GIUSTIZIA E SISTEMA PENALE

Gli studi seguiti, il lavoro che svolgo e, perché no, questa collaborazione giornalistica, mi hanno portato a riflettere con più metodo su un tema molto delicato, che sta alla base di ogni comunità di persone: la pena come conseguenza di un comportamento considerato riprovevole dall’ordinamento. Sarà una riflessione complessa che richiederà qualche puntata e un po’ di spazio, per questo verrà pubblicata su IlGiovaniBarnabiti come estratto della pubblicazione totale sul blog.

In questo articolo parleremo di un tema molto delicato, che sta alla base di ogni comunità di persone: la pena come conseguenza di un comportamento considerato riprovevole dall’ordinamento.
Il modus con cui l’ordinamento punisce i rei mostra la condizione dell’individuo all’interno della società e di come questa risponda alle esigenze del vivere comune, comprensivo di tutte le caratteristiche umane, tra cui commettere delle azioni che ledano diritti fondamentali altrui, tutelati dal sistema penale.
I nostri giovani lettori potrebbero pensare che il carcere, la prigione, siano da sempre lo strumento che la società adopera per contenere chi commette dei reati, tuttavia così non è, o meglio, così non è sempre stato.
Oggi intendo fare una prima analisi di come l’umanità punisca le condotte pericolose dei suoi singoli, partendo da una breve premessa storica, per concentrarci successivamente sulla direzione futuribile.
Le prime testimonianze di prigioni o carceri si hanno nella Bibbia, nell’antichità, particolarmente nella cultura greco romana, in cui si utilizzavano delle gabbie per “contenere” gli uomini, in attesa di un verdetto che potesse portare in seguito alla pena vera e propria, di natura corporale o capitale.
Erano dunque il dolore o la morte a punire l’uomo, non la reclusione, che era solo uno strumento cautelare per garantire poi l’esecuzione.
Nelle epoche successive, durante il medioevo, si iniziò a teorizzare una visione cristiana della pena, in cui la reclusione del reo in prigione era considerazione di un’espiazione, in cui le azioni delittuose coincidevano con dei peccati, in modo tale il tempo passato in stato di privazione della libertà personale era del tutto propedeutico anche ad una salvezza dell’anima.
Fu dunque la dottrina cristiana a iniziare a ridurre le pene corporali o capitali, sostituendole per fatti di minore gravità con una detenzione, che compiva anche l’ovvio effetto di tenere distaccati i soggetti pericolosi dalla comunità, delimitando a casi gravi i tipici spargimenti di sangue conseguenti ai processi della storia.
Durante l’illuminismo, con la nascita di grandi intellettuali, anche giuristi e penalisti, si rivoluzionò il sistema giuridico e di conseguenza quello punitivo.
Il carcere diventò la vera e propria pena, poiché in seguito a dibattiti filosofici, politici e sociali, si giunse alla conclusione che non fosse più accettabile punire corporalmente o con la morte gli imputati considerati colpevoli.
Questo principio, all’inizio soltanto teorico, si strutturò nel tempo e riuscì a trovare la propria dimensione anche a livello ordinamentale e non più soltanto a livello filosofico, in età moderna e contemporanea, in cui la reclusione in carcere diventò la pena.
In età moderna si cercò anche di stabilire con limiti più precisi il funzionamento degli apparati carcerari e a salvaguardare i diritti dei detenuti, considerando una funzione nuova per la detenzione, che superava la vecchia concezione cristiana di espiazione, adducendo un nuovo principio laico e statale di risocializzazione del reo, soggetto che aveva commesso un reato, e che andava punito per poter essere successivamente reinserito nella società, con la ragionevole certezza che non commettesse più altri reati e che, anzi, diventasse un individuo utile.
Tale onorevole aspettativa, che tutt’oggi sussiste, è ciò che ci porta a riflettere su questo tema, se davvero la detenzione in carcere sia strumentale alla risocializzazione.
Nella società di oggi è dunque naturale chiederci quanto sia ancora necessaria la pena detentiva, alla luce di tante problematiche che il sistema penitenziario presenta, soprattutto in Italia, quali sovraffollamento, scarsa igiene generale e poca attenzione ai diritti essenziali dell’uomo detenuto.
Inoltre c’è un secondo aspetto da dover considerare, cioè se effettivamente privare della libertà una persona e metterla in contatto continuato con altri criminali, porti ad un esito positivo nella vita del detenuto e non ad una esclusione ancor più maggiore di questi, che molto spesso in seguito all’esecuzione di condanne diventa ancor più esperto di criminalità e una volta tornato in libertà spesso ricade nella commissione di altri reati, anche a fronte di un pregiudizio sociale e di un’ esclusione che questi subisce dalla comunità esterna, finendo in un circolo vizioso, che la realtà ci racconta essere presente in una maggioranza dei casi, di cui tantissimi casi di recidiva ci testimoniano la verità di quanto detto.
Nonostante ci siano anche episodi di successo rieducativo delle carceri italiani, con esempi di istituti in cui varie attività artigianali ed artistiche coinvolgono i detenuti, aiutandoli a risocializzarsi, la realtà precedentemente descritta è molto più spesso ciò che si verifica nella realtà.
La situazione paradossale è talmente evidente che lo stesso stato ha introdotto e attuato con generosità diverse misure alternative alla detenzione in carcere, quali gli arresti domiciliari, la libertà vigilata o i lavori socialmente utili, iniziando a snocciolare un problema molto complesso e che ad oggi non presenta ancora una vera e propria soluzione praticabile.
La cultura e l’intelligenza contemporanea è chiamata a valutare quale debba essere il nuovo piano di azione riguardo al sistema penale e penitenziario, perché le criticità appena accennate sono molte e complesse.
Sicuramente un primo importante impulso deve essere di ridurre a casi limite la pena detentiva, riguardo solamente a fattispecie che necessitino di tale estrema ratio, ad esempio per soggetti pericolosi socialmente o per reati violenti e gravi.
Le misure alternative alla detenzione devono essere il nuovo mezzo di risocializzazione, in particolare i lavori di pubblica utilità credo possano essere lo strumento giusto e migliore per garantire risocializzazione senza tralasciare la dignità umana, andando dunque verso una previsione più strutturata e meglio organizzata di tale istituto.
Un altro metodo punitivo e altrettanto deterrente è quello riguardante le sanzioni pecuniarie, per cui scontare la pena significa pagare somme, più o meno ingenti, di denaro in favore dello stato e a favore delle persone offese a titolo di risarcimento danni.
Anche questa situazione eleva la pena a dei principi più umani e più in linea con la filosofia e la sociologia contemporanea, poiché non degradante di diritti umani fondamentali.
Un’ulteriore possibilità potrebbe essere un controllo più serrato sui cittadini colpevoli attraverso i potentissimi mezzi tecnologici odierni, che verrebbero privati “soltanto” di una libertà di avere privacy, punizione pesante ma sicuramente meno invasiva e degradante rispetto ad una reclusione.
Oggi è importante iniziare a pensare e a parlare di questo tema, affinché si generi in tutta la società un input di riflessione riguardo a questo aspetto della vita comune.
Di particolare importanza e dunque meritevole di analisi e di miglioramento è per noi cristiani il tema dei diritti dell’uomo, di come questi diritti rimangano anche per gli uomini “erranti”, poiché agli occhi di Dio tutti lo siamo ma nessuno viene lasciato indietro.
Paolo Peviani – Pavia

“Rockeggiando con il Natale”

Certo il Natale è ormai passato, ma non può passare la voglia di ritornare su cose accadute e magari di cui siamo stati protagonisti di cui voglio scrivere. Questo è il bello del nostro essere uomini e donne.

Cosa vuol dire pregare? Quanti modi ci sono per pregare? Come possiamo noi giovani avvicinarci alla preghiera per comprendere più a fondo il vero significato del Natale?

Per rispondere a queste domande, noi Giovani della Parrocchia Beata Vergine Maria Madre della Divina Provvidenza di Firenze abbiamo organizzato una veglia di preghiera per il Natale decisamente particolare. In un’unione tra musica pop e rock, letture dal Vangelo e pensieri da noi scritti la ricetta per aiutarci a riflettere e a pregare da una prospettiva meno classica e in una forma che ai più potrebbe sembrare alternativa e inusuale.

Dopo averli ascoltati in qualche locale fiorentino, abbiamo invitato a suonare un gruppo di giovani musicisti emergenti, i Revevants, ai quali è stato chiesto, in un primo momento, di mandarci alcune loro canzoni e i testi, per poi scegliere quelle a nostro parere più adatte per una lettura e interpretazione in chiave cristiana: “Ci sembrava un bel progetto ed eravamo in buoni rapporti con Padre Giannicola, per questo abbiamo accettato volentieri l’invito. È stato interessante vedere come i nostri testi, di per sé lontani dalla religione, potessero essere riallacciati al Natale e in generale al cattolicesimo”, ci ha detto il cantante del gruppo, Niccolò.

Dopo aver analizzato e scelto testi e canzoni, abbiamo iniziato a lavorare allo “spettacolo” vero e proprio: abbiamo scelto alcuni passi dal Vangelo e scritto alcune riflessioni, prendendo spunto da frasi o temi emersi nei brani, cercando di chiederci soprattutto quale senso abbia oggi il Natale, e come poter vivere questo evento nella nostra realtà storica.

Ma la preghiera non è solo parole è anche corpo. Con l’aiuto del coreografo Gabriel Zoccola Iturraspe, abbiamo creato una coreografia adatta a essere messa in scena in un’ambiente particolare come una chiesa; con un curato impianto luci poi è stata creata un’atmosfera suggestiva e carica di significati perché gli “spettatori” potessero entrare un po’ di più nel mistero della fede.

Lo spettacolo si è tenuto infine la sera del 22 dicembre, alternando momenti di musica dal vivo, riflessione, danza e preghiera, e si è concluso con un gesto in ricordo dei migranti e dei profughi nell’Est Europa: abbiamo illuminato tante piccole luci verdi, come simbolo dell’impegno di solidarietà di molti polacchi che, al confine con la Bielorussia, accendono lanterne verdi nelle loro case per indicare che sono luoghi sicuri, in cui è possibile trovare conforto e riparo per i migranti mediorientali ammassati sul confine con l’Europa.

Sant’Ireneo (III secolo) scriveva che Dio si è fatto uomo per insegnare la sua lingua agli uomini, ma anche per imparare la lingua degli uomini, un obiettivo per avvicinare l’Uno agli altri e viceversa. Oggi il linguaggio di Dio è abbastanza lontano da quello degli uomini e specialmente dei giovani: questo nostro lavorare con i Revevants nel suo piccolo ha cercato di riavvicinare la lingua di Dio alla lingua dei giovani.

D’altra parte per i Revevants stessi, ci hanno detto, «ne é valsa la pena. Le persone presenti sembravano interessate e anche noi ci siamo sentiti in una posizione diversa dal solito (abituati a suonare in situazioni diverse come pub e bar a giro per la Toscana). Complessivamente è stata un’esperienza nuova ma speciale.

Come nuovo e speciale è sempre il Natale!

Giulia Centauro – Firenze

Da un rinascimento all’altro?

Non c’è Rinascimento che non sia preceduto da un Medioevo. Ecco una considerazione da cui
bisognerebbe cominciare per comprendere a fondo il significato di “Ri-nascimento”, e ancor di più
di “Rinascimento europeo”. In “Rinascimento” è insita l’idea di rigenerazione di un’eredità
preesistente che è rimasta congelata durante una “età di mezzo”. Non che l’inverno del Medioevo
non sia tanto rilevante quanto la primavera che segue. Ma dall’età di mezzo dell’Europa all’età
successiva si conservano e rimangono intatte le differenze dei vari particolarismi geografici,
cosicché esistono non uno, ma molti Rinascimenti. “La storia d’Europa è una storia di
Rinascimenti”, afferma la Presidente della Commissione europea Von der Leyen nel discorso sullo
stato dell’Unione del 6 maggio 2021.
Ciononostante, nella memoria collettiva occidentale il Rinascimento italiano si trova a primeggiare
tra gli altri e lascia un’impronta indelebile con opere d’arte ed edifici celebri ancora oggi in tutto il
mondo. Nell’architettura delle città europee sono incisi i segni di una topografia condivisa dalle
culture dei popoli europei, in particolar modo nei musei, sui palazzi comunali e nelle chiese. I
grandi musei nazionali di Parigi, Berlino, Madrid e Roma (persino Londra) custodiscono un
patrimonio comune, che testimonia l’interdipendenza dei destini delle comunità nazionali europee.
Duomi, basiliche e cattedrali portano i simboli e gli elementi strutturali realizzati da maestranze non
solo locali, ma itineranti, come i capimastri francesi e tedeschi che diressero i lavori di costruzione
del Duomo di Milano.
Oggi, grazie all’area di libera circolazione stabilita dagli accordi di Schengen, schiere di turisti
europei possono viaggiare da un Paese all’altro prendendo atto, con i propri occhi, dell’entità del
legame profondo che unisce le capitali degli Stati europei. A sottolineare l’intreccio di storie di
popoli c’è il carattere transnazionale degli stili romanico e gotico degli edifici religiosi, ci sono i
motivi naturalistici e archeologici che compaiono e si mescolano nelle rappresentazioni pittoriche
degli artisti europei, ci sono i caffè letterari disseminati per il continente: esiste quindi un sostrato
storico-culturale costruito su fondamenta più solide di quelle su cui si reggono il mercato unico
europeo o il coordinamento sulla campagna vaccinale o il Green Deal europeo. Un autentico
Rinascimento europeo non può basarsi sul paradigma del funzionalismo.
Eppure, la Presidente Von der Leyen non ha torto nell’affermare che il progetto europeo ha trovato
nuova linfa vitale dinanzi alle grandi crisi. Alle crisi, come guerre mondiali e shock economici, si
accompagnano momenti generativi segnati da processi di ricostruzione. La vita dell’Europa
politicamente, economicamente e culturalmente unita si rinnova attraversando frangenti di crisi. E
sta ai giovani, che esaltano le virtù del programma Erasmus, effettuare un esercizio di memoria,
ricordare da dove provenga e perché sia nata l’idea di unione di Stati europei. Certo, è un bene che
le nuove generazioni si entusiasmino per la possibilità di studiare e formarsi in altri Paesi europei
accedendo a fondi appositi dell’organizzazione, però sono convinto che è a quei giovani che spetta
il compito di rinnovare di ricorrenza in ricorrenza, di anniversario in anniversario la consapevolezza
delle radici culturali giudaico-cristiane e greco-latine dell’Europa unita che comunque non poterono
prevenire il flagello della guerra.
Raccontava Huizinga in Homo ludens: “Stati giunti ad alta cultura si ritirano completamente dalla
comunanza del diritto internazionale e confessano senza vergogna un pacta non sunt servanda. […]
Grazie alla perfezione dei suoi mezzi [la guerra] è diventata da una ultima ratio una ultima rabies.”
Nel rinnovamento del mito europeo come mito di pace fra i popoli e solidarietà nella risoluzione dei
problemi comuni si trova l’anima di un Ri-nascimento europeo. Che i giovani, ispirati dallo “spirito
erasmiano”, devono saper interpretare e promuovere con occasioni di dibattito pubblico e con
proposte concrete da rivolgere alle istituzioni.

Francesco Laureti – Milano

L’ “attimo fuggente” di Alessio

Chi sei?
Sono Alessio Ruzzante, torinese, di 24 anni.
Passione principale?
Dopo aver provato vari sport, mi sono concentrato sul teatro e canto e danza.
Il primo debutto?
Come professionista “L’attimo fuggente”, ma durante i miei studi alla Scuola del Teatro Musicale ho preso parte ad un musical professionale, “Rent”.
Cosa si prova prima dello spettacolo?
Molta adrenalina, come se fosse sempre la prima volta.
L’emozione più importante di uno spettacolo?
Durante uno spettacolo si provano varie emozioni. Il bello del teatro è che ogni sera possono esserci delle piccole sfumature, emozioni sempre diverse.
In questo spettacolo, “L’attimo fuggente” che richiama una realtà giovanile, seppur dell’altro secolo, il tuo personaggio come lo affronti e cosa ti dice?
Io ho interpretato Todd Anderson. Todd è il nuovo arrivato del gruppo, ha una famiglia molto distante con un padre che ha grandi aspettative ma che non gli dà il giusto affetto. Vive nell’ombra del fratello, uno dei migliori studenti che la Welton abbia avuto, e tutti si aspettano da lui lo stesso risultato, questo genera una sensazione di pesantezza in lui.
La parte che ti piace di più di questo personaggio?
Penso sia la crescita. È bellissimo da interpretare, inizia lo spettacolo in un modo e lo finisce in tutt’altro, ogni scena lo aiuta nel migliorarsi. Anche con l’aiuto di altri personaggi.
Secondo te, è giusto essere così severi nell’educare?
È importante l’equilibrio. In quegli anni avevano una politica diversa, i ragazzi sono soggetti delicati e difficili da guidare non c’è un unico metodo giusto. Non si tratta solo di educazione culturale ma anche umana. Serve anche molta solidarietà ed empatia.
Come vedi i ragazzi liceali di oggi, in parallelo a quelli dello spettacolo?
I 6 ragazzi dello spettacolo richiamano gli studenti di oggi. Dal più ribelle al più studioso. E ogni ragazzo può scegliere in quale identificarsi e per quale fare il tifo.
Credo che i ragazzi di oggi siano molto intelligenti, con le tecnologie sanno sempre di più sul mondo, avendo più strumenti sono più curiosi e intraprendenti ma allo stesso tempo sono più esposti ad alti rischi, sono soggetti complessi, ma credo sia un’età molto bella l’adolescenza.
Questa l’età in cui si possono stringere i legami più forti della vita, che permettono una crescita e proteggono.
Sono più fragili o più forti?
Non penso di avere una risposta. Li percepisco più forti, più pronti per alcune cose. Però bisogna sempre contestualizzare ogni età.
Un sogno futuro lontano o vicino?
Mi considero un ragazzo con i piedi per terra, ciononostante sognare è indispensabile. Mi piacerebbe studiare anche in altre branche, doppiaggio, ad esempio, e stare sul palco il più possibile con progetti sempre meritevoli.
Quello del teatro è un ambiente competitivo?
Molto.
Ogni lavoro ha le sue difficoltà, sicuramente il teatro è un lavoro che può dare meno stabilità economica, in questo momento particolare, ma ripaga in altri modi, finché si ha la fiamma dentro, ne vale la pena.
Che consigli daresti a dei ragazzi che vivono la situazione del tuo personaggio?
Stare in ascolto, essere sempre coscienti di chi si ha intorno, nei migliori dei casi, puoi avere delle persone che davvero ti possono aiutare, essere sempre curiosi e sapere che non si è mai arrivati, dal punto di vista umano e professionale.
Noti un po’ di passione da parte dei tuoi coetanei verso il teatro, o è sempre un po’ di nicchia?
La passione c’è sempre, ad esempio, alcuni ragazzi sono venuti a vederci, era la prima volta che entravano a teatro e sono rimasti folgorati; uno dei miei desideri è essere quel “qualcosa” che fa nascere la fiamma che chissà a cosa porta; nel mio caso, ha portato a far diventare il teatro il mio lavoro.
Il libro più bello che stai leggendo?
Leggo molti thriller, dai 12 anni; ora sto leggendo “Il Signore degli anelli”.
Musica?
Ascolto un po’ di tutto, non sto molto su un’artista o cantante, ma sto sulle canzoni, soprattutto musical, per la mia formazione artistica, anche pop, ma nessuno in particolare.
Hai fede, sei una persona religiosa?
Non mi definisco religioso, sono una persona che crede in qualcosa, forse non so neanche io bene in cosa, ma non credente religioso, però apprezzo l’ambiente della Chiesa, l’ho frequentato sin da piccolo, è uno dei vari luoghi di formazione ed educazione.
Perché hai accettato questa intervista?
Mi piace molto mettermi in discussione e condividere quello che penso, sperando possa essere d’aiuto per iniziare discussioni in modo costruttivo. Con te e sicuramente stato così e ti ringrazio.

“L’Attimo fuggente” 14 e 15 Gennaio 2022 presso Teatro Arcimboldi Milano.

UN FIORE NEL DESERTO

“Uno splendido fiore sbocciato in mezzo al deserto”: con queste famose parole Jacob
Burckhardt definì il Rinascimento italiano, consegnando ai posteri l’immagine di un’epoca
felice, illuminata, idealmente contrapposta alle tenebre e all’ignoranza del Medioevo. Se è
vero che tale lettura appare ormai superata agli occhi di qualsiasi storico moderno, a distanza
di quasi centocinquant’anni dalla pubblicazione del saggio di Burckhardt il mito del
Rinascimento fiorentino continua a godere di ottima salute nella coscienza collettiva e nelle
stesse istituzioni europee, almeno a sentire le parole di Ursola Von Der Leyen. L’attuale
presidente della Commissione ha infatti recentemente dichiarato che, con l’approvazione del
Recovery Plan, l’Unione si attende di rilanciare l’economia del continente, dando vita a un
nuovo “Rinascimento europeo”.
Eppure, proprio sulla portata di questa “Rinascita” è opportuno fermarsi a riflettere,
prendendo spunto dal lavoro di un altro storico europeo, Johan Huizinga, che del
rinascimento italiano fornì un’interpretazione molto diversa da quella di Burkhardt. Nella sua
opera più famosa, “L’Autunno del Medioevo”, egli dimostrò infatti come Il Rinascimento
fiorentino avesse interessato una ristretta fascia della popolazione, un’élite colta e raffinata,
composta da aristocratici che vedevano nell’arte e nella cultura lo strumento per evadere da
un mondo e da una società povera e ignorante, che disprezzavano nel profondo. Di fronte agli
stenti della vita, in altre parole, la corte rinascimentale avrebbe rappresentato un giardino
protetto, un eden in cui i nobili potevano rinchiudersi, lontani dalle fatiche e dalle sofferenze
della popolazione.
Lasciando stare per un momento la polemica sovranista contro il progetto europeo, appare
evidente come il rilancio dell’Unione debba necessariamente passare da una politica capace
di supportare quella parte della popolazione europea più povera e vulnerabile, che appare
oggi ancora indifferente all’ideale europeo. Questa fascia della popolazione, indebolita dalla
crisi, rischia di sentirsi estromessa dalla politica comunitaria e di vedere nelle Istituzioni
europee una riproposizione di quelle coorti rinascimentali tanto raffinate quanto lontane e
disinteressate dalla vita comune. Affinché ciò non avvenga, la presidente della commissione
europea è chiamata a far tesoro della lezione di Huizinga, assicurandosi, con l’investimento
dei soldi del Recovery Fund, di lanciare un rinascimento europeo che, almeno questa volta,
non sia appannaggio di pochi, ma che sappia avvicinare l’intera popolazione alla politica
attiva. Diversamente, al pari delle corti italiane cinquecentesche, l’aula di Bruxelles rischia di
rimanere una pericolosa cattedrale nel deserto.
Andrea Bianchini, Milano

Intervista al Cardinale Betori

Se il sindaco di Firenze ci ha permesso di ragionare sulla dimensione laica, sul da farsi dei
cittadini, con l’Arcivescovo della città vogliamo riflettere sul da farsi di un credente che si è
sentito mettere in gioco dalla profonda intuizione pedagogica di don Milani, grande prete
fiorentino del secolo scorso.
Quindi con una corsa da Palazzo Vecchio raggiungiamo la sede dell’Arcivescovo di fronte al
Duomo e al campanile di Giotto; anche qui salendo delle maestose scale entriamo nello studio di
padre Giuseppe. (ci ha detto proprio lui di chiamarlo così!)
Noi: Buon giorno. Cosa le ha fatto pensare l’intervento della presidente del Parlamento Europeo,
Ursula von Der Layen?
Cardinale: È interessante osservare i contributi che l’esperienza cristiana ha offerto alla nascita
dell’Europa sia come realtà civile sia come istituzione. In questi giorni il Papa ha firmato il decreto
che riconosce virtù eroiche di Robert Schuman ed è interessante vedere come alle radici delle
istituzioni europee attuali ci sia il lavoro di tre cristiani: Schuman, Adenauer e De Gasperi. La
tradizione religiosa cristiana sta alla base – insieme ad altre fonti ispirative – dell’Unione Europea.
Che la Presidente della Commissione Europea poi abbia fatto riferimento al Rinascimento, che è stato
a mio parere frutto dell’Umanesimo Cristiano, è molto significativo. Mi è piaciuto che si ritornasse a
queste radici cristiane, che hanno poi trovato una loro reminiscenza nel ‘900 fiorentino nel Cardinale
Dalla Costa, nel sindaco Giorgio La Pira e in Don Giulio Facibeni.
Il celebre motto “I Care” di Don Milani, nonostante sia anglosassone, è di chiara ispirazione
evangelica: è l’atteggiamento del samaritano che si prende cura del povero malmenato e in fin la vita
lungo la strada.
Noi: La prossima domanda si riaggancia proprio al suo ultimo commento, infatti le parole scritte sulla
sacrestia di Barbiana sono rimaste impresse nell’immaginario comune, ma secondo lei al giorno d’oggi
sono diventate un semplice slogan o rappresentano ancora una sfida per la società?
Cardinale: Non si possono ridurre quelle parole a uno slogan proprio per rispetto a Don Milani, che
faceva di tutto per non apparire e metteva anzi i bastoni fra le ruote a chiunque volesse farlo emergere
dalla folla. Infatti egli non voleva essere imitato, ma fornire semplicemente un’ispirazione della
dignità della persona umana, la sua missione era quella di ridare la parola ai poveri affinché potessero
apprendere la fede – che senza la parola non si può recepire – e stabilire relazioni di giustizia e
uguaglianza nella società. Per questo tradiremmo Don Milani se lo riducessimo a uno slogan, la strada
è invece riscoprirne la radice evangelica e fare qualcosa non come lo ha fatto lui, ma per le sue stesse
ragioni, adattandosi ai bisogni dell’oggi.
Noi: Citava il concetto di ridare la parola ai poveri, secondo lei chi sono i cosiddetti “analfabeti”
dell’era della digitalizzazione ai quali dovremmo ridare la parola?
Cardinale: Innanzitutto i giovani, perché questa società a loro sta sottraendo molto, primo fra tutto il
futuro, per questo la condizione giovanile deve essere al centro delle nostre preoccupazioni. Poi c’è
anche l’emarginazione del posto di lavoro: il lavoro oggi non è luogo di uguaglianza, ma al contrario
di molte frustrazioni e sofferenze. Non dimenticherei neanche gli anziani, che in quanto non più
produttivi vengono sottostimati dalla società attuale e a volte addirittura considerati un peso. Il Papa
insiste molto su un’alleanza tra l’età giovanile e quella anziana, su uno scambio reciproco che

gioverebbe sicuramente a tutti. A questo si aggiungono coloro che appartengono ad altre culture, ad
altre religioni, ad altre zone geografiche che faticano ad essere integrati e a integrarsi, tema molto
scottante per una società che si sta inevitabilmente avviando verso un pluralismo sempre maggiore.
Per risolvere questo problema dello scambio bisogna trovare forme nuove non di integrazione, ma di
interazione.
Noi: Negli anni 50′ e 60′ Firenze è stata città di innovazione e profetismo, una città che non voleva
seguire le mode, ma al contrario voleva provocare uno stile di vita autentico. Secondo lei quanto
possiamo raccogliere oggi da quei percorsi?
Cardinale: Ogni epoca ha la sua storia, non possiamo pensare di replicare ciò che è stato fatto, ma di
farci ispirare sì, anche perché le figure che hanno animato quella stagione sono state complementari e
devono fornire un modello di riferimento per tutti noi. Nella lettura che si usa dare di tre figure – il
Cardinale Dalla Costa, Giorgio La Pira e Don Facibeni – viene sottolineata l’esaltazione delle tre virtù
teologali: la fede in Dalla Costa, la speranza in La Pira e la carità in Facibeni. Bisogna saper cogliere
l’anima che sta dietro a queste persone e attingere a quelle virtù per reagire di fronte ai problemi
attuali, come potrebbe essere quello dell’accoglienza. Non va però dimenticato che il motore di tutto è
una coscienza educata, senza la quale non si può creare una comunità.
Noi: Ritornando all’intervento della von der Leyen, il fatto che fosse proposto da una personalità non
italiana e a capo di un’istituzione laica così importante, cosa potrebbe significare?
Cardinale: Sono molto orgoglioso di Firenze, nonostante sia originario dell’Umbria, che però è
sicuramente più vicina rispetto alla Lombardia (ndr. qua il Cardinale si riferisce al parroco della nostra
chiesa, Padre Giannicola, originario della Lombardia, che ha appena posto la domanda esprimendosi a
sua volta orgoglioso della città, per quanto a lui straniera). Tutto è nato qui, da un connubio
strettissimo di capacità imprenditoriale fuori dal comune che fece ricca la città ma che non la affossò,
coniugandola alla ricchezza del pensiero e dell’arte. L’arma di Firenze è la sua anima artigiana, non a
caso il fiorino era considerata la moneta più affidabile ed è ciò che deve un po’ riprendere in questi
ultimi anni, dove invece ha vissuto di rendita del passato. Bisogna ritrovare creatività nel produrre,
senza però discostarsi troppo anche dal pensiero.
Noi: È interessante come sia nell’intervista al Sindaco Nardella sia in quella a lei sia stato portato alla
luce il tema dei giovani e di quanto sia fondamentale dare a loro maggiore importanza, anche se si
rischia di lasciare questa convinzione semplici parole senza tramutarlo in fatti.
Cardinale: Concordo a pieno, non credo che nella nostra comunità cristiana si sia ancora trovato un
canale di comunicazione con i giovani, ma ci sono stati vari tentativi, ad esempio con i centri giovanili
come quello in cui feci l’animatore a Foligno.
Noi: per concludere, alcune prospettive?
Cardinale: Il prossimo marzo Firenze ospiterà il secondo incontro dei vescovi delle maggiori città
mediterranee e sono contento che il sindaco Nardella, sull’esempio di quanto fece La Pira, in
contemporanea abbia invitato i sindaci delle maggiori città mediterranee. Questo duplice incontro,
religioso e laico, potrà ben inserirsi in questo progetto di Rinascimento per l’Europa auspicato dalla
presidente del Parlamento Europeo è potrà essere l’occasione per Firenze di ripensare il suo ruolo
nella Storia di domani, non solo in quella di ieri.

L’Europa chiama Firenze e il suo rinascimento

Intervista al sindaco di Firenze Dario Nardella, 1 giugno 2021.

«Florence is the city of Renaissance. The place where it all started: a new beginning of arts and science,
after the great plague of the late Middle Ages. And from Florence, the spirit of the Renaissance spread to
the rest of Europe, too.
La storia d’Europa è una storia di Rinascimenti. Europe is a story of new beginnings. After every crisis came
a European Renaissance. And this is what Europe needs in our day and age. This is our responsibility: to end
the pandemic and to shape a new beginning for Europe. Europe is able to overcome crises and to deliver
for the future of its citizens.»
Queste parole della presidente della Commissione Europea, Ursula von der Layen, dette per la giornata
dell’Europa 2021, parole che hanno messo in gioco l’Italia e Firenze non potevano lasciare noi giovani
fiorentini indifferenti. Da queste parole di un discorso interessante e ricco di spunti per pensare il futuro è
nata la domanda: cosa è per noi un Rinascimento? Che senso ha essere chiamati in causa “in prima
persona” riguardo il futuro dell’Europa dopo questa crisi pandemica (non ancora finita)? Ma a conclusione
del proprio discorso la sig.a Von Der Layen dirà anche:
«A few kilometres from Florence, there is a small village called Barbiana. On a hill in Barbiana, there is a
small countryside school. Back in the 1960s, a young teacher, Don Lorenzo Milani, wrote two simple words,
in English, on a wall in that school: ‘I care’. He told his students that those were the two most important
words they needed to learn: ‘I care’. ‘I care’ means I take responsibility. And this year, millions of Europeans
said ‘I care’ with their actions.»
Se il Rinascimento richiama la dimensione “laica”, umanistica della nostra storia e società, il richiamo a don
Milani, rimanda alla nostra dimensione religiosa e cristiana.
Per iniziare la nostra riflessione abbiamo pensato di interpellare due persone significative di Firenze, il
sindaco, sig., Dario Nardella e l’arcivescovo, il card. Giuseppe Betori.
Ricevuti nello splendido e storico studio del sindaco presso palazzo Vecchio chiediamo subito al sindaco:

  1. Cosa pensa, in quanto primo cittadino, dell’elogio della nostra città pronunciato dalla presidente
    della commissione Europea e come può Firenze realmente impegnarsi?
    La citazione mi ha colpito molto, ed ho anche avuto modo di parlare e ringraziare personalmente Ursula
    von der Leyen circa una settimana dopo al Social Summit di Porto. Ho capito che conosceva davvero Firenze
    e Don Milani con i suoi scritti, e mi sono reso conto ancora una volta di quanto Firenze sia una radice
    profonda dell’identità europea. Credo che sia importante per la nostra città mantenere uno sguardo ampio
    sull’Europa e sul Mondo. Firenze incarna i valori più alti del pensiero umano (è stata la prima città dove è
    stata abolita la pena di morte) ed è stato il luogo dove è avvenuto un cambiamento radicale del modo di
    creare e pensare dell’uomo. Tutt’oggi Firenze ha la missione di continuare a mantenere questo spirito che
    le ha permesso di avere un ruolo centrale nei momenti di svolta dell’umanità.
  2. E qual è il livello di consapevolezza che i fiorentini hanno riguardo a questa “missione”?
    Credo che non sempre noi fiorentini abbiamo una piena consapevolezza di questo compito. Spesso ci
    fregiamo della nostra storia in modo superficiale, come un cliché. I fiorentini sono orgogliosi di sentirsi tali
    ma spesso questo orgoglio non è supportato da una profonda consapevolezza.
  3. Potrebbe esistere un modo per incrementare questa consapevolezza concretamente?

Credo che ci siano due modi: il primo, come già tentò di fare Giorgio la Pira, è aprire Firenze al dialogo
globale sui grandi temi come la pace, l’integrazione, la lotta al cambiamento climatico; il secondo è puntare
sui giovani affrontando argomenti un po’ desueti e trattando grandi questioni, per ritrovare quali sono
quelle cose per cui vale veramente la pena di spendere la vita. Questo significa anche andare
controcorrente e sposare battaglie impopolari. Dovremmo imparare a vedere i giovani non come categoria
ma come persone, come coloro che hanno in mano il futuro. Siamo abituati a impartire loro ordini, a dire
cosa devono fare, come devono vivere, e spesso non abbiamo l’umiltà di ascoltarli e chiedere il loro punto
di vista, magari più innovativo e controcorrente.

  1. Dovremmo recuperare una sorta di “sentire europeo” che non significa appiattire tutte le culture,
    ma aiutare a capire che la propria identità è una ricchezza per tutti in vista di una maggiore
    inclusione?
    Dobbiamo lavorare senza dubbio per un’Europa più forte. Finora abbiamo costruito l’Europa delle
    istituzioni, l’Europa finanziaria. Manca ancora la parte sostanziale; l’Europa dei diritti sociali, e la strada da
    fare è ancora tanta. Credo che il prossimo incontro dei sindaci delle grandi città europee a Firenze potrà
    proprio essere una occasione per approfondire e migliorare questo aspetto politico, nel senso più alto
    termine.
    Grazie a lei di questo scambio di idee che per noi giovani è di sprone per guardare con occhio migliore al
    futuro.

IL DOLORE

Da sempre il dolore e la sofferenza fanno parte della vita umana come da sempre si cerca di attenuarli ed
eliminarli o, addirittura, di nasconderli e ghettizzarli; sono vissuti prevalentemente in solitudine, nascosti o
ignorati, mentre prevale l’idea di un benessere e di un progresso diffuso, ottimistico, in continua espansione,
inarrestabile.
Anche le grandi tragedie collettive derivanti da fame, sete, malattie, guerre, schiavitù, che colpiscono tante
popolazioni e generano veri e proprie stragi e esodi di massa, sono appena accennate e chi cerca rifugio
fuggendo è sfruttato e assimilato a un nemico delle nostre società.
Ma è arrivata la pandemia spiazzando tutte le società opulente, organizzate, tecnologicamente evolute: il
cigno nero si è manifestato portando malattia, morte, disarticolazione sociale, blocco dei movimenti,
chiusure di tutte le attività. Gli ospedali sono diventati sempre più affollati, le terapie intensive incapaci di
sostenere le richieste, le prime cure sono state approssimative e forse ancora oggi, nonostante i vaccini, non
se ne trovano di definitive.
Quasi ovunque il dolore e la sofferenza si sono manifestati pubblicamente con la loro tragica evidenza, basti
solo ricordare i morti trasportati con camion militari, la solitudine forzata di tanti anziani e fragili,
eliminazione di gesti ormai naturali quali darsi la mano o abbracciarsi, interi settori dell’economia e del
lavoro pesantemente danneggiati.
Tutto questo ha generato lutti, dolori e sofferenze di vario tipo.
Inoltre, la pandemia, come dice la parola, si manifesta in un contesto mondiale dove tutto si lega e
interagisce, ma nel quale i paesi ricchi sono ben divisi da quelli poveri: da una parte vaccino, ospedali,
medicine e operatori sanitari efficienti, dall’altra scarsità di tutto.
In questo contesto si sono poste varie domande: da dove viene questo virus, è giusto isolare le persone, come
organizzare gli ospedali, quali sono le terapie più efficaci, quale politica economica intraprendere per
riorganizzare il tutto? i vaccini scoperti sono efficaci? Hanno degli effetti indesiderati?
A monte di tutto questo c’è una domanda non chiaramente espressa, confusa ma molto pressante: perché
tutto questo? Come interpretarlo e reagire? Come inserirlo nelle possibilità della nostra vita insieme alle
varie altre situazioni reali di sofferenza e dolore nascoste, ghettizzate, ignorate? Cosa possiamo fare per chi è
fragile, solo, in zone colpite da altre pandemie sociali, economiche, da guerre o schiavitù?
La presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, ha parlato della necessità di un
“rinascimento” dopo la Covid-19, dopo questa pandemia ancora in corso. Ha parlato del modo in cui l’Italia
ha affrontato, sta affrontando questo dramma riferendosi al Rinascimento italiano non solo per Firenze e
l’Italia ma per tutta l’Europa. Ha invitato tutti gli europei a “I-care”, a prendersi cura dell’Europa, in questa
situazione nella quale non possiamo ripartire come se nulla fosse accaduto o dal punto in cui siamo stati
fermati. Però non siamo chiamati a un semplice, scontato ripartire, ma a pensare come creare uno o più nuovi
percorsi di rinascita.
Senza volere qui entrare nella analisi storica del Rinascimento, rinascere oggi nel 2021 è capacità di trovare
le parole nuove e adatte per dire il dolore che abbiamo visto, in alcuni casi negato ma percepito, conosciuto,
sofferto, nei suoi diversi modi.
Le parole si possono inventare, ma non senza un contesto, si possono cercare, si devono trovare per
affrontare il proseguire dei giorni.
Il contesto, riferito agli effetti diretti del virus, è quello di un dolore reale che però ha creato una sofferenza
impercettibile, impercettibile perché dovutamente nascosta. Infatti, questa pandemia per essere curata ha
richiesto l’isolamento, il “nascondimento” degli infetti e anche di quanti sono morti.
Ma anche coloro che sono guariti dall’infezione devono ancora fare i conti con strascichi fisici e psichici che
apparentemente non si vedono. Quindi, sotto questo aspetto, il contesto è proprio il dolore della fatica di dire
la propria sofferenza.
Sembra quasi che questa malattia abbia realizzato quanto si è domandato il filosofo Byung- Chul Han:
“Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite”, nel suo saggio La società senza dolore. Sembra
quasi che la paura del dolore che la nostra società occidentale porta con sé, dalla paura del nascere alla paura
del morire (per riferirci solo ai due poli dell’esistere) abbia trovato nella Covid19 il suo naturale e giusto
epilogo.

Potremmo accettare questa tesi e sarebbe molto comodo per poter tornare a vivere con normalità, ma non
sarebbe corretto; è veramente necessaria una genesi e un’ermeneutica del dolore per ripartire non da dove
siamo stati fermati, ma da dove stiamo cercando di riprendere a camminare.
Per questo stiamo tentando, nel vero senso della parola, un percorso che a partire dal discorso della sig.a Von
der Leyen, attraverso i contributi del sindaco e del cardinale di Firenze, con il prezioso apporto del dott.
Adriano Peris, responsabile del reparto infettivi dell’Ospedale di Careggi, passando dai miei confratelli
Barnabiti e dai giovani che si incontrano per le strade delle nostre città, possa aiutarci ad affrontare con
dovizia “scientifica” questo cambiamento di epoca che la pandemia ha ancora di più accentuato,
conducendoci ad un vero Rinascimento dell’uomo nella sua integrale personalità.
Pubblicheremo il lunedì e venerdì questo materiale sperando di riuscire a creare un poco di dibattito.
p. Giannicola M. Simone e GiovaniBarnabiti.it

VOLONTARI A RAPPORTO

Dopo svariati incontri telematici, finalmente sabato 6 novembre c’è stato un incontro fisico! continuato fino a domenica 7 dei volontari zaccariani. C’è stato un po’ di imbarazzo e problemi tecnici perché non si era più abituati a presenziare: alcuni sono arrivati in ritardo, ad altri mancavano le pause caffè e poi anche il problema delle sedie, che erano meno dei partecipanti! Tutti normali problemi tecnici di quando si organizza un evento dal vivo e non più online.
Ci siamo ritrovati a Milano, intorno alla tomba di SAMZ per significare anche la novità della neonata unica Provincia Italiana dei padri Barnabiti e chiedere al Fondatore aiuto e illuminazione.
L’argomento principale è stato il Qender Agorà Padri Barnabiti, conosciuto anche come BarnabitiAPS. Il ramo sociale e associativo della congregazione dei Padri Barnabiti è il primo gruppo informale di volontari zaccariani nato nel 2008 per realizzare, insieme ai padri Barnabiti della comunità albanese di Milot, il kampi veror (campo estivo). La funzione svolta da questa APS è quella di lottare contro alcune forme di povertà con attività di tipo socioculturale, relazionale nonché educativa ed economica. In particolare obiettivo di questi campus è quello di portare gioia e allegria ai bambini albanesi attraverso settimane vissute dai volontari con un forte senso di responsabilità e di crescita sia umana che spirituale. In questi 13 anni, il gruppo è cresciuto sempre di più tanto da tessere una rete umana di solidarietà tra amici e volontari di tutta Italia. Con il loro prezioso aiuto, i padri Barnabiti hanno potuto sperimentare nuove idee e creare missioni innovative nei Paesi in Via di Sviluppo.
Per iniziare padre Fabien, padre Giannicola e padre Graziano (collegato telematicamente dall’Albania), ci hanno fatto scrivere il motivo della nostra presenza. Un punto comune a tutti i partecipanti “volontariato zaccariano”, quindi da lì abbiamo iniziato a ragionare e discutere. Il volontario zaccariano si pone come obiettivo quello di creare un ponte tra tutte le comunità barnabitiche sostenendo valori interculturali, di volontariato e di solidarietà. Altro obiettivo del volontariato è sicuramente riuscire a organizzare campi di animazioni, settimane spirituali e viaggi culturali e di conseguenza anche formare volontari al servizio della comunità promuovendo il lavoro di apostolato.
Dalla discussione che è stata buona e accesa è emersa specialmente la richiesta ai padri di avere un incontro con più Barnabiti per comprendere meglio cosa si intenda oggi per identità zaccariana dei giovani e dei volontari zaccariani. Il tempo attuale, la fatica di credere, l’affetto per i barnabiti tra i quali siamo cresciuti non possono procrastinare questa riflessione.
Ma intanto ci siamo fermati perché il tempo del pranzo era arrivato e la comunità dei padri dello Zaccaria ci attendeva.
Il pomeriggio, come da tradizione ci siamo incamminati verso l’immagine della Madonna della Divina Provvidenza esposta nella nostra chiesa di Sant’Alessandro in Zebedia per pregare il rosario in preparazione della sua festa.
Qui abbiamo incontrato un altro Barnabita: Padre Enrico, persona molto umile e accogliente da poco trasferito da poco da Lodi; con padre Giannicola, ci ha spiegato un po’ la storia della chiesa, delle opere del Procaccini, dell’altare e del pulpito incastonato con numerose pietre multicolore provenienti dalle nostre missioni in Indocina nel XVII secolo. Quindi la preghiera del Rosario in cui abbiamo chiesto a Maria forza, temperanza e creatività per le nostre vite e per il nostro impegno.
Nel secondo pomeriggio abbiamo continuato il lavoro associativo, letto il bilancio dello scorso anno, analizzato un po’ gli obiettivi per il prossimo esercizio: in primis aumentare il fondo 5×1000 e in secundis ritornare a svolgere attività nei Paesi in Via di Sviluppo.
La giornata si è conclusa con la cena insieme alla comunità.
Domenica mattina con un puntuale ritardo abbiamo ripreso i lavori focalizzandoci in particolare sull’organizzazione del progetto “Un tetto per FushMilot”, che dovrà realizzare non solo quanto richiesto dal Capitolo Provinciale dei padri Barnabiti lo scorso luglio, ma anche una prima collaborazione missionaria comune tra le due exprovince barnabitiche.
Infine, ci siamo radunati intorno all’altare, sulla tomba del Fondatore, per la celebrazione eucaristica presieduta da p. Fabien che ci ha esortati donare tutto noi stessi e non solo il superfluo, come la vedova del Vangelo.
Al termine del pranzo si rientra nelle proprie case con l’impegno di realizzare il progetto “Un tetto per FushMilot”.
Buon lavoro.
Marco Ciniero, Milano

Vergogna

Ho letto domenica scorsa a tutte le messe, come atto penitenziale, le parole del Papa sulla questione delle violenze e gli abusi sui minori. Sulla vergogna che dobbiamo espiare.
Ho letto queste parole sulla vergogna che come vescovi, sacerdoti, fedeli, come Chiesa, non solo in Francia, dobbiamo fare nostra per chiedere perdono a quanti soffrono ancora oggi per il male subito.
Qualcuno dice che il Papa, la Chiesa, sbaglia nel “lavare i panni sporchi” pubblicamente. Credo che il male perpetrato, questo tipo di male vada invece denunciato apertamente, perché chi ha sofferto, ha sofferto apertamente proprio nelle proprie relazioni umane.
Il male e il peccato commessi forse non saranno debellati totalmente, perché il male è sempre tra noi, però potrà essere arginato se insieme ci preoccupiamo di formare le nostre coscienze, se aiutiamo i nostri sacerdoti a vivere con trasparenza e serenità l’impresa della vocazione ricevuta.
L’orrore è stato sottovalutato, ammorbidito in semplice errore. Per questo il cammino di espiazione e rielaborazione non sarà semplice né veloce, però è un cammino che bisogna percorrere per rispetto alla verità e a ogni persona.
Voglio però a questo punto spostare un poco questi pensieri su un altro ambito di questo grave problema.
È giusto che se c’è della sporcizia, questa vada denunciata e pulita, specialmente nella Chiesa per l’alto ministero cui è chiamata tra gli uomini.
Penso però che non basta toglierle la sporcizia, bisogna continuare ad amarla, a servirla perché possa continuare a servire Dio e gli uomini e le donne che Dio ama.
Tutti siamo Chiesa, non dimentichiamolo, per questo tutti dobbiamo provare vergogna: «E prego e preghiamo insieme tutti: “A te Signore la gloria, a noi la vergogna”: questo è il momento della vergogna.» affermava papa Francesco mercoledì, ma questo è anche io tempo di riprendere in mano la testimonianza cristiana perché la Chiesa sia un luogo sicuro.
E se siamo credenti, dobbiamo chiedere a Dio di avere il coraggio di affondare l’aratro, anche dove fa male.
Infine. Qui potrei scandalizzare molti.
Perché questo male che è presente in molti strati della nostra società è denunciato solo nella Chiesa. Perché solo la Chiesa sta cercando di affrontare questo dramma vergognoso e nessun altro nella società fa un serio esame di coscienza?
Ragionare così è fuorviante? È sbagliato? No, è il ragionare giusto per affrontare in profondità un dramma che tocca molti di noi, perché vogliamo bene alla Chiesa e all’umanità. Perché c’è una responsabilità maggiore che ci viene dalla vocazione che abbiamo ricevuto.

p. Giannicola M. Simone