan muchos jóvenes como tú y yo que se animen a llevar su alegría y esperanza a las personas encarceladas. ¡No tengas miedo!, te prometo que no es como lo imaginas.

Agradezco también al Padre Stefano por su apoyo, compromiso y amor hacia la misión que le ha tocado realizar. ¡Pidamos por más vocaciones sacerdotales!

Para finalizar, me gustaría dejarles este mensaje: la cárcel no es un lugar olvidado por Dios, es un lugar que necesita de nuestras oraciones y sobre todo de nuestra fe. Fe en todas las personas que lo habitan y que se esfuerzan por ser mejores para algún día reintegrarse a la sociedad.

¡Muchas gracias y saludos desde México!

Tere Montzerrat Polanco Nùñez

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Blanco, un cantante a san Pietro

Lunedì 18 aprile, prima della Veglia con il pontefice, piazza San Pietro è stata il centro di un grande momento di festa. Dopo due anni di pandemia, don Michele Falabretti (responsabile dell’Ufficio nazionale della Cei per la pastorale giovanile) ha organizzato un concerto prima del momento di preghiera per il Lunedì dell’Angelo. L’evento, avvenuto in concomitanza con il forte pellegrinaggio dei laici, ha riscosso moltissimo successo sul pubblico giovanile (circa 57000), ma anche in quello adulto. I ragazzi sono stati accompagnati di fatto da numerosi adulti, per lo più educatori, sacerdoti, volontari e famigliari. Inoltre, successivamente all’annuncio che le udienze generali riprenderanno a tenersi nella Piazza, il concerto è segno di un ritorno alla normalità che manca ormai da troppi anni. Averlo organizzato in periodo pasquale è un modo per incoraggiare le persone a credere in Gesù; metaforicamente si può vedere in esso una nuova rinascita proprio come quella che Gesù ha mostrato ai credenti “vincendo le tenebre della morte” riprendendo il Papa.

Per l’occasione, è stato invitato Riccardo Fabbriconi, in arte Blanco, fresco vincitore del Festival di Sanremo 2022 nonché rappresentante, insieme a Mahmood, dell’Italia agli Eurovision Song Contest di Torino (martedì 10 e sabato 14 maggio. Aver scelto un volto noto come Blanco (oltre a lui erano presenti anche Giovanni Scifoni, Michele la Ginestra e Matteo Romano) è indubbiamente una mossa di apertura verso i più giovani che sempre più spesso si fanno condizionare dai grandi abbandonando gli oratori e i centri pastorali. Essendo Blanco la star del momento, scegliere una persona così significa anche da parte della Chiesa cercare di “riallacciare” i rapporti con un mondo giovanile sempre meno religioso e più ateo. Riccardo ha tatuato sul petto un angelo con una corona di spine, simbolo, spiegato dall’artista stesso che rappresenta la sua doppia natura: da una parte “bravo”, ma dall’altra “marcio”. L’angelo fa però intuire come la persona abbia avuto un’educazione religiosa e cristiana quindi avesse a che fare con l’evento organizzato dalla Chiesa. La sua esibizione è avvenuta in mondovisione, nel pomeriggio prima dell’arrivo di Papa Francesco. Tra i suoi brani ha portato Brividi, canzone vincitrice di Sanremo, e Blu Celeste, celebre canzone del suo omonimo album. Quest’ultima è un inno all’amore, l’arma più potente che l’uomo ha a disposizione. In questo caso, purtroppo è rivolto ad una persona che non c’è più e non ritorna.

“Quando il cielo si fa blu, penso solo a te. Chissà come stai lassù ogni notte. È blu celeste”

In tutto il brano l’artista ha sensi di colpa, si sfoga, salvo poi autoassolversi; concetto che si presta all’idea di perdono cristiano. Possiamo quindi affermare quasi sicuramente che la scelta di far cantare Blanco non sia stata dovuta al momento che sta vivendo, ma anche all’abilità di scrittura, profonda e sensibile di Riccardo che in qualche modo, nonostante la giovane età, può essere d’esempio per milioni di persone.

Marco Ciniero, Milano

Il multiverso o Dio?

«Poiché ci sono troppi / molti universi come poter pensare a un Dio capace di governare mondi così distanti tra loro? il razionale davvero non implica l’ipotesi di Dio?».

Trovando questa citazione ho cercato di dare una risposta, senza la pretesa di studi accurati, però con la curiosità che mi pervade anche per gli studi di astrofisica che affronto in università.

Subito è affiorata una domanda: “Oggi si è meno credenti? Cosa è cambiato rispetto al passato?”.

Credo di sì. È possibile vedere come, passando da una generazione all’altra, la percentuale delle persone credenti diminuisca drasticamente, passando dalla generazione dei nostri nonni/bisnonni, così fedeli e devoti, alla generazione dei nostri genitori, in cui il concetto di fede per lo più esiste ancora ma è sicuramente meno sentito, fino ad arrivare alla generazione di noi ragazzi, dove la maggior parte non crede all’esistenza di alcun dio.

Questo calare della fede lo attribuisco all’evoluzione scientifica che ha caratterizzato e sta caratterizzando il nostro periodo. L’aumento delle scoperte scientifiche ha portato ad una totale fiducia nella scienza, e a credere a tutto ciò che possa essere spiegato in maniera razionale e scientifica.

Personalmente, il mio distacco dalla fede, e dal pensiero che possa esserci un Dio, è dovuto soprattutto con le scoperte scientifiche legate all’universo. Negli ultimi secoli l’universo conosciuto (inteso come tutto ciò che ‘circonda il nostro pianeta) è aumentato sempre di più, fino a raggiungere dimensioni spaventose, ed è ancora molto da scoprire. Siamo passati dalla concezione che l’universo si espandesse fino al sistema solare, fino ad arrivare ad osservare galassie distanti da noi miliardi e miliardi di anni luce.

Tutto questo mi ha portato a chiedere se esistesse veramente un Dio in grado di governare e vegliare su un mondo così enormemente vasto. Una risposta più plausibile potrebbe essere che di Dio ne esista più di uno, ma allora quanti ce ne devono essere? Gli ultimi studi parlano di un universo in espansione, quindi anche il numero di Dio è in espansione? Era già difficile credere all’esistenza di un Dio, figuriamoci alla possibilità che ce ne siano infiniti.

Allora la risposta più semplice è che non c’è un Dio (o almeno inteso come nella Bibbia).

Alessandro Bevilacqua – Napoli

Irenismo o violenza

Oltre il solito irenismo: spezzare la spirale di violenza

A uscire stravolto dall’escalation della crisi russo-ucraina non è soltanto il sistema delle relazioni internazionali plasmato dalla fine della “guerra fredda”, ma anche l’edificio teorico che si è strutturato nel tempo attraverso il dibattito tra gli studiosi delle istituzioni militari e dei sistemi di sicurezza. I riflettori pubblici e mediatici hanno così dato risalto a un dialogo culturale su pace, guerra giusta e disarmo che ha antiche radici.

A chi si occupa di istituzioni militari e di ambiti disciplinari ad esso collegati non deve suonare strana l’affermazione secondo cui è inverosimile che il paradigma bellico prevalente fino alla metà del secolo scorso possa tornare a dominare le controversie tra Stati nel XXI secolo. Le new wars del nuovo millennio, secondo la definizione di Mary Kaldor, non sono assolute, totali e di massa come quelle devastanti che si sono consumate dall’età napoleonica alla Seconda guerra mondiale. Terrorismo, guerre asimmetriche, armi di distruzione di massa, operazioni di peace-making e peace-keeping e cyberguerre sono concetti entrati prepotentemente nel dibattito accademico e pubblico.

Si è cercato finanche di scacciare via dalla psicologia collettiva lo spettro della guerra, trasformando i Ministeri della Guerra in Ministeri della Difesa e sancendo il ripudio della guerra nelle Costituzioni: se c’è una lezione del secondo dopoguerra che merita oggi di essere richiamata alla memoria, è quella del “disarmo del discorso pubblico”. Non è stato certo sufficiente perché i conflitti armati abbandonassero la scena mondiale, tanto che oggi è in corso una “guerra mondiale a pezzi”, come bene ha suggerito il Santo Padre Francesco. Ora, con la crisi russo-ucraina, si sono riaccesi i toni di un dibattito sul mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che, fino a vent’anni fa, sarebbe rimasto confinato entro ambienti specialistici: il difetto di origine del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il rischio nucleare e la militarizzazione del conflitto sono alcuni dei temi di discussione.

Su questi argomenti converrà sviluppare alcune considerazioni. È sorta una discussione appassionata, ma spesso avvelenata dalle dinamiche da tifoseria dei social, sull’interpretazione del dettato costituzionale dinanzi a una guerra di difesa combattuta contro una grande potenza da uno Stato che si trova alla frontiera dell’Alleanza atlantica e dell’Unione Europea. Nel contesto di impotenza delle Nazioni Unite, è prevalso il “diritto naturale di autotutela individuale” (art. 51 Statuto ONU) e gli Stati membri delle due organizzazioni atlantica ed europea hanno optato per il sostegno militare incondizionato all’Ucraina.

Di qui la dialettica politica e culturale sull’art. 11 della Costituzione italiana che, secondo giuristi come Michele Ainis, sarebbe stato infangato dalla decisione di inviare armamenti agli ucraini (tra cui, in base alle indiscrezioni, sistemi anticarro Spike e antiaereo Stinger, mitragliatrici leggere di tipo MG e pesanti Browning e mortai); secondo altri, non verrebbe violato poiché le armi inviate verranno utilizzate in funzione difensiva. Viene anche da chiedersi: di quale avviso sarebbero due padri costituenti che concepirono i primi fondamentali articoli della Costituzione come Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira? In un’intervista rilasciata al “Corriere” nel 1991, Dossetti ha offerto un’interpretazione teleologica molto stringente dell’art. 11, sostenendo che gli sia stato fatto dire “ciò che non corrisponde né alla sua lettera né al suo spirito”. La Pira, invece, ha sempre insistito, persino nella fase della “distensione” degli anni ’70, sul pericolo “apocalittico” dell’atomica, ancora oggi non del tutto scongiurato (soltanto l’anno scorso è entrato in vigore il Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari).

È a questo punto che si possono trarre alcune riflessioni sul problema della militarizzazione delle controversie tra Stati. Innanzitutto, una volta che le armi sono state fornite allo Stato aggredito, non esiste certezza alcuna che vengano utilizzate per gli scopi prefissati dagli Stati fornitori, dato che di armamenti dati per scopi difensivi potrebbero appropriarsi gli invasori, bande armate irregolari, truppe di mercenari o persino la criminalità organizzata. Come dimostrato dalle vicende irachene e afghane, fornire armamenti a paesi caratterizzati da un quadro politico-istituzionale instabile equivale a preparare il terreno per futuri e più sanguinosi conflitti. In secondo luogo, armi chiamano armi e lo strumento analitico della teoria dei giochi fa chiarezza sul “dilemma del prigioniero” che consegue dalla militarizzazione sine die di un conflitto. Se uno Stato parte nella controversia decide di dotarsi di unità militari e armi di crescente potenziale distruttivo, l’altro Stato lo imiterà nella corsa alle armi, portando a un circolo vizioso e, con lo scoppio della guerra, a una spirale di violenza senza fine.

In sostanza, se non si pongono per lo meno limiti certi all’invio delle armi, c’è da aspettarsi non solo un allargamento, ma anche un’intensificazione delle condotte belliche. Potrebbe tuonare ancora oggi La Pira: “Tutti i problemi, politici, culturali, spirituali, sono tutti legati a questa frontiera dell’Apocalisse. O finisce tutto, o comincia tutto. O eliminare l’atomica o saremo tutti quanti eliminati globalmente, in un contesto atomico.” È principalmente per questa ragione che, mentre la guerra infuria, bisogna restituire dignità alla via del dialogo e della diplomazia per coltivare la “speranza contro ogni speranza”.

Francesco Laureti – Milano

Privilegiati della Pasqua

Noi i privilegiati!
Omelia per la veglia di Pasqua di risurrezione, 2022

Cristo è risorto, è veramente risorto.
Voi, noi, siamo dei privilegiati perché possiamo annunciare, cantare, urlare queste parole di vita.
Non semplici parole di fiducia nella vita, ma parole di quanti credono alla vita che nasce dalla morte in forza dell’amore di Cristo.
Voi, noi, siamo dei privilegiati perché a differenza dei primi testimoni sappiamo cosa diciamo quando cantiamo e proclamiamo: “Cristo è risorto, è veramente risorto!”, perché i dubbi di quelle prime donne e dei discepoli sono ormai fugati.
Voi, noi, siamo dei privilegiati perché il battesimo che abbiamo ricevuto, è partecipazione alla morte e risurrezione di Gesù: se siete stati completamente uniti a Lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione! (cf. Rm 6,3ss)
Voi, noi, siamo dei privilegiati perché viviamo di una vita che nasce dall’amore di un Dio che ha letteralmente perso la testa per noi, fino a morire sulla Croce, perché siamo belli ai suoi occhi.
Voi, noi siamo dei privilegiati perché chiamati come i primi discepoli, le prime donne, ad annunciare che Cristo è risorto, è veramente risorto in un mondo nuovamente pagano – o quasi -, in un mondo indifferente a Dio.
Siamo consapevoli di questo privilegio o preferiamo restare nel chiuso delle nostre case, delle nostre tristezze, come i discepoli di Emmaus?
E non diciamo: ma io cosa posso fare?

La Pasqua non è solo un’emozione, la paura di non trovare un corpo morto, un punto di riferimento, ma un dubbio che diventa verità, perché muove dall’incontro delle donne e dei discepoli con l’indicibile e il confronto con le Scritture: “non ci aveva forse detto che sarebbe morto e dopo tre giorni risorto?”, “non ci ardeva forse il cuore quando ci spiegava le Scritture?
Ecco il metodo, ecco quello che possiamo fare: pensare insieme e verificare con le Scritture e la Chiesa, trovarci per pregare e ragionare insieme. Non diciamo, ma io cosa posso fare?!

Voi, noi, siamo dei privilegiati perché celebriamo la Pasqua con le nostre famiglie, tra le nostre chiese e città ancora in piedi, non ferite dalle guerre.
E non diciamo: ma io cosa posso fare?

Io posso attingere dal patrimonio della Chiesa che almeno dal 1968, per una felice intuizione di san Paolo VI, comincia ogni anno con un invito a ragionare e fare la pace.
«La pace – diceva qualche giorno fa il cardinale di Bologna Matteo Zuppi – non significa essere neutrali, negare le responsabilità, non schierarsi con le vittime. Ma significa guardare oltre il presente per permettere il futuro. Non siamo chiamati a essere pacifisti ma a farci artigiani della pace, che è il vero modo di essere realisti, dentro la storia. Abbiamo pensato che la pace fosse un dato acquisito. Anche durante la pandemia abbiamo reagito nello stesso modo, come si potesse restare sani in un mondo malato e gli altri non ci riguardassero.»

Voi, noi, siamo dei privilegiati: approfittiamo di questo dono, di questa responsabilità per correre come le donne, per piangere come Maria, per amare come il discepolo amato, per confermare come Pietro così da poter vivere e annunciare a tutti che: Cristo è risorto, è veramente risorto!

UN RE CON I PIEDI SCALZI

Gesù non era sicuramente un uomo da pantofole!

Non puoi andare a Gerusalemme in pantofole, non puoi percorrere la via della Croce in pantofole. Forse puoi andare a piedi scalzi, ma in pantofole no!

A piedi scalzi certamente camminava Gesù, era un re con i piedi scalzi, forse per questo le folle mettono dei mantelli sulla sua strada, perché la gente semplice spesso sa cosa deve veramente fare.

A piedi scalzi, per questo Maria, la sua amica Maria cosparse di olio di Nardo i piedi di Gesù, piedi stanchi ma non abbastanza; un gesto che poi Gesù proporrà ai discepoli lavando loro i piedi nell’Ultima Cena.

Prima di andare a Gerusalemme Gesù si era fermato dai suoi amici Maria, Marta e Lazzaro per rinfrancarsi, per condividere i progetti e il cammino. Il valore dell’amicizia.

Gesù va a Gerusalemme con una regalità paradossale, è un re sul dorso di un asino, un re verso il quale religione e politica si oppongono, un re che non mischia Cesare e Dio.

È un re che fa semplicemente la volontà di Dio, che gode della fiducia di Dio perché vive della fiducia. E qui dovremmo domandarci se abbiamo e se offriamo fiducia, in chi riponiamo la nostra fiducia.

Quella di Gesù non è una fiducia passiva, ma attiva, che si sa incontrare i più poveri, dimenticati, oppressi e anche se tacessero i discepoli di fronte a ciò, griderebbero le pietre alle folle che cercano risposte; griderebbero le donne sulla strada della Croce, i due ladroni, le donne con Giuseppe d’Arimatea, quelle donne davanti al sepolcro vuoto.

Anche non vogliamo celebrare questa Santa Settimana da protagonisti: troviamo ogni giorno 10 minuti per rileggere e ascoltare la parola di Dio, per ascoltare la storia intorno a noi, non solo quando dice quello che vogliamo.

Anche noi vogliamo compiere piccoli gesti di pace con i quali lavare i piedi scalzi della nsotra umanità, perché solo così si costruisce la Pace.

«Il peccato del mondo – diceva tempo fa il Card. Martini – non deve essere minimizzato, né ridotto a debolezze personali. Il peccato del mondo è un appello a decidere. Chi si spinge in questa lotta al punto di accettare, come Gesù, svantaggi, ingiurie e sofferenza? Il mondo reclama a gran voce giovani coraggiosi… Io mi aspetto il rinnovamento soprattutto dai giovani… A volte i loro gesti di pace sono solo brace su cui dobbiamo soffiare per accendere il fuoco… Consegniamo ai nostri figli un mondo che non sia rovinato. Facciamo sì che siano radicati nella tradizione, soprattutto nella Bibbia. Leggiamo con loro. Abbiamo profonda fiducia in loro. Non dimentichiamo di dare loro anche dei limiti. Impareranno a sopportare difficoltà e ingiurie se per loro la giustizia conta di più di ogni altra cosa.» (Conversazioni notturne a Gerusalemme). Questo significa camminare con i piedi scalzi di Gesù.

GIUSTIZIA E SISTEMA PENALE

Gli studi seguiti, il lavoro che svolgo e, perché no, questa collaborazione giornalistica, mi hanno portato a riflettere con più metodo su un tema molto delicato, che sta alla base di ogni comunità di persone: la pena come conseguenza di un comportamento considerato riprovevole dall’ordinamento. Sarà una riflessione complessa che richiederà qualche puntata e un po’ di spazio, per questo verrà pubblicata su IlGiovaniBarnabiti come estratto della pubblicazione totale sul blog.

In questo articolo parleremo di un tema molto delicato, che sta alla base di ogni comunità di persone: la pena come conseguenza di un comportamento considerato riprovevole dall’ordinamento.
Il modus con cui l’ordinamento punisce i rei mostra la condizione dell’individuo all’interno della società e di come questa risponda alle esigenze del vivere comune, comprensivo di tutte le caratteristiche umane, tra cui commettere delle azioni che ledano diritti fondamentali altrui, tutelati dal sistema penale.
I nostri giovani lettori potrebbero pensare che il carcere, la prigione, siano da sempre lo strumento che la società adopera per contenere chi commette dei reati, tuttavia così non è, o meglio, così non è sempre stato.
Oggi intendo fare una prima analisi di come l’umanità punisca le condotte pericolose dei suoi singoli, partendo da una breve premessa storica, per concentrarci successivamente sulla direzione futuribile.
Le prime testimonianze di prigioni o carceri si hanno nella Bibbia, nell’antichità, particolarmente nella cultura greco romana, in cui si utilizzavano delle gabbie per “contenere” gli uomini, in attesa di un verdetto che potesse portare in seguito alla pena vera e propria, di natura corporale o capitale.
Erano dunque il dolore o la morte a punire l’uomo, non la reclusione, che era solo uno strumento cautelare per garantire poi l’esecuzione.
Nelle epoche successive, durante il medioevo, si iniziò a teorizzare una visione cristiana della pena, in cui la reclusione del reo in prigione era considerazione di un’espiazione, in cui le azioni delittuose coincidevano con dei peccati, in modo tale il tempo passato in stato di privazione della libertà personale era del tutto propedeutico anche ad una salvezza dell’anima.
Fu dunque la dottrina cristiana a iniziare a ridurre le pene corporali o capitali, sostituendole per fatti di minore gravità con una detenzione, che compiva anche l’ovvio effetto di tenere distaccati i soggetti pericolosi dalla comunità, delimitando a casi gravi i tipici spargimenti di sangue conseguenti ai processi della storia.
Durante l’illuminismo, con la nascita di grandi intellettuali, anche giuristi e penalisti, si rivoluzionò il sistema giuridico e di conseguenza quello punitivo.
Il carcere diventò la vera e propria pena, poiché in seguito a dibattiti filosofici, politici e sociali, si giunse alla conclusione che non fosse più accettabile punire corporalmente o con la morte gli imputati considerati colpevoli.
Questo principio, all’inizio soltanto teorico, si strutturò nel tempo e riuscì a trovare la propria dimensione anche a livello ordinamentale e non più soltanto a livello filosofico, in età moderna e contemporanea, in cui la reclusione in carcere diventò la pena.
In età moderna si cercò anche di stabilire con limiti più precisi il funzionamento degli apparati carcerari e a salvaguardare i diritti dei detenuti, considerando una funzione nuova per la detenzione, che superava la vecchia concezione cristiana di espiazione, adducendo un nuovo principio laico e statale di risocializzazione del reo, soggetto che aveva commesso un reato, e che andava punito per poter essere successivamente reinserito nella società, con la ragionevole certezza che non commettesse più altri reati e che, anzi, diventasse un individuo utile.
Tale onorevole aspettativa, che tutt’oggi sussiste, è ciò che ci porta a riflettere su questo tema, se davvero la detenzione in carcere sia strumentale alla risocializzazione.
Nella società di oggi è dunque naturale chiederci quanto sia ancora necessaria la pena detentiva, alla luce di tante problematiche che il sistema penitenziario presenta, soprattutto in Italia, quali sovraffollamento, scarsa igiene generale e poca attenzione ai diritti essenziali dell’uomo detenuto.
Inoltre c’è un secondo aspetto da dover considerare, cioè se effettivamente privare della libertà una persona e metterla in contatto continuato con altri criminali, porti ad un esito positivo nella vita del detenuto e non ad una esclusione ancor più maggiore di questi, che molto spesso in seguito all’esecuzione di condanne diventa ancor più esperto di criminalità e una volta tornato in libertà spesso ricade nella commissione di altri reati, anche a fronte di un pregiudizio sociale e di un’ esclusione che questi subisce dalla comunità esterna, finendo in un circolo vizioso, che la realtà ci racconta essere presente in una maggioranza dei casi, di cui tantissimi casi di recidiva ci testimoniano la verità di quanto detto.
Nonostante ci siano anche episodi di successo rieducativo delle carceri italiani, con esempi di istituti in cui varie attività artigianali ed artistiche coinvolgono i detenuti, aiutandoli a risocializzarsi, la realtà precedentemente descritta è molto più spesso ciò che si verifica nella realtà.
La situazione paradossale è talmente evidente che lo stesso stato ha introdotto e attuato con generosità diverse misure alternative alla detenzione in carcere, quali gli arresti domiciliari, la libertà vigilata o i lavori socialmente utili, iniziando a snocciolare un problema molto complesso e che ad oggi non presenta ancora una vera e propria soluzione praticabile.
La cultura e l’intelligenza contemporanea è chiamata a valutare quale debba essere il nuovo piano di azione riguardo al sistema penale e penitenziario, perché le criticità appena accennate sono molte e complesse.
Sicuramente un primo importante impulso deve essere di ridurre a casi limite la pena detentiva, riguardo solamente a fattispecie che necessitino di tale estrema ratio, ad esempio per soggetti pericolosi socialmente o per reati violenti e gravi.
Le misure alternative alla detenzione devono essere il nuovo mezzo di risocializzazione, in particolare i lavori di pubblica utilità credo possano essere lo strumento giusto e migliore per garantire risocializzazione senza tralasciare la dignità umana, andando dunque verso una previsione più strutturata e meglio organizzata di tale istituto.
Un altro metodo punitivo e altrettanto deterrente è quello riguardante le sanzioni pecuniarie, per cui scontare la pena significa pagare somme, più o meno ingenti, di denaro in favore dello stato e a favore delle persone offese a titolo di risarcimento danni.
Anche questa situazione eleva la pena a dei principi più umani e più in linea con la filosofia e la sociologia contemporanea, poiché non degradante di diritti umani fondamentali.
Un’ulteriore possibilità potrebbe essere un controllo più serrato sui cittadini colpevoli attraverso i potentissimi mezzi tecnologici odierni, che verrebbero privati “soltanto” di una libertà di avere privacy, punizione pesante ma sicuramente meno invasiva e degradante rispetto ad una reclusione.
Oggi è importante iniziare a pensare e a parlare di questo tema, affinché si generi in tutta la società un input di riflessione riguardo a questo aspetto della vita comune.
Di particolare importanza e dunque meritevole di analisi e di miglioramento è per noi cristiani il tema dei diritti dell’uomo, di come questi diritti rimangano anche per gli uomini “erranti”, poiché agli occhi di Dio tutti lo siamo ma nessuno viene lasciato indietro.
Paolo Peviani – Pavia

“Rockeggiando con il Natale”

Certo il Natale è ormai passato, ma non può passare la voglia di ritornare su cose accadute e magari di cui siamo stati protagonisti di cui voglio scrivere. Questo è il bello del nostro essere uomini e donne.

Cosa vuol dire pregare? Quanti modi ci sono per pregare? Come possiamo noi giovani avvicinarci alla preghiera per comprendere più a fondo il vero significato del Natale?

Per rispondere a queste domande, noi Giovani della Parrocchia Beata Vergine Maria Madre della Divina Provvidenza di Firenze abbiamo organizzato una veglia di preghiera per il Natale decisamente particolare. In un’unione tra musica pop e rock, letture dal Vangelo e pensieri da noi scritti la ricetta per aiutarci a riflettere e a pregare da una prospettiva meno classica e in una forma che ai più potrebbe sembrare alternativa e inusuale.

Dopo averli ascoltati in qualche locale fiorentino, abbiamo invitato a suonare un gruppo di giovani musicisti emergenti, i Revevants, ai quali è stato chiesto, in un primo momento, di mandarci alcune loro canzoni e i testi, per poi scegliere quelle a nostro parere più adatte per una lettura e interpretazione in chiave cristiana: “Ci sembrava un bel progetto ed eravamo in buoni rapporti con Padre Giannicola, per questo abbiamo accettato volentieri l’invito. È stato interessante vedere come i nostri testi, di per sé lontani dalla religione, potessero essere riallacciati al Natale e in generale al cattolicesimo”, ci ha detto il cantante del gruppo, Niccolò.

Dopo aver analizzato e scelto testi e canzoni, abbiamo iniziato a lavorare allo “spettacolo” vero e proprio: abbiamo scelto alcuni passi dal Vangelo e scritto alcune riflessioni, prendendo spunto da frasi o temi emersi nei brani, cercando di chiederci soprattutto quale senso abbia oggi il Natale, e come poter vivere questo evento nella nostra realtà storica.

Ma la preghiera non è solo parole è anche corpo. Con l’aiuto del coreografo Gabriel Zoccola Iturraspe, abbiamo creato una coreografia adatta a essere messa in scena in un’ambiente particolare come una chiesa; con un curato impianto luci poi è stata creata un’atmosfera suggestiva e carica di significati perché gli “spettatori” potessero entrare un po’ di più nel mistero della fede.

Lo spettacolo si è tenuto infine la sera del 22 dicembre, alternando momenti di musica dal vivo, riflessione, danza e preghiera, e si è concluso con un gesto in ricordo dei migranti e dei profughi nell’Est Europa: abbiamo illuminato tante piccole luci verdi, come simbolo dell’impegno di solidarietà di molti polacchi che, al confine con la Bielorussia, accendono lanterne verdi nelle loro case per indicare che sono luoghi sicuri, in cui è possibile trovare conforto e riparo per i migranti mediorientali ammassati sul confine con l’Europa.

Sant’Ireneo (III secolo) scriveva che Dio si è fatto uomo per insegnare la sua lingua agli uomini, ma anche per imparare la lingua degli uomini, un obiettivo per avvicinare l’Uno agli altri e viceversa. Oggi il linguaggio di Dio è abbastanza lontano da quello degli uomini e specialmente dei giovani: questo nostro lavorare con i Revevants nel suo piccolo ha cercato di riavvicinare la lingua di Dio alla lingua dei giovani.

D’altra parte per i Revevants stessi, ci hanno detto, «ne é valsa la pena. Le persone presenti sembravano interessate e anche noi ci siamo sentiti in una posizione diversa dal solito (abituati a suonare in situazioni diverse come pub e bar a giro per la Toscana). Complessivamente è stata un’esperienza nuova ma speciale.

Come nuovo e speciale è sempre il Natale!

Giulia Centauro – Firenze