Lobbisti dell’ambiente

Il fenomeno del riscaldamento globale, come suggerisce il nome stesso, non può riguardare esclusivamente le singole nazioni e neppure singoli continenti. Proprio perché globale necessita di una visione comune, una visione a partire dalla quale scegliere le azioni da compiere affinché gli uomini possano vivere bene sulla Terra.
Per far fronte a questa necessità sono state inventate le COP, le Conferenze annuali delle Parti sul clima, alle quali oggi partecipano 197 paesi (su 205) più l’Unione Europea. Questi furono infatti i paesi firmatari della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), il risultato del Summit della Terra del 1992 a Rio De Janeiro.
A partire dal 1995 le COP vengono organizzate ogni anno e oggi, che siamo vicini alla ventinovesima conferenza che si terrà a novembre a Baku, dobbiamo chiederci quali siano stati i risultati ottenuti e quale sia la situazione attuale.
Nel 1995 la Germania, con l’allora ministro dell’ambiente Angela Merkel, ospita la prima COP nella quale i firmatari accettano di incontrarsi ogni anno.
Da questa data ad oggi due sono state le COP più importanti. La COP3, durante la quale venne stilato il protocollo di Kyoto che promette di ridurre del 5,2% le emissioni globali rispetto ai livelli del 1990. Gli Stati Uniti, il paese che allora era il più inquinante al mondo, firmò l’accordo ma non lo ratificò.
La seconda è stata la COP21 di Parigi, in cui è stato trovato l’accordo per contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C e l’obbiettivo emissioni zero per il 2050. Come? Attraverso piani nazionali volontari.
Gli Stati Uniti, sotto la presidenza Trump, si ritirano dall’accordo nel 2019, per poi rientrare due anni dopo sotto la presidenza di Joe Biden.
La Cina e la Russia dovranno invece raggiungere l’obbiettivo entro il 2060, l’India (che ha da poco superato la Cina ed è diventato lo stato più popoloso del mondo) nel 2070.
E l’ultima COP? Com’è andata?
Il fatto che si sarebbe tenuta a Dubai, capitale di uno stato che fonda la propria economia sulla produzione e il commercio dei combustibili fossili nonché sesto esportatore al mondo di petrolio, non aveva fatto ben sperare sin dall’inizio.
Così come non aveva fatto ben sperare che fosse stato designato presidente della conferenza Sultan Al Jaber, ministro dell’industria e dell’avanzamento tecnologico nonché magnate del petrolio in quanto capo della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC). Queste premesse non hanno tradito le aspettative.
Durante la COP28, Al Jaber ha affermato in un’intervista al The Guardian che “nessuna scienza dimostra che abbandonare i combustibili fossili manterrà l’aumento delle temperature entro 1,5°C”, ignorando decenni di studi dell’impatto antropico sulla temperatura terrestre.
Fatto ancor più grave sarebbe che, secondo un’inchiesta della BBC, Al Jaber avrebbe approfittato del suo ruolo per negoziare accordi in materia di combustibili fossili durante le riunioni preparatorie e ciò sarebbe emerso dall’analisi dei documenti raccolti dai giornalisti del Centre for climate reporting (Ccr).
Altro dato preoccupante della COP di Dubai è stato il numero di lobbisti accreditati delle aziende di combustibili fossili, un’enormità: 2456, quasi cinque volte quelli della COP precedente.
Il risultato? Dopo lunghe trattative, è stata ottenuta la promessa di “allontanamento” dai combustibili fossili entro il 2050, con una formulazione vaga e poco chiara.

Per fortuna, alcuni passi positivi sono stati fatti. La diplomazia climatica esiste ed è anche molto importante che ci siano degli spazi dove essa possa agire. Questo permette inoltre visibilità a chi altrimenti non avrebbe modo di far sentire la propria voce.
Ne è un esempio l’assegnazione della COP23 (2017) alle isole Figi, in rappresentanza dell’alleanza AOSIS (Alliance Of Small Island States) composta da 42 stati che rischiano di ritrovarsi sommersi nei prossimi anni a causa dell’innalzamento dei mari.
Ciò che invece non fa ben sperare è la lentezza di questa macchina diplomatica, poiché a un compito già non facile si aggiungono interessi che ogni stato vuole proteggere.
Luigi C. – Roma

Maggio o dicembre?

È il 6 maggio o il 6 dicembre?
Come ogni mattina anche oggi mi sono alzato per spegnere quella dannata sveglia sul cellulare, che a malincuore mi costringe sempre a scendere dal letto per far placare quel rumore a dir poco insopportabile. Ho sbloccato la schermata, ho letto i messaggi arrivati nella notte, ho aperto Instagram e in prima pagina è apparsa una foto, tutta bianca, postata da roccaraso.net, una pagina che durante l’inverno informa i turisti, sciatori, riguardo la situazione degli impianti dell’Aremogna. Mi si sono sgranati gli occhi alla vista del comprensorio tutto innevato e mi son chiesto: “Ma è il 6 maggio o il 6 dicembre?”
Ebbene sì, oggi è il 6 maggio 2019 e da quando sono nato non ho mai visto una cosa simile. Ma perché succede tutto questo?
Oggi viviamo una situazione di squilibrio ambientale, la quale sta portando via le stagioni da noi considerate di passaggio, quelle forse più belle e amate da tanti poeti: l’autunno e la primavera. Tutto ciò è causato da una cosa più importante di tutte le altre, ovvero l’impronta sconfinata che l’uomo ha impresso su questo meraviglioso pianeta. Non ce ne rendiamo più conto ormai, ma quella di oggi è forse la segnalazione più esplicita che la terra ci sta dando; ci sta invitando a cambiare rotta: a ridurre gli sprechi, a inquinare il meno possibile e a rispettare la natura. Non ci vuole tanto, basta solo un po’ di buon senso e di civiltà, che tanto manca a queste basse latitudini, per non condurci a disastri ambientali che coinvolgono spesso la vita di noi cittadini stessi. Come se a volte, la natura inconsciamente volesse punirci per vendicarsi dal male che le facciamo.
Poche settimane fa era Pasqua ed il giorno di Pasquetta proprio nella mia città, Napoli si è assistito a scene di inciviltà inaudite: ai piedi del vulcano Vesuvio proprio nel giorno di Pasquetta decine e decine di gitanti, criminali, si sono addentrati nel Parco Nazionale e hanno lasciato il deliro: tavoli rovesciati, sedie distrutte, barbecue, addirittura hanno abbandonato un motorino. Insomma, una discarica a cielo aperto, e nessuno fa niente… Magari andranno gli enti a pulire, ma il prossimo anno si ripresenterà lo stesso problema, perché è troppo facile lamentarci dei governanti che non fanno il proprio dovere. Ma noi cittadini non siamo da meno: se la carta non la butti per terra, ma nel cestino non ci sarà bisogno dello spazzino che te le raccoglie. E qui il punto cruciale; è l’essere umano di qualsiasi etnia che deve accorgersi e comprendere fin in fondo che per il bene di tutti bisogna rispettare l’ambiente, il nostro mondo.
Le chiavi della svolta sono in mano a noi giovani che ci stiamo impegnando, chi più chi meno, per affrontare questo grande problema che tocca tutti noi. In Svezia per esempio una bambina di nome Greta ha dato inizio a un ciclo di manifestazioni del venerdì, proprio per sensibilizzare il mondo e i potenti di questo pianeta, a favore di un’economia “green”, pulita.
Nel mio piccolo ho sempre cercato di essere un buon cittadino. Da anni vado in bicicletta e ho attraversato paesi, città, ma soprattutto montagne; le salite quelle mitiche per il ciclismo. La bici mi fa vivere con i miei occhi lo spettacolo della natura; lontano dalle industrie e dai centri urbani, disperso tra le montagne, ho ritrovato me stesso, la mia essenza di uomo. Ho visto dal vivo ambienti che tutti possono vedere su National Geographic, ma ho provato emozioni che non riesco neanche a spiegare. In salita sentivo il cuore battermi nelle orecchie, e le gambe bruciare, ma la voglia di arrivare in cima per godermi il panorama, mi ha spinto sempre più in alto.
E ora il mio appello a voi lettori.
Siate rispettosi di ciò che la natura vi ha donato, per permettere ai nostri figli, nipoti e 10, 100 generazioni future di vivere a in un mondo bello come è ancor oggi. E un ultimo consiglio: dimenticate qualche volta, la macchina, il bus e la moto ma salite su quel giocattolo con due ruote e due pedali; non ve ne pentirete!

Vincenzo Primavera, Napoli

Uma ecologia integral

Folha 6

Uma ecologia integral

Tudo é em relazione, daqui a necessidade de una cultura ecologica integrale.

A ecologia lembra à primeira vista, o ambiente, mas o ambiente refere-se a uma relação particular, a que existe entre natureza e sociedade que vive e em que tempo, espaço, física, química, biologia são relações mais entrelaçadas entre eles.

Daqui resulta que a poluição de uma parte não pode ser resolvida a partir de uma única perspectiva; assistimos hoje a um único complexo crise sócio-ambiental. Portanto, devemos sempre ter em mente cada vez mais o ecossistema natural e o ecossistema social.

«Hoje, a análise dos problemas ambientais é inseparável da análise dos contextos humanos, familiares, laborais, urbanos, e da relação de cada pessoa consigo mesma, que gera um modo específico de se relacionar com os outros e com o meio ambiente. Há uma interacção entre os ecossistemas e entre os diferentes mundos de referência social e, assim, se demonstra mais uma vez que «o todo é superior à parte”» (141).

(Pensemos no consumo das drogas, 142).

Tudo isto envolve uma ecologia cultural, levando ao respeito do indivíduo contra um achatamento global. «É preciso assumir a perspectiva dos direitos dos povos e das culturas, dando assim provas de compreender que o desenvolvimento dum grupo social supõe um processo histórico no âmbito dum contexto cultural e requer constantemente o protagonismo dos actores sociais locais a partir da sua própria cultura.”(144). “Neste sentido, é indispensável prestar uma atenção especial às comunidades aborígenes com as suas tradições culturais. Não são apenas uma minoria entre outras…» (146).

A consequência da ecologia integral se deve experimentar em uma ecologia da vida diária, composta por habitação, transportes, a feiúra dos ambientes e sobre as relações humanas, o caos da cidade.

Mas especialmente «a ecologia humana também significa algo muito profundo: a relação necessária da vida humana com a lei moral escrita em sua própria natureza, relação essencial para criar uma atmosfera mais digna. Há uma “ecologia do homem”, porque “tambémo homem tem uma natureza que ele deve respeitar e que ele não pode manipular à vontade” (B XVI) Nesta linha, temos de reconhecer que o nosso corpo nos coloca em uma relação direta com o meio-ambiente e com os outros seres vivos. A aceitação do próprio corpo como um dom de Deus é necessária para acolher e aceitar o mundo como um dom do Pai e casa comum; em vez uma lógica de dominação sobre o seu próprio corpo se transforma em uma lógica, por vezes sutil de domínio sobre a criação. Aprender a aceitar seu corpo, a cuidar e a respeitar os seus significados é essencial para uma verdadeira ecologia humana. Também apreciar o seu próprio corpo em sua feminilidade e masculinidade é necessário para reconhecer-se no encontro com o outro diferente de você. Desta forma, é possivel aceitar com alegria o dom específico do outro ou de outra, obra de Deus, o Criador, e enriquecer-se uns aos outros. Portanto, não é uma atitude saudável que pretende eliminar a diferença sexual, porque já não sabe como lidar com ele» (154).

Um descurso deste tipo – e aqui resumo os números sucesivos – só pode ser entendida se considerarmos o ponto de referência inicial do bem comum e seu papel central e unificador na ética social. Neste contexto, a questão da família e da justiça entre as gerações.

«O ambiente situa-se na lógica da recepção. É um empréstimo que cada geração recebe e deve transmitir à geração seguinte».(159)

«O homem e a mulher do mundo pós-moderno estão em risco permanente de se tornar profundamente individualistas, e muitos problemas sociais atuais são considerados em conjunto com a busca egoísta da gratificação imediata, com a crise dos vínculos familiares e sociais, com as dificuldades de reconhecer o outro. Muitas vezes se é diante a um consumo excessivo e míope dos pais que prejudicam os filhos … por isso, além da leal solidariedade entre-geracional, precisa reiterar a urgente necessidade moral de uma renovada solidariedade no seio das gerações» (BXVI) (162).

Ecologia e ambiente: intervista a Edo Ronchi

Edo RONCHI, già ministro dell’ambiente, presidente della Fondazione Sviluppo Sostenibile dialoga con noi sulla salvaguardia dell’ambiente.

Edo Ronchi classe 1950: com’è nata la passione per ambiente ed ecologia?

La nascita è caratterizzata da un momento preciso, una data e un luogo di nascita. La passione per l’ambiente per me è venuta da un processo di maturazione, è stata il risultato di impegno e anche di un po’ di studio. Quando ripenso alle mie esperienze che possono aver contribuito alla mia attenzione alle problematiche ambientali mi viene in mente la mia infanzia
Da piccolo in campagna quando aiutavo mio padre a coltivare la terra, e poi quando mio padre andò a lavorare in una fabbrica chimica e tornava a casa con i vestiti che puzzavano. Le mie prime esperienze di ambientalista, negli anni 70, con il movimento antinucleare, sia civile (contro le centrali nucleari), sia militare (contro le armi atomiche e i rischi di una guerra nucleare).
Di seguito l’impegno politico nella galassia dei Verdi: sono stato prima parlamentare e successivamente Ministro dell’Ambiente.
Mi ha sempre appassionato lo studio delle problematiche ambientali: ho scritto e pubblicato numerosi testi, ho avuto incarichi di insegnamento di Legislazione ambientale all’Università di Bologna e poi di Progettazione ambientale all’Università la Sapienza di Roma. Dal 2008 dirigo una Fondazione di ricerca sullo sviluppo sostenibile e la green economy che a sua volta è nata da un precedente Istituto di ricerca che avevo fondato nel 2000.

La preoccupazione ecologica è ancora un capriccio, una moda di alcuni o nota una maggiore attenzione a questo tema? Perché io – vivendo tra i giovani – verifico una certa disattenzione e / o disaffezione.

La crisi ecologica globale ha raggiunto livelli preoccupanti specie per il clima e la biodiversità, Questi due problemi sono stati studiati per anni. Le conseguenze drammatiche dell’aumento dell’inquinamento da gas serra in atmosfera e degli anomali cambiamenti climatici sono note, così come l’estinzione e lo stato critico di molte specie e la distruzione di importanti ecosistemi. La crisi ecologica già oggi costituisce causa rilevante di rischio e danno per la vita di milioni di persone, in particolare della parte più povera e più vulnerabile dell’umanità. È la minaccia più seria per il nostro futuro: per la produzione di cibo, la disponibilità di acqua potabile e di servizi eco-sistemici necessari al nostro sviluppo economico e sociale. In molte realtà locali, inoltre, la crisi ambientale – l’inquinamento diffuso, il degrado del territorio e delle città – costituiscono una seria minaccia alla salute e l’ostacolo principale allo sviluppo civile, prima ancora che economico.
La mancata consapevolezza ecologica dipende Come mai la gravità della crisi ecologica non è accompagnata da una corrispondente crescita della consapevolezza ambientale dei cittadini e dei decisori politici? Alla base di questo gap vi sono diverse ragioni, ne sottolineo tre. La prima: la nostra economia, sia a livello teorico che pratico, stenta a riconoscere il valore del capitale naturale perché lo ritiene abbondante, privo di titolo di proprietà, quindi di nessuno, e perché ritiene che, comunque, la scienza sia in grado di dominare a nostro piacimento la natura. Queste idee, e pratiche, dell’economia e della scienza hanno una grande forza perché hanno avuto un enorme successo: hanno causato anche guai e non hanno risolto tutti i problemi dell’umanità, ma hanno assicurato progresso e benessere per miliardi di persone. Ora non si tratta più solo di stare un po’ più attenti all’ambiente o di impegnare un po’ di più tecnologia per disinquinare, ma di prendere atto che questo tipo di economia e di scienza non possono continuare così, sono diventati insostenibili per le risorse limitate e la limitata capacità di resilienza del nostro pianeta.
Per acquisire una consapevolezza ambientale adeguata alla nostra epoca servono oggi idee, e buone pratiche, di sviluppo sostenibile e di green economy.

La seconda: i modelli culturali largamente prevalenti che identificano il benessere con la crescita dei consumi e con il possesso di cose, alimentano una percezione distorta della realtà e ostacolano la comprensione di quanto l’ambiente sia una reale priorità per noi e per l’umanità. Il nostro modo di vivere influenza il nostro modo di pensare. Per promuovere maggiore consapevolezza ambientale occorre praticare e promuovere stili di vita sobri, non consumisti, e eco-sostenibili.

La terza: nella storia dell’umanità l’ambiente è stato, per millenni, una risorsa abbondante; la sua scarsità è un fatto recente, di pochi decenni. Noi incontriamo difficoltà a percepire l’urgenza delle problematiche ambientali nei termini, inediti, che ci coinvolgono da poche generazioni. Un esempio forse rende meglio la situazione. La rana è abituata alle variazione di temperatura dell’acqua degli stagni e non percepisce queste variazioni come pericoli perché avvengono, da lungo tempo, in un intervallo che non rappresenta un pericolo per lei. Così, se mettete una rana in una pentola di acqua fredda e la fate scaldare, non salta fuori quando l’acqua si scalda e si fa bollire. Noi, tuttavia, a differenza della rana, possiamo imparare rapidamente, acquisire informazioni, conoscenze, formazione e educazione. Ben sapendo che colmare il diffuso gap di consapevolezza ambientale non è facile e naturale come respirare, ma richiede impegno.

Era necessario che un pontefice intervenisse sul tema dell’Ecologia?

Come è noto Papa Francesco non è il primo pontefice che interviene in materia. Un amico, di recente, mi ha regalato un testo che raccoglie numerosi scritti e interventi di Papa Giovanni XXIII in materia ambientale. In realtà molti mistici e religiosi, non solo cristiani, sono intervenuti sul tema dell’ecologia: amando il Creatore hanno espresso amore per il creato e saputo riconoscere nella natura non solo caos e caso, ma la bellezza e la superiore connessione dello spirito divino. L’Encilcica “Laudato sì” di Papa Francesco, oltre a seguire il solco già tracciato da suoi predecessori, introduce, a me pare, importanti novità che, in un testo ricco e complesso, vanno lette con attenzione, per coglierne la reale portata non solo per i credenti ma anche per tutti gli uomini di buona volontà. Ne cito solo una: il livello, inedito in passato, raggiunto oggi dalla crisi ecologica, e climatica in particolare, che richiede una sollecita svolta, in particolare perché ha costi altissimi per la parte più povera della popolazione mondiale. Era necessario che un Pontefice intervenisse in modo così forte su questi temi? Penso di Si, perché hanno assunto una gravità mondiale e perché la politica, in generale, sembra troppo presa da una visione di breve termine, da interessi particolari e non sembra affrontare questa grave crisi iscrivendola nella sua agenda come sarebbe necessario, cioè come effettiva priorità.

Da poco si è conclusa Cop21 a Parigi: ritiene che queste grandi assise possano effettivamente servire a qualche cosa? Perché sembra che non cambi mai nulla.

So, anche perché vi ho partecipato diverse volte, quanto siano complesse, faticose, spesso con scarsi risultati o addirittura inconcludenti, queste conferenze internazionali. Ma sono indispensabili: senza dialogo, confronto, ricerca di soluzioni internazionali condivise non vi è possibilità di affrontare la crisi climatica globale. Non bastano, ma sono necessarie. E la COP 21 di Parigi ha raggiunto un Accordo fra 195 Paesi che potrebbe segnare un punto di svolta nelle politiche e misure per far fronte alla crisi climatica. Questo Accordo prevede, infatti, che gli impegni di riduzione dei gas serra che i Paesi hanno presentato, siano verificati e aggiornati periodicamente e che debbano portare a riduzioni di emissioni tali da contenere l’aumento di temperatura molto al di sotto dei 2 °C e il più possibile verso 1, 5°C e che entro la metà del secolo non via sia più aggiunta di emissioni di gas serra in atmosfera perché le emissioni ammesse dovranno essere solo quelle compensate dagli assorbimenti. I grandi cambiamenti richiedono tempo. Quelli ambientali in atto sembrano poco efficaci perché sono ancora troppo lenti rispetto alla velocità delle crisi ecologiche.

Alcuni giovani che scrivono per il nostro blog Giovanibarnabiti.it le chiedono: cosa possono fare i giovani per la tutela dell’ambiente?

Il primo suggerimento che mi sento di dare è quello di cercare di formulare meglio la domanda, di renderla più concreta e precisa. Di smetterla di parlare genericamente di ambiente, ma di informarsi su precise e concrete problematiche, generali o anche del loro territorio. E di tornare con domande precise e anche con qualche risposta.

«Come mai l’inquinamento insieme ai problemi cardiovascolari è la prima causa di morte in Italia, ma non si riesce a far passare questa evidenza come il primo problema da combattere?

È vero che sono morti “silenziose” ma non si capisce come mai nessuno faccia almeno finta di provare a risolvere il problema. (Però un esempio c’è, la città di Pontevedra in Spagna, 80 mila abitanti senza auto frutto di una politica seria ventennale che ha portato questa città ad essere un eccellenza da questo punto di vista).

In parte credo di avere già risposto a questa domanda cercando di spiegare alcune ragioni del gap esistente di consapevolezza ambientale. Vorrei però aggiungere che, in un quadro generale che resta ancora preoccupante, molte cose sono tuttavia cambiate in meglio. Non siamo affatto al punto zero, anche per l’inquinamento, anche in Italia. I dati sulle emissioni degli impianti industriali indicano un netto miglioramento; non tutti e non sempre in modo adeguato, ma la gran parte degli scarichi idrici, civili e industriali, sono oggi depurati e sotto controllo; il traffico delle auto è diminuito solo in alcune città, in altre è aumentato, ma le emissioni specifiche dei singoli veicoli sono significativamente diminuite negli ultimi 10 anni; la gestione dei rifiuti, non ancora in tutto, ma nella gran parte del territorio nazionale, è ormai fatta correttamente e gli smaltimenti illeciti, in passato molto presenti, oggi in molte regioni sono rarità.

«Il decreto che porta il suo nome del 1996 ha introdotto la raccolta differenziata in Italia. Ritiene che sia stato applicato del tutto oppure sia stato sbagliato qualcosa? Eventualmente cosa?».

Allora, nel 1997, oltre l’80% dei rifiuti veniva smaltito in discarica, oggi siamo al 31% (dato del 2014) . La raccolta differenziata e il riciclo sono cresciuti molto (da pochi punti al 45%), anche se restano ancora ritardi in alcune zone del Sud, ma in alcune Regioni siamo fra i migliori a livello europeo. Molto si può ancora migliorare per recuperare anche le zone del Sud dove siamo rimasti in ritardo, per migliorare l’industrializzazione del sistema del riciclo e avviare un sistema di economia circolare: migliorare la normativa sulla cessazione del rifiuto, migliorare alcuni sistemi collettivi di riciclo, realizzare nuovi impianti di riciclo dove mancano e per le filiere dove non sono sufficienti, utilizzare meglio gli strumenti economici, migliorare i prodotti e loro riciclabilità, far decollare gli acquisti pubblici verdi.

La Natura si “vendicherà” di noi o avrà “misericordia”?

Se uno lancia la sua auto contromano in autostrada, se ha un’incidente non può certo dire che l’autostrada o il destino sia stato con cattivo con lui. Raccogliamo ciò che seminiamo, anche nel nostro rapporto con la natura. Se coltiviamo bene, con amore e cura, la terra ci darà buoni frutti a lungo, se lo facciamo male diventerà arida e non ci darà più nulla.